Hanno cominciato Cachemire podcast nel 2020 per farsi regalare cardigan “morbidissimi” da sontuose case di maglieria italiana e prendersi gioco delle stesse persone che li indossavano. La più grande contraddizione dell’appuntamento settimanale dei comici Luca Ravenna e Edoardo Ferrario, giunto alla fine lo scorso maggio. È curioso vedere come la conclusione (definitiva? Mai dire l’ultima parola) del progetto vada quasi in parallelo con una delle personalità più citate dal duo in ogni puntata: Silvio Berlusconi.
Un “papà” televisivo, che ha portato in Italia I Simpson e ha plasmato l’immaginario sia politico che culturale del paese. Compreso quello dei comici, che hanno esaltato e preso in giro l’ossessione italica per tutto ciò che riguarda l’ex premier, analizzata sia dentro che fuori il podcast. Abbiamo chiesto loro cosa li abbia spinti a citare il Cavaliere un episodio si e l’altro pure, dando la misura dell’impatto dell’imprenditore sulla generazione nata nella metà degli anni Ottanta (1987 per la precisione), cresciuta a pane e Mediaset.
La morte di Silvio Berlusconi ha coinciso con la fine di Cachemire. Un caso?
Edoardo Ferrario: Spero non sia morto dal dolore. Però no, non credo ci sia una connessione.
Luca Ravenna: Abbiamo sempre detto di aver cominciato il podcast per avere la possibilità di parlare con Silvio Berlusconi e tutta la scia di quelle persone con i “maglioncini morbidi” che volevamo prendere in giro. Abbiamo iniziato nel 2020 con Walter Veltroni. Silvio non ha mai accettato l’invito. Quando ci riferivamo al Cavaliere parlavamo della nostra infanzia, lui che era il portatore dei maglioni su camicia per eccellenza, il rappresentante ad hoc del mondo della televisione. Ricordo quando nel 1994 andavo a scuola e vedevo tutti i genitori dei miei compagni guardarlo ammirati. Nel bene o nel male, è stato un personaggio clamoroso per la società italiana.
E cosa gli avreste chiesto se fosse stato vostro ospite?
L.R.: Abbiamo sempre detto che se fosse venuto non avremmo parlato di politica, ma di donne, di come si seducono, come si conquistano e come si gestiscono i rapporti interpersonali con l’altro sesso. Perché alla fine lui era questo. Quanto desiderava farsi amare? E in quanti hanno seguito il suo esempio. Oggi probabilmente negherebbero, ma ho ricordi precisi di come veniva acclamato. Comunque pensavamo che, semmai, sarebbe andato più a Muschio Selvaggio.
E.F.: Probabilmente gli avremmo chiesto com’è assumersi la responsabilità di aver plasmato un intero paese, detenendone il potere politico e culturale. Forse gli avremmo chiesto cosa abbia significato giocare con gli interessi di una nazione in maniera machiavellica, impersonando la parte peggiore degli italiani. Ne ha incarnato le pulsioni in maniera precisa, spostando dalla sua parte il favore popolare.
In Cachemire, infatti, è stato citato spesso in riferimento alla vostra infanzia. In qualche modo vi ha cresciuto, ma come?
L.R.: Lo ha fatto, ovviamente in una chiave ironica. Una cosa che fin da piccolo ho sentito dire su Silvio Berlusconi è che è un criminale, ma è pur sempre il numero uno. Che è il più simpatico, il più autoironico: questa è la cosa migliore che ha fatto. Edoardo riporta sempre che Berlusconi negli anni Novanta prese nella sua schiera tutti i migliori autori di sinistra per farsi prendere in giro sui propri programmi, con battute sulla sua altezza e quant’altro. Una tipica mossa alla Giulio Andreotti, usare un’arma puntata contro di lui a proprio vantaggio. Nessun altro politico ne è stato capace, volontariamente almeno. Matteo Salvini non sa prendersi in giro, Giorgia Meloni ci prova, a sinistra lasciamo proprio perdere.
E.F.: È stato un visionario. Ha sperimentato dando inizio a programmi interessanti. È stato lui a portare I Simpson su Italia 1. È grazie a lui e a Mediaset se ho potuto scoprirli da piccolo, quando non c’era internet. Ogni comico deve qualcosa ai Simpson, come ogni stand-up comedian deve qualcosa a Woody Allen.
Una tv da cui siete stati attratti, ma vi ci siete mai riconosciuti?
L.R.: Il punto, in verità, è proprio questo. Non esserci mai riconosciuti in quel tipo di spettacolo. Ricordo anche il momento in cui ho realizzato quanto potesse essere pericoloso Berlusconi: quando Serena Dandini salutò L’ottavo nano (programma comico e satirico, ndr.) con l’inizio della par condicio del 13 maggio 2001. O l’Editto Bulgaro, che nel 2002 fece fuori Michele Santoro, Daniele Luttazzi e Enzo Biagi, i quali non vennero più chiamati a condurre in Rai. Lì dimostrò di non essere poi così autoironico. L’inizio della mia crescita è stato accompagnato dalla comprensione del potere che l’ex premier aveva nel controllare i media. È stato come vivere Quarto potere, ma nella realtà, con protagonista un criminale che, alla fine, non credo abbia pronunciato la parola ‘Rosebud’, bensì si era assicurato di essere diventato il nanetto più figo del mondo.
Molti, però, un’ossessione verso Silvio Berlusconi l’hanno sviluppata. Ed è anche un po’ quella che voi prendevate in giro col podcast. Come la giustificate?
E.D.: Da che ne ho memoria, c’è sempre stata una forma di ossessione nei confronti di Silvio Berlusconi. Non ho ricordi del primo governo nel ’94, avevo solo sette anni, ma crescendo ho avvertito sempre più forti le fazioni che si creavano. Prendo ad esempio i miei genitori e i loro amici: c’erano quelli di destra che beneficiavano di un simile personaggio che non faceva nulla contro l’evasione fiscale. E dall’altra c’erano quelli di sinistra che non si davano pace sul fatto che un personaggio così gretto avesse conquistato la maggioranza del paese. Erano delle lotte intestine che davano la sensazione di una farsa generale. Ed è questa la verità, che c’erano davvero dentro tutti.
E la sua capacità di diventare un meme?
L.R.: Quella è figlia dei tempi, di quella follia che sembra talmente impossibile che alla fine si avvera, quasi come Magalli candidato alla presidenza della Repubblica. A dargli forza è stato il periodo ante Instagram, in cui Facebook era al suo apice. Quello in cui il memismo superava la realtà. E la capacità di Berlusconi è stata di saper surfare su tutti i media possibili, come si trovasse sulla spiaggia di Venice Beach senza alcun problema con le onde o con la tavola. Silvio Berlusconi ha surfato sui meme.
E.F.: Ma poi è stato il più grande comunicatore degli ultimi cinquant’anni. È riuscito a diventare un meme anche per i ventenni. Sei nato nel 2003, nel pieno del suo governo, perciò può darsi che non ne ricordi nulla delle sue svolte politiche. Ma oggi sei su TikTok e ti vedi i suoi video. Ha più visualizzazione del resto dei politici italiani messi insieme. Non è facile diventare virale a ottantasei anni. Significa essere abile nel trovare lo strumento con cui parlare a tutti.
L.R.: Tra l’altro, citando una delle battute più divertenti di Edoardo, il primo podcast italiano lo ha creato sempre Berlusconi con le intercettazioni. Tutti eravamo lì ad ascoltarlo, mentre Marysthelle gli chiedeva “Amore, mi fai fare il Bagaglino?”.
Tra il surfare sui vari media e sui social come TikTok, il leader di Forza Italia è stato protagonista anche di diverse opere cinematografiche e televisive. Qual è il vostro Berlusconi preferito sullo schermo, escluso Berlusconi stesso?
L.R.: L’imitazione di Sabina Guzzanti. Ricordo ancora quello sketch in cui cui il suo Berlusconi tira un mattone addosso a un passante e urla: “È stato un immigrato, l’ho visto, è andato dillà”. Poi è scontato nominare Il caimano, anche perché trovo che il cinema dovrebbe anticipare gli eventi, più che documentarli, per questo trovo sia molto più interessante un film come Il portaborse di Daniele Luchetti. O, citando Edoardo, il bellissimo Le finte bionde di Carlo Vanzina, tratto dal libro del fratello Enrico, che colse la fine degli anni Ottanta col tramonto dello yuppismo e la caduta del muro di Berlino. L’Italia aveva creduto di poter rimanere sempre così, volgare e ricchissima, invece la società era pronta a cambiare con l’arrivo degli anni Novanta/Duemila. A volte invece mi domando dove sia finito Loro di Paolo Sorrentino, non si riesce a reperire da nessuna parte (Medusa lo ha distribuito in sala, ma mai in altro formato e non è mai stato programmato in tv – ndr).
E.F.: Anche per me Guzzanti. È stata tra i primi, e forse l’unica, a centrare il personaggio. Molti negli anni successivi hanno tentato di imitarlo o di fare una facile comicità semplicemente tirandolo in ballo. Ti svegliavi, vedevi cosa aveva detto il giorno prima, poi lo ripetevi. Questo ha portato a strumentalizzare la satira, di cui Berlusconi ha usufruito, uscendone più umano. Faceva comodo a tutti e tutti ci hanno campato sopra. Oggi gli uffici stampa pagano delle persone per far girare i meme e persuadere l’elettorato. Lo sa bene Beppe Grillo, comico che per tanti anni ha lavorato con Berlusconi, fino a fondare il Movimento 5 stelle. E così ci siamo beccati Salvini che balla Rovazzi e Giorgia Meloni che concede di remixare i suoi discorsi.
Ultima domanda: il primo pensiero quando avere saputo che era morto Silvio Berlusconi?
E.F.: Ero in un bagno di un hotel a Bruxelles e ho pensato: sono vecchio. Ho sentito tutto il peso della mia età, mi ha fatto quasi più impressione di quando hanno dato l’annuncio della morte di Robin Williams. La morte di Berlusconi è legata a quella giovinezza di cui abbiamo parlato, ha avuto lo stesso effetto che la morte di Giulio Andreotti ha avuto sui miei genitori. È il politico con cui sono e siamo cresciuti. Politicamente non ne sono mai stato un sostenitore, io che mentre ero studente andavo a manifestare contro le atroci leggi vergogna o del legittimo impedimento. Ma culturalmente qualcosa rimane, credo abbia lasciato un pezzo di sé in ognuno di noi.
L.R.: Ed è di quel pezzo che ho paura. Come cita la famosa frase che viene attribuita a Giorgio Gaber, ma non dovrebbe essere sua: “Non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me”. Alla notizia della sua scomparsa ho pensato: è morta la nostra regina. Circa un anno fa l’Inghilterra perdeva Elisabetta II, nel Bel Paese nel secolo del Novecento non c’è stato nessun italiano così grosso. Forse Giovanni Agnelli, morto nel 2003. Ci hanno entrambi traghettato nell’era digitale, solo che Agnelli è rimasto saldo a un’idea analogica, mentre Berlusconi, probabilmente, è andato addirittura oltre.
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