C’è una generazione in lutto che ricorderà il 28 ottobre 2023 come la fine di un’epoca. La morte di Matthew Perry, il Chandler Bing di Friends è il punto di non ritorno di quegli uomini e quelle donne che, all’alba di un’adolescenza post ideologica – direbbero i loro padri – o di una nuova era fatta di istanze fino ad allora sconosciute ed esigenze diverse – quella generazione che sarebbe stata la migliore del dopoguerra se non fosse stata soffocata nel sangue di Seattle nel 1999 e di Genova nel 2001 -, avrebbe trovato in Friends tre uomini e tre donne che li avrebbero accompagnati per dieci anni. Quelli che fuori da quei due appartamenti dirimpettai, avrebbero cambiato il mondo come lo conosciamo, le sue abitudini, dal modo di prendere l’aereo a quello di entrare nei siti archeologici.
Probabilmente se avete meno di trent’anni o più di cinquantacinque, starete storcendo il naso. L’ultima delle sit-com, ma anche la prima delle serie di moderna concezione (aveva una continuity chiara, pur se esile), non può aver avuto tutta questa importanza, penserete. Ma basterebbero i primi minuti della mitica reunion del 2021, diretta da Ben Winston per HBO Max e prodotta da Warner Bros, a farci capire l’importanza di Friends nell’immaginario degli ultimi decenni, con le parole divertite, commoventi, partecipate di spettatori di tutto il mondo che parlano della serie come di una presenza fondamentale per le loro esistenze.
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Sono quelle le prime immagini che non arrivano dallo stage 24 dei Warner Bros Studios di Burbank, ormai per tutti “The Friends Stage”, perché lì furono ricostruiti appartamenti, fontana della sigla e Central Perk (il loro mitico bar con gli altrettanti mitici divani) dalla seconda stagione in poi. Solo Fellini, forse, ha saputo identificare così tanto con se stesso un luogo di ripresa.
Perché Chandler Bing, e quindi Matthew Perry, è lo spirito guida di una generazione
Cos’aveva di speciale Matthew Perry e quindi Chandler Bing? Il fatto di essere il vero scarto in avanti di quella serie che aveva cinque archetipi – la sexy arrivista, l’ex obesa ossessivo compulsiva, la svanita hippie, il playboy senza cervello, il nerd – e un personaggio sfaccettato, che teorizzava con (auto)ironia feroce la sua inadeguatezza alla vita, alle relazioni, al mondo che si era trasformato in un’arena liberista e vanesia, e lui ne era un ingranaggio, essendo l’unico del gruppo a fare un lavoro vero, non a caso indefinibile per gli altri: dirà un giorno lui “responsabile degli acquisti IT con la specializzazione Analisi statistica e riconfigurazione dati, ma a domanda diretta non saprà spiegarne il significato). Una società troppo stupida e prevaricante per un animo geniale e gentile come il suo.
Chandler Bing era la vita vera nella finzione, era lo sfigato che si metteva con la più bella della scuola (che amava, comunque, anche quando non lo era, pure se gli aveva mozzato il dito di un piede da adolescenti), era l’animale asociale che si era adattato a sopravvivere in una metropoli perché aveva trovato una famiglia in quella scombinata Armata Brancaleone che viveva in appartamenti fighi e vestiva ancora più cool, era la voce della coscienza, anche politica, di un gruppo apparentemente slegato da qualsiasi attualità, era il sorriso feroce con cui una generazione vedeva il mondo implodere e commentava il tutto con amara sagacia.
Era, non ce ne vogliano gli altri cinque che continueremo ad amare sempre e comunque, il migliore, per talento e profondità e sensibilità. Tanto che gli altri lo hanno protetto quando le dipendenze, la paura di un paese che lo spiava, invidiava, cercava lo avevano invaso. Fino a girare al posto suo per mettere in fila più scene possibili quando era lucido, o fare in modo di farlo tornare sobrio in tempo. Un calvario durato fino al 2018 che ha raccontato nello scorretto, struggente, scombinato e spietato (soprattutto verso se stesso) libro Friends, amanti e La Cosa Terribile (in Italia edito da La Nave di Teseo+), un’opera che sembra uscita dal passato anche per lo stile, irripetibile ora.
Perché Perry era politicamente scorretto – per questo lo amavamo tanto, riusciva a dar voce anche alle nostre fragilità, ai nostri pregiudizi -, una sorta di Checco Zalone ben vestito che raccontava lo squallore discreto della borghesia statunitense, un infiltrato che a differenza dell’attore, del professore, della cuoca, dell’inquieta precaria, della cantante stonata, aveva accettato la sfida della vita moderna pur sapendo che l’avrebbe visto sconfitto. Ma con quanto stile e sarcasmo sapeva perdere, Chandler Bing. Con quanta raffinata autocritica sapeva raccontare la sua insicurezza.
Chandler è ognuno di noi, Chandler è Matthew: una generazione che ha disperatamente e tenacemente cercato la felicità e la realizzazione, scoprendo in fretta che le erano proibite. E che ha saputo guardare la farsa nella tragedia – in Italia ci è riuscito solo Smetto quando voglio, probabilmente – divenendo la feroce e impietosa commentatrice della propria disfatta. Campioni di senso dell’umorismo e malinconia. Campioni nell’essere perdenti di successo (ma pure il contrario). Campioni nel ridere del mondo e di fronte ad esso, fino ad esserne sopraffatti.
Chandler era la feroce arguzia con cui gli anni ’90 hanno guardato al (proprio) fallimento, come Chester Bannington ne incarnava il disagio irrimediabile e rabbioso e Chris Cornell la malinconica e lacerante ambizione a una resilienza impossibile, di chi prova a integrarsi al mondo circostante ma poi, stoicamente, si arrende. Perché queste morti giovani, indotte o sfortunate (nel migliore dei casi) sono l’onorevole resa di chi ha tenuto sulle proprie spalle l’inadeguatezza di una generazione, di chi se ne è andato proprio quando sembra essere sopravvissuto, quando sembrava aver vinto la battaglia contro il vuoto pneumatico che il grunge, una sit-com, l’hard rock avevano provato a riempire. E ci era riuscito, ma solo con gli altri.
Matthew Perry e il suo abisso
Friends resistette persino alle Torri Gemelle, riuscì a parlare anche a un paese, a un mondo che aveva perso l’innocenza, la spensieratezza che aveva nel 1994, alla prima stagione della serie, in cui si credeva vincitore e invincibile, in cui quei sei volevano quasi essere la gioiosa fotografia di una società in evoluzione, l’appendice di successo del secolo breve, la fine della storia e l’inizio del trionfo dell’uomo nuovo, non più idealista ed ideologico, ma solo moderno e pieno di fiducia in un futuro radioso, tutta deregulation e vita smeraldo a stelle e strisce.
Friends è l’ultimo dei prodotti televisivi dello scorso secolo e il primo del nuovo millennio – non a caso Perry comparirà in qualche puntata di un altro capolavoro seminale, West Wing, e passa in una delle serie più iconiche che era alla base dell’immaginario di quell’epoca, Beverly Hills 90210 -; le sue dieci stagioni sono oggetto di rewatch da sempre – prima in dvd, ora sulle piattaforme -, perché se ne sente orfano anche chi non l’ha vissuta in diretta (l’ultima puntata, la più vista della storia della tv seriale, lo fu davvero: e l’ultima battuta recitata fu proprio di Mattehw Perry quel “Certo. Dove?” che era l’esempio principe del suo sarcasmo, persino in quell’ultimo capitolo straziante), pure quei teenager di oggi che ne stigmatizzano espressioni e battute “scorrette”.
Qualcosa di cui Chandler Bing, ma pure Matthew Perry, avrebbe riso, dopo averlo commentato in modo sferzante.
Sessanta chili di peso, 55 pasticche di Vicodin al giorno: quel disagio che era fertile serbatoio di talento, lo ha consumato per più di vent’anni. Un vuoto che sapeva interpretare on stage – pochi ricordano un suo lavoro teatrale su una pièce di David Mamet, Sexual perversity in Chicago, volgarissimo e geniale, sulla vita sessuale di due uomini e due donne della classe operaia – o il suo The End of Lodging, produzione Off Broadway scritta e interpretata e diretta da lui che racconta di un alcolista che si innamora: fu maltrattata da molta critica, non intuendone né l’intimità del racconto, né lo spessore generazionale e politico.
Matthew Perry, proprio perché era la scomoda spia di un declino che l’Occidente ha fatto finta di non vedere per una ventina d’anni, è stato prima battezzato come semplice “drogato e alcolizzato” (fu Jennifer Aniston, la Rachel di Friends, ad accorgersene per prima e ad aiutarlo), poi come eccentrico e montato – si favoleggiava che nella sua villa da 20 milioni di dollari e passa di Los Angeles (nella decima stagione prendevano un milione a puntata cadauno i magnifici sei) dove lo hanno trovato morto nella Jacuzzi, avesse ospitato per un anno il fuoriclasse francese Yannick Noah, per allenarlo sui campi da tennis regolamentari che vi aveva fatto costruire dentro. Lui che di tennis era stato un campione juniores.
Infine avevano cercato di riaccoglierlo nel consesso normalizzante di Hollywood e dintorni come reborn, dopo che nel 2018 rischiò la vita per mesi per una perforazione gastrointestinale causata dall’abuso di oppio. Risultato: due settimane di coma, cinque mesi di degenza, più di un anno di convalescenza. Da allora sembrava rinato. Portava addosso i segni della sua battaglia, ma sembrava averla vinta.
Ci rimarrà invece come sua ultima immagine quella della reunion, a cui arriva dopo un’operazione d’emergenza all’arcata dentale. Il viso tumefatto, la parlata un tempo brillante trascinata e biascicante. La tenerezza degli amici e sodali, le battute più opache ma sempre irresistibili, gli occhi lucidi di quando ricorda che loro non accettavano candidature singole ai premi perché erano un gruppo. Il ricordo lontano e agrodolce di un amore possibile e non realizzato ad accenderlo con uno dei suoi sorrisi teneri e tristissimi.
Con Matthew Perry, con Chandler Bing muoiono gli anni ’90. La fine dei sogni di grandezza, l’inizio di un incubo di terrorismi e precarietà. E Chandler Bing, nel suo piccolo, sapeva raccontarci da un punto di vista intimo e divertito la tragicommedia di un mondo ridicolo. Lui che era elegante anche indossando solo le mutandine di Julia Roberts e coprendosi le pudenda con la porta di un bagno (sì, in Friends è successo anche questo).
Buon viaggio Mr. Bing: pensare che l’unico a cui credevo quando cantavate, nella sigla, I’ll be there for you, eri tu.
P.S.: sapendo che avresti apprezzato ecco qui la top 3 delle tue battute più scorrette. O divertenti. O entrambe le cose. Alla faccia della cancel culture.
- Phoebe: “Una spogliarellista ad un addio al celibato? Che scontato… Perché non chiamate un mago?”
Chandler: “Beh, se riesce a stappare una bottiglia di birra con le tette, perché no?” - Ho adottato una nuova tecnica: non rispondendo al telefono, chi chiama penserà che ho una vita sociale.
- A volte vorrei essere anche io una lesbica. Oddio, l’ho detto ad alta voce?
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