Hip hop, house, soul, elettronica: la colonna sonora di Monkey Man è sfacciata. Come il suo regista

L'esordio alla regia di Dev Patel si divide in tre grandi aree musicali che comunicano tra di loro: la score di Jed Kruzel, i brani non originali e il sonoro. Tutto è musica: dallo sfrigolio del fritto dello street food indiano alle lamiere delle baracche. In mezzo un miscuglio di generi che fa coesistere Sting con Bollywood, i Jefferson Airplane con il deep funk

Sitar, tampura, dhol, bansuri, sarangi. Tipici strumenti musicali indiani presenti in una produzione qualsiasi di Bollywood. Un marchio di fabbrica sonoro, anche ampiamente abusato da un certo cinema occidentale che pigramente ne riproduce le sonorità per dare un tocco “esotico” a storie ambientate in Asia meridionale. Ecco, metteteli da parte (o quasi). Perché Monkey Man (qui la nostra recensione), l’adrenalinico esordio dietro la macchina da presa di Dev Patel ambientato in una fittizia metropoli indiana stravolge completamente le regole per creare un tappeto sonoro unico, originale, multiforme, azzardato, sfacciato.

Monkey Man: andare oltre lo scontato

Il merito è di Patel in primo luogo che, come dichiarato a Edith Bowman nel suo podcast Soundtracking, ha rifiutato l’idea di affidarsi ad una partitura che si rifugiasse in melodie fin troppo scontate, e dell’australiano Jed Kurzel, fondatore dei The Mess Hall e già compositore delle colonne sonore di Alien: Covenant, Kelly Gang, Macbeth e L’esorcista del papa. Ma questo non significa che Monkey Man non sia anche un poderoso omaggio all’India da parte di Dev Patel che a templi semi diroccati, foreste incontaminate, leggende tramandate di madre in figlio contrappone corruzione, povertà e criminali camuffati da leader spirituali.

Scritto a sei mani con Paul Angunawela e John Collee e prodotto – tra i tanti – da Jordan Peele con la sua Monkeypaw Productions che ha “strappato” il film a Netflix per regalargli un’uscita in sala con Universal Pictures, Monkey Man vive di tre grandi aree musicali. La già citata partitura, i brani non originali e il sonoro.

Sono ventotto i professionisti che si sono occupati del sound department del film. E il risultato è sbalorditivo (anche grazie all’ottimo montaggio, anch’esso per certi versi “sonoro”, di Joe Glado, Dávid Jancsó e Tim Murrell). Il film segue Dev Patel nei panni di Kid, un giovane che si guadagna da vivere in un fight club clandestino dove, notte dopo notte, indossando una maschera da gorilla – reminiscenza della leggenda di Hunuman narratagli da bambino dalla madre – viene picchiato a sangue da lottatori più famosi e forti in cambio di denaro.

Ma in lui arde il fuoco della vendetta. Dopo anni passati a sognarla decide di metterla in atto infiltrandosi nel cuore nero dell’élite corrotta della città per rendere giustizia a sua madre e al suo popolo, spazzato via da un’ondata di violenza. La stessa che scatenerà lui contro i responsabili del suo dolore. Una resa dei conti che strizza l’occhio al cinema di genere, con tanto di battuta riferita a John Wick – tra le reference più smaccatamente esplicite del film – a Bruce Lee e Quentin Tarantino.

Tutto è suono

“La violenza è un atto di comunicazione”. Ma, aggiungiamo, anche una danza che ha bisogno della sua musica per crescere e prendere forma. Ne è un esempio la sequenza dell’allenamento nel tempio – al ritmo di tabla, unico esplicito strumento a percussione indiana a comparire sullo schermo – in cui Kid viene accolto da Alpha (Vipin Sharma) e la sua comunità transgender.

Macchina a mano e primi piani. La stessa regia di Monkey Man sottolinea e amplifica il movimento, il ritmo, la musicalità dell’intero progetto. Tutto è suono. Lo sfrigolio del fritto dello street food indiano, il soffio del fumo, le corse a perdifiato nei vicoli, i fornelli che scaldano padelle incandescenti, gli animali notturni. E ancora: le urla, i vetri infranti, i proiettili, le lamiere delle baracche, i coltelli nella carne, la cocaina sniffata sui corpi venduti, i gemiti nei bordelli, i fuochi d’artificio, le suppliche.

Monkey Man, tra hip hop, house e soul

E se Jed Kurzel nelle trentadue tracce che compongono la score originale alterna elementi acustici (Restaurant), sonorità elettroniche (Into the Fire, Baba Shakti, Hanuman, Home, The Wallet Song), percussioni (On the Ground, Get Up, Naam Mera) passando per elementi futuristici (Rana, Saffron Takeover), sonorità tradizionali (Diwali Madness, Training) e archi (The Kid, The Tree), la scelta dei brani non originali è un’esplosione di generi.

Una scena di Monkey Man di Dev Patel

Una scena di Monkey Man di Dev Patel

C’è l’elettronica di Vessel con Red Sex; l’hip hop di JID con 151 Rum e Rick Ross con The Devil Is A Lie; il rhythm and blues di Tina Turner con I Don’t Wanna Fight; il deep funk dei Polyrhythmics con I Believe in Love; l’house di Redlight in cui gli Swedish House Mafia e Sting intrecciano sonorità da club e sintetizzatori con la voce dell’ex leader dei Police in un campionamento di Roxanne, la versione di Somebody To Love dei Jefferson Airplane remixata dai Gordon City in salsa elettrohouse, la citazione a Bollywood con Ooh La La di Bappi Lahiri e Shreya Ghoshal e Dana-Dan, lo spiritual raggae dei Boney M. con Rivers of Babylon per arrivare ai titoli di coda accompagnati dalle note di Grow – A Colors Encore di Facesoul. Una ballad soul. Una resa pacifica. “Don’t be afraid, after the darkness is light”.