Terrorismo, spionaggio e patriottismo. O di come le serie tv raccontano la politica americana

Ultima, in ordine di tempo, The Diplomat. Ma da The West Wing a Homeland passando per House of Cards, il piccolo schermo da sempre guarda (e mette in scena) ciò che avviene alla Casa Bianca, tra elezioni, spionaggio e fake news

Gli Stati Uniti d’America sono scenografici. E non solo per le cime dei grattacieli che si perdono tra le nuvole o le distese infinite di sabbia del deserto, per lo skyline delle metropoli o le colline di Hollywood. Sono scenografici anche per la loro capacità di essere diventati parte integrante dell’immaginario collettivo, tra sogni e diritti alla felicità contrapposti a ombre e cocenti contraddizioni. E la politica americana abbraccia alla perfezione questa dicotomia.

La politica americana, tra fiction e realtà

Se l’America è la terra delle infinite possibilità allora non c’è da stupirsi quando una stella del cinema come Arnold Schwarzenegger diventa governatore della California o, come nel caso di Ronald Reagan, finisce dietro la scrivania dello studio ovale. Per non parlare poi della scalata di Donald Trump (ora alle prese con beghe giudiziarie, tra il processo per stupro intentato dalla giornalista E. Jean Carroll e il caso Stormy Daniels) che, dall’imprenditoria e i reality show (The Apprentice), è finito per diventare il 45° inquilino della Casa Bianca.

Una sorta di cortocircuito che intreccia fiction e realtà. Un po’ come l’assalto, tra il grottesco e l’inverosimile, andato in scena il 6 gennaio 2021 a Capitol Hill, sede del Governo degli Stati Uniti.

Complottisti QAnon e repubblicani irriducibili si sono dati appuntamento per colpire uno dei simboli della politica americana all’indomani della vittoria di Joe Biden, ritenuta illegittima, restituendoci immagini degne di un disaster movie.

Keri Russell e le crisi internazionali di The Diplomat

Se il cinema, da Tutti gli uomini del presidente di Alan J. Pakula a Lincoln di Steven Spielberg, ha attinto a piene mani dall’attualità, dalla politica e dalla storia americana, anche la serialità negli ultimi vent’anni ci ha regalato molti titoli di spessore. Serie tv che spesso riflettono e raccontano i passaggi chiave della politica statunitense (e, quindi, dal resto del mondo). Ultima in ordine di tempo, The Diplomat, disponibile su Netflix e già rinnovata per una seconda stagione.

Creata da Debora Cahn, già sceneggiatrice di The West Wing, Grey’s Anatomy e Homeland, la serie vede protagonista Keri Russell nei panni di una diplomatica americana abituata a confrontarsi con crisi internazionali. Il bombardamento in mare di una portaerei britannica la farà atterrare, suo malgrado, in Inghilterra, dove dovrà cercare di scongiurare lo scoppio di una guerra mentre il suo matrimonio rischia di andare a rotoli.

Cahn prende elementi della politica americana e intrecci classici del genere sentimentale, li frulla e ci restituisce un racconto ibrido. Una visione piacevole e ben confezionata ma senza particolari picchi o brividi.

Keri Russell in una scena di The Diplomat

Keri Russell in una scena di The Diplomat

The West Wing, la politica americana secondo Sorkin

Se, invece, dovessimo rintracciare la serie che per prima ha messo in scena la politica americana, con uno spessore narrativo tale da farsi stella polare per tutto ciò che sarebbe venuto dopo, non potrebbe che essere The West Wing – Tutti gli uomini del Presidente. Nata alla fine della presidenza di Bill Clinton, tra lo scandalo Lewinsky e il rischio dell’impeachment, la serie è stata creata da Aaron Sorkin.

Una garanzia in fatto di scrittura. Ma al suo fianco lo sceneggiatore ha chiamato anche Eli Attie, ex autore dei discorsi del vicepresidente Al Gore e assistente speciale del presidente Clinton. Un asso nella manica che ha permesso alla serie di basarsi su elementi reali e mettere in scena dinamiche credibili della vita all’interno della Casa Bianca.

The West Wing e l’aderenza al reale

A livello politico The West Wing – andata in onda sulla NBC dal 1999 al 2006 – si è concentrata nel contrapporsi alla visione politica di George W. Bush, tra guerra preventiva e chiusura all’inclusività. Come? Attraverso il suo protagonista, il presidente democratico Jed Bartlet con il volto di Martin Sheen. Uno sguardo dietro alle quinte dell’ala ovest della casa al 1600 di Pennsylvania Avenue.

Sette stagioni in cui la politica americana è stata raccontata attraverso un costante realismo. Dal pericolo di terrorismo (alla terza stagione fu aggiunto un episodio speciale, in onda il 21 settembre 2021, dieci giorni dopo l’attentato alle Twin Towers) alla diffusione di informazioni top secret. In mezzo disegni di legge, crisi di governo, attacchi chimici e tensioni tra differenti schieramenti politici.

La politica americana vista attraverso Homeland

Altra indiscussa punta di diamante della serialità legata alla politica americana è Homeland – Caccia alla spia. Creata da Howard Gordon e Alex Gansa per Showtime e basata sull’israeliana Hatufim, la serie si concentra sulla figura dell’agente della CIA Carrie Mathison, affetta da disturbo bipolare. A dare voce e corpo all’analista dell’agenzia di spionaggio è una superlativa Claire Danes.

Se The West Wing ero uno sguardo interno all’America, Homeland ha un respiro internazionale. Messa in onda a dieci anni di distanza dall’11/09, la serie azzarda (con coraggio) e costruisce le sue prime stagioni partendo dalla figura dell’ex Marine Nicholas Brody. Dopo otto anni di prigionia in Iraq, l’uomo viene liberato e riportato sul suolo americano. Ma Brody si è convertito alla causa terroristica di al-Qaida ed è pronto a compiere un attentato nel suo paese di origine.

Le riflessioni post 11/09

Una scelta complessa e rischiosa quella di far entrare nelle case degli americani, ancora alle prese con le ferite dell’attentato che ha segnato l’inizio del XXI secolo, un personaggio ricco di ombre quanto magnetico. Girata in varie location in giro per il mondo, Homeland, segna anche una svolta narrativa e stilistica.

Nel momento in cui l’America festeggiava la morte di Osama Bin Laden, la serie “costringeva” gli spettatori a fare i conti con le sfumature legate al terrorismo al patriottismo. Una nuova era politica era davanti ai nostri occhi e Homeland ce l’ha mostrata.

Dalle conseguenze in politica interna e internazionale, scaturite dalla guerra preventiva, alla tecnologia militare sempre più sofisticata, lo spionaggio russo e le fake news. Homeland parla una lingua moderna. Ed è ovvio se si pensa che la messa in onda copre gli anni che vanno dal 2011 al 2020, quelli – all’incirca – della presidenza di Barack Obama, che con la sua campagna presidenziale del 2008 rivoluzionò il modo di fare comunicazione politica.

Robin Wright e Kevin Spacey in una scena di House of Cards 3

Robin Wright e Kevin Spacey in una scena di House of Cards 3

La politica americana e le costolette di Frank Underwood

Presidenti liberali e agenti della CIA pronti a sventare attentati. E poi c’è lui: Frank Underwood. Il Machiavelli della politica americana interpretato da Kevin Spacey (costretto a lasciare il ruolo dopo il licenziamento del 2017 dovuto alle accuse di molestie). Il volto oscuro della politica che manipola per proprio tornaconto tutto e tutti.

È lui il protagonista di House of Cards – Gli intrighi del potere, serie prodotta da David Fincher per Netflix e creata da Beau Willimon basandosi sul romanzo di un politico inglese, il conservatore Michael Dobbs, poi adattato nell’omonima miniserie BBC degli anni Novanta.

“La democrazia è così sopravvalutata”

La sua è un’ambiziosa scalata al potere che da capogruppo di maggioranza alla Camera dei rappresentanti lo porta fino alla presidenza degli Stati Uniti. Un scalata combattuta a colpi di blackberry, costolette di maiale e manipolazioni dell’opinione pubblica. Una serie speculare a The West Wing.

Perché se la creazione di Sorkin puntava su una rappresentazione positiva del dietro le quinte della politica statunitense, House of Cards è la fotografia impietosa (quanto elettrizzante) della sua sconfitta. “We the People” recitano le prime tre parole della Costituzione. “Noi, il popolo”. Per Frank Underwood, estremizzazione di molte figure politiche (americane e non), esiste solo l’io.

Veep, The Americans e le altre

The West Wing, Homeland, House of Cards. Il grande slam delle serie sulla politica americana. Intorno a loro, però, gravitano tutta un’altra serie di titoli – da Scandal a The Americans – che, con risultati più o meno riusciti, hanno messo al centro del racconto campagne elettorali, spionaggio, lo scontro tra repubblicani e democratici o, come nel caso di Veep e Alpha House, si sono apertamente presi gioco della politica a stelle e strisce.

Se si guarda agli ultimi sei anni, con la fine del sogno di inclusione rappresentato da Obama e l’ascesa di Donald Trump, la politica della “più grande democrazia del mondo” ha subito un forte scossone. Il tycoon ha risvegliato gli istinti più populisti e nazionalisti dell’America risvegliando il suo ventre molle fatto di razzismo e discriminazione.

La sua campagna elettorale del 2016 è stata caratterizzata da un uso massiccio dei social (e l’ombra della mano russa) per diffondere notizie fasulle o teorie seguite da cittadini privi dei mezzi necessari per poter distinguere il vero dal falso. Tra muri al confine con il Messico, incitazioni alla violenza e procedure di impeachment, la parabola di Trump sarebbe perfetta per poter essere messa al centro di una serie tv. Chissà, magari la vedremo in una nuova stagione di American Horror Story.