Fiamme rosse illuminavano il palco e le antiche rovine romane, il ritmo sembrava uscire da un inquietante ed eccitante altrove dell’anima, Mick era anche lui rosso – indossava una sorta di pelliccia sintetica color fucsia – rosso come il peccato, rosso come Satana. E infatti la canzone era Sympathy for the Devil, il posto era il Circo Massimo, l’anno il 2014. Loro erano i Rolling Stones e Mick Jagger aveva (solo) 71 anni. Eppure correva su e giù il palco come un indemoniato, talvolta a ombelico scoperto, cantava come posseduto da una forza sovrannaturale, forse aliena.
Molti si chiedevano, e si chiedono ancora oggi: ma non dovrebbe essere morto, Mick Jagger? Non dovrebbero, i Rolling Stones, aver già un posto d’onore nel paradiso delle superstar, oppure godersi una meritatissima pensione in una casa di riposo di lusso? Qualcun altro si domanda, ancora: non dovrebbe Mick Jagger essere studiato dalla scienza, lui che canta, balla, suona e corre su e giù per un palco chilometrico per oltre due ore? Non dovrebbero essere dei vecchi babbioni, questi signori intorno agli ottanta? Non è semplicemente impossibile quel che vediamo sul palco? Gli Stones, che sono in giro dalla bellezza di sessantuno anni, dovrebbero essere storia da decenni, e invece sono ancora lì, a calcare le scene davanti a tre o quattro generazioni di fan. E loro se la ridono: “Siamo contenti di suonare finalmente in un posto che è più vecchio di noi”, sibilò con un ghigno Mick durante quel concerto al Circo Massimo.
Nel multiverso del rock
Oggi Mick Jagger compie ottant’anni. E le domande che si ponevano nel 2014 si fanno ancora più stupefatte: credevamo tutti che la rivoluzione del rock’n’roll potesse vivere al massimo una decina d’anni, potesse cavalcare la mutazione genetica delle genti e delle culture degli anni sessanta e settanta e finirla lì. Ed invece, loro sono sempre qui, compresi ghigno, labbroni e linguaccia (uno dei più solidi marchi di tutti i tempi). Il famoso “voglio morire prima di diventare vecchio” degli Who in My Generation (1965) è, quello sì, un pezzo d’archeologia, quel che è rimasto è il Time is on my Side (1964) di Mick & soci. Che rotolano ancora. Quasi una sorta di multiverso del rock, un fenomeno simile alle infinite timeline alternative dei supereroi della Marvel.
E’ nato il 26 luglio del 1943, Michael Philip Jagger detto Mick. A Dartfort, un comune inglese della contea del Kent. Alla cui stazione ferroviaria una blue plaque ricorda che qui Mick e Keith Richards s’incontrarono per la prima volta: una targhetta commemorativa, un po’ tipo quella di Firenze a rimembrare la casa in cui visse Galileo Galilei, per dire. Era ancora il tempo della guerra, il mondo era in bianco il nero, il blues era lontanissimo. Ottanta candeline (come Mario Monti: quand’era premier circolava una doppia foto con lui e Mick con sotto la scritta “hanno la stessa età”), che mettono in crisi la nostra nozione di tempo e di spazio, una specie di manifesto della teoria della relatività di Einstein in salsa pop.
Le rughe di Mick Jagger
Eppure, ormai la terza età degli ultimi titani del rock è un argomento arato da decenni. Oltre vent’anni fa se ne cominciò a parlare quando a Bill Wyman, allora ancora il bassista degli Stones, venne concessa la tessera anziani per il trasporto pubblico britannico. Oggi a parlare chiaro sono le profondissime rughe di Mick, ognuna delle quali racconta una storia a sé.
Ne citiamo alcune a casaccio, tra le tantissime: quella volta che gli Stones si pentirono amaramente di aver suonato dopo James Brown che fu talmente fulmicotonico da far sembrare loro dei ragazzini imbarazzati, le presunta rivalità con i Beatles (definiti da Mick “un mostro con quattro teste”), il disastro del concerto di Altamont, quando proprio mentre loro eseguirono Sympathy for the Devil, gli Hell’s Angels ammazzarono uno spettatore, con ciò mettendo bruscamente fine all’utopia di Woodstock, il periodo altamente stupefacente che portò soprattutto Keith più volte sull’orlo del Creatore, la leggendaria realizzazione di Exile on Main Street in Costa Azzurra, il progressivo scivolamento di Jagger verso il jet set internazionale, la trasformazione dei Rolling Stones in un’industria multimilionaria, la sopravvivenza alla propria mitologia e alle naturali cadenze di una vita umana.
Con bizzarri effetti sull’intreccio tra le generazioni: quando qualche anno fa Mick Jagger fu padre per l’ennesima volta, il bebè appena si trovò ad essere tecnicamente lo zio dei suoi nipoti, molto più grandi. Il giorno che Mick ebbe la chiamata di sua figlia che gli annunciò che sarebbe diventato bisnonno, dato che la di lei figlia era rimasta in cinta, Mick si limitò a rispondere: “Well done”, ben fatto.
Dunque non è un caso che di questi tempi circoli molto sui social un frammento di una intervista televisiva del nostro del 1964, nella quale all’allora ventunenne Jagger viene chiesto per quanto tempo ancora si vedeva a fare il mestiere del rock’n’roll. Massimo uno o due anni, rispondeva quello. Proprio non riusciva ad immaginarsi che questa vita – scrivere canzoni e calcare il palco davanti a folle di ragazze impazzite e ragazzi eccitati, impugnare lo scettro del blues che per vie avventurose era arrivato dall’America (in nave, è vero, sulle coste britanniche) – potesse durare più d’un battito di ciglia. Impensabile.
Picche al Vaticano
E invece eccolo qua. I Rolling Stones sono sopravvissuti a se stessi, ai propri momenti di declino, e hanno saputo incarnare al massimo livello la loro trasformazione in mitologia reale. Sono sopravvissuti alla morte di Charlie Watts – non sembrava, ma è stato uno dei più grandi batteristi di sempre, e si rimase tutti di stucco perché nessuno credeva, a quel punto, che uno dei Rolling Stones potesse morire davvero – e ormai siamo convinti che andranno avanti finché non scompariranno per sempre dalla faccia della terra.
Emblematica della loro consapevolezza di sé è la storia del concerto a Cuba, all’Avana, nel 2016. Ad un certo punto, dopo aver cambiato la data dell’esibizione al 25 marzo quando si seppe che negli stessi giorni Barack Obama si recava in visita sull’isola di Fidel – per un presidente americano la prima volta dal 1928 – il Vaticano annunciò che a giorni sarebbe giunto anche Papa Francesco per il Venerdì santo, suggerendo a sua volta un rinvio. Ma Mick, Keith e gli altri ragazzi della banda risposero picche: “Diamine, noi siamo i Rolling Stones!”.
Nel frattempo, Jagger tra le altre cose ha avuto alle spalle un’operazione al cuore: è un fatto che pochi giorni dopo è stato visto passeggiare serenamente per un parco, e neanche dieci giorni dopo in un breve video suonava la sua Fender Stratocaster per la delizia dei fan, abbastanza increduli. Dicono che la sua straordinaria forma fisica sia il risultato di allenamenti infiniti (l’addio alle droghe risale ormai a quattro decadi fa), le leggende parlano di trasfusioni con il sangue di mille vergini (ma, appunto, trattasi di leggende), qualcuno sospetta l’effetto adrenalina a dosi esplosive incassate davanti alle decine di migliaia di persone di uno stadio, impazzite oggi ancora una volta per l’ennesima volta per Satisfaction o una Gimme Shelter portata al parossismo.
No, non si fermano
E poi ci sono i preparativi di un nuovo album delle Pietre Rotolanti: il primo con pezzi inediti dal 2005 (A Bigger Bang), ma soprattutto per la prima volta da vari secoli ci sarà anche Bill Wyman, il bassista storico, oggi ottantaseienne. Non c’è ancora un titolo, né una data d’uscita, ma il disco ha già fatto molto parlare di sé, dato che in alcuni brani suoneranno anche Paul McCartney e Ringo Starr. Non mancherà, ça va sans dire, un omaggio a Charlie Watts. Ebbene, i Beatles superstiti che entrano a far parte dei Rolling Stones, sia pure per un solo disco, trattandosi dei più grandi dei grandi – ossia di coloro che stabilirono il canone della musica che ha dato i connotati al Novecento – è un po’ come se Michelangelo e Leonardo si fossero uniti a dipingere l’ultimo affresco.
Ora, non è dato sapere quanto durerà tutto questo. Poche settimane fa abbiamo visto anche gli Who calcare ancora i palchi, ed è stata di nuovo un’epifania, con Roger Daltrey – coetaneo di Mick – ancora capace di urli ultraterreni e Pete Townshend a roteare il braccio nei riff di Baba O’ Riley come ai vecchi tempi. Anche Bruce Springsteen è ancora in giro a farsi gli stadi (peraltro con toni dolenti, quantomai crepuscolari pur con tutta la sua proverbiale energia), Bob Dylan canta l’ode a Kennedy nel suo Never Ending Tour. McCartney pochi mesi fa era ancora in tournée, lavora a nuovi dischi e alla storicizzazione sua e dei Beatles (vedasi la storia del nuovo “ultimo singolo” dei Fab Four con la voce di John Lennon affidata alle cure dell’intelligenza artificiale): non c’è da spaventarsi né meravigliarsi. E’ il multiverso del rock’n’roll, sono le pietre che rotoleranno in eterno.
Però lo sappiamo: sono gli ultimi titani. Sono quelli che hanno cambiato la storia della musica, dei costumi e dei cuori come raramente è successo nel vortice infinito della storia umana, sono quelli che ancora impugnano lo scettro dei desideri, del desiderio. Dopo di loro, quel lampo, quell’improvviso balzo in avanti dell’immaginario che è stata la rock revolution sarà definitivamente consegnato al passato. Jagger – che con Keith e gli altri ci ha sempre giocato con la morte – lo sa e ovviamente se la ride, avvolto dalle fiamme dell’inferno paradisiaco del rock’n’roll. Buon compleanno, Mick.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma