Briganti: la serie che cerca l’oro del Sud dopo l’Unità d’Italia strizzando l’occhio a Sergio Leone (e si concede troppe licenze storiche)

Scritto dal collettivo GRAMS*, il titolo romanticizza il fenomeno del brigantaggio facendo assurgere i suoi protagonisti a figure dai tratti eroici. Una scelta narrativa che, sebbene ispirata a figure realmente esistite, dimentica molto altro. Su Netflix dal 23 aprile

È sempre la stessa storia. O meglio, la storia di volta in volta è sempre diversa ma è trattata nello stesso modo. Con quella libertà narrativa che intreccia il romanzato con la leggenda passando, addirittura, per il revisionismo. Ultimo esempio Briganti, la serie Netflix firmata dai GRAMS*, il collettivo già dietro Baby composto da Antonio Le Fosse – anche regista insieme a Steve Saint Leger (Vikings, Vikings: Valhalla, Barbarians) e Nicola Sorcinelli (Moby Dick) – Re Salvador, Eleonora Trucchi, Marco Raspanti e Giacomo Mazzariol.

Un crime western composto da 6 episodi, prodotto da Fabula Pictures in associazione con Los Hermanos, ambientato nel Sud Italia, due anni dopo l’Unità d’Italia.

Briganti, la trama

È la voce fuori campo di Giuseppe Schiavone (Marlon Joubert) a darci le coordinate spazio temporali per inquadrare il racconto. Dopo aver combattuto fianco a fianco con le camice rosse dei garibaldini resta in lui la delusione e lo scontento di una promessa mancata. Il sud Italia, terra ricchissima, diventa vittima di saccheggi selvaggi e gli uomini di Garibaldi lasciano dietro di loro solo fame e miseria.

Marlon Joubert in una scena di Briganti

Marlon Joubert in una scena di Briganti

Schiavone parte così alla ricerca del cosiddetto oro del Sud. Sul suo cammino incontrerà una donna, Filomena (Michela De Rossi), che per sfuggire a un facoltoso marito violento si unisce a un gruppo di briganti dei quali diventerà parte integrante.

Briganti, tra leggenda e licenze storiche

“Per essa avrei dato fuoco al mondo” c’è scritto sulla mappa custodita da Schiavone che nasconde il segreto sull’oro a cui tutti aspirano. Ma di fuoco, inteso come calore e intensità, ce n’è ben poco in Briganti. A dare ritmo a un racconto che di suo non si discosta molto da prodotti in costume simili, la colonna sonora firmata da Michele Braga intervallata da brani moderni. Elemento dissonante rispetto all’ambientazione e scelta già ampiamente battuta da altri titoli. Così come l’uso di elementi storicamente incorretti, tra tatuaggi, trucco e armi.

Formalmente curata – al netto delle licenze storiche – nei costumi, nelle scenografie, nella fotografia e nella gestione di sequenze di combattimento, Briganti ha dalla sua la possibilità di attrarre un pubblico internazionale. E questo proprio in virtù di uno stile in linea con altre produzioni Netflix e quindi “riconoscibile”, nonostante racconti una storia molto locale. Ma non necessariamente questa sua riconoscibilità è uno strumento a suo favore. Il rischio è quello di non trovare una propria unicità ma omologarsi ad altri titoli che affollano le già nutrite fila della piattaforma.

Matilda Lutz in una scena di Briganti

Matilda Lutz in una scena di Briganti

Una storia romanticizzata

Disinteressata ad approfondire la questione meridionale, la serie strizza l’occhio allo spaghetti western di Sergio Leone, tra campi larghi, sigari e cappelli a falda larga. E si concentra, inoltre, nel delineare il ritratto dei briganti come i buoni della storia contrapposti allo Stato e ai “piemontesi” con una forte attenzione alla componente femminile ricollegata alla leggenda che apre la serie secondo cui “una donna libererà il sud”.

Così facendo il fenomeno del brigantaggio viene romanticizzato e i suoi protagonisti assurgono a figure dai tratti eroici, dimenticando tanto altro. Una scelta narrativa, indubbiamente. Ma quando si tratta di maneggiare materiale del genere, sebbene ispirato a figure realmente esistite, si dovrebbe evitare così tanta confusione (storica).