“Alla Festa del Cinema di Roma nel 2022, già sapevo che avrei lavorato con Paolo Conte ma non potevo dirlo. Ero lì per il documentario su Mahmood. Alla prima intervista che facciamo gli chiedono: ‘Perché hai deciso di raccontarti così?’. E lui risponde: ‘Perché ho visto il documentario su Conte’”. Giorgio Testi ricorda divertito di quando il concerto evento alla Scala del cantautore piemontese rischiava di essere svelato prima ancora del suo annuncio. Ora quella serata memorabile è diventata un docufilm prodotto da Sugar Play – Paolo Conte alla Scala, Il Maestro è nell’anima – presentato al Torino Film Festival e in sala dal 4 al 6 dicembre con Medusa. Uno sguardo dietro le quinte dell’esibizione e l’occasione per l’artista di raccontare in prima persona la sua storia. Senza dimenticare la dimensione live sulla quale Testi ha costruito una carriera incredibile che l’ha portato a lavorare, tra i tantissimi, con i Rolling Stones, Amy Winehouse, Elton John e Blur.
L’incontro con Paolo Conte?
Piacevolissimo. Nella mia esperienza ho capito che probabilmente più gli artisti sono grandi professionalmente, più lo sono da un punto di vista umano. Tendono a eliminare qualsiasi tipo di barriera. Credo però sia normale avere un minimo di soggezione nel trovarti davanti un gigante a livello artistico come Paolo. Abbiamo cominciato a lavorare insieme qualche settimana prima del concerto alla Scala seguendo tutta la preparazione e le prove in Piemonte.
Prima di lavorarci qual era il rapporto con la sua musica?
Molto spesso tendo a emozionarmi di più con gli artisti italiani perché fanno maggiormente parte del mio trascorso. Mia mamma era una sua mega fan, andava ai concerti, l’ascoltava in casa. Ma da piccolo ricordo che avevo quasi paura della sua voce (ride, ndr).
Come ha strutturato visivamente il docufilm?
Fin da bambino sono sempre andato ai concerti. Sono legato a quella dimensione lì. È per me qualcosa di molto sacro. Ho avuto la fortuna di crescere lavorativamente in un paese come l’Inghilterra dove per questo tipo di progetti c’è un’attenzione completamente differente rispetto alla nostra. Vivono la musica in un altro modo. Il mio obiettivo era cercare di far vivere allo spettatore quel momento in maniera immersiva, portarlo con la macchina da presa a un centimetro da lui. A quel punto, ovviamente, tutta una serie di dettagli ed elementi che molto spesso in questo genere di progetti si perdono, diventano parte fondamentale del racconto.
Ha registrato live in luoghi meravigliosi in giro per il mondo. Ma entrare alla Scala com’è stato?
Avevo già lavorato lì nel 2020 su un altro progetto con Colin Firth. Era ai tempi della pandemia e c’era tutta una serie di restrizioni incredibili. Per quanto possa aver girato da Wembley al Madison Square Garden o in altri posti incredibili, la Scala resta la Scala. Un luogo trattato dalle persone stesse che lo vivono tutti i giorni in una maniera totalmente sacra. Da un lato è come se fosse un ministero – devi passare attraverso tante persone – dall’altra è come se ti trovassi all’interno della Cappella Sistina. Ci sono tante cose che devi rispettare in una maniera completamente differente da qualsiasi altro posto. Se poi a questo si aggiunge la sacralità di un artista come Paolo Conte diventa come camminare sopra dei bicchieri. Devi stare attentissimo a quello che fai per non stravolgere l’esperienza stessa del pubblico che va a un concerto del genere e in un luogo del genere e si aspetta di viverli in un certo modo.
Ha scelto di lavorare tra animazione e immagini di repertorio. Cosa le hanno permesso di approfondire?
Di base volevo un confronto tra il Conte del 2023 e il Conte degli anni Settanta. Ascoltare il suo punto di vista oggi su un argomento trattato in un’altra intervista anni prima. Un tentativo di fare entrare sempre di più lo spettatore nella sua testa, come se fossero i suoi pensieri. Una cosa che mi piace molto di Paolo – la stessa che cercavo negli artisti quando ancora non facevo questo lavoro – è che diventa una sorta di portale verso l’esterno.
Non voglio necessariamente specchiarmi nell’artista e rivedere in lui me stesso. L’utilizzo dei social fa sì che sappiamo vita, morte e miracoli di quello che fanno a tutte le ore. Qualsiasi cosa è spiegata e fa perdere la magia. Se ascolto qualcosa voglio poter sognare, pensare, creare il mio punto di vista. Paolo difficilmente spiega il significato dei suoi brani. Anzi gli piace, come dice anche nel docufilm, se ci sono più significati a disposizione per chi ascolta. Tutti questi elementi di archivio e animazione servono a far capire come lavora la sua mente senza essere didascalici.
Cosa pensa di quella fetta di mercato che sta utilizzando l’intelligenza artificiale per realizzare live con l’ologramma di musicisti defunti sul palco o band inesistenti come avviene in Asia?
Penso sia totalmente senza senso. E mi fa un po’ paura. La natura di una performance non è per vedere il volto del personaggio famoso, ma per sentire quello che un essere umano riesce a suscitare. Non credo possa prendere il posto di qualcosa di reale. La potenza dei live show esisterà sempre. Anche a livello di business. È l’unica cosa che la tecnologia non può sostituire.
Come si diventa Giorgio Testi? E come si impara a raccontare la musica per immagini?
È la vita che ti porta a fare determinati percorsi. Ho studiato al Centro Sperimentale di Roma pensando di intraprendere tutt’altro genere di carriera. Poi, quelli che dovevano essere tre mesi di studio a Londra sono diventati vent’anni di vita. In un periodo, tra il 2005 e il 2006, dove tutto stava cambiando tra YouTube e un momento di transizione importante dell’industria discografica.
C’era la possibilità di iniziare a creare progetti audiovisivi legati alla musica in una maniera molto più indipendente. Le opportunità che mi ha dato l’Inghilterra difficilmente le avrei avute in Italia. Anzi, era proprio impossibile.
Mi hanno dato tutta una serie di possibilità forse nel momento giusto, con una scena musicale legata all’indie rock. Comunque non c’è una formula. Mi sono sempre saputo rapportare con gli artisti forse proprio perché sono cresciuto rispettandoli. Ho portato nel lavoro quello che per me era importante come spettatore. Quando andavo a un concerto volevo stare sulle transenne in prima fila e vedere tutto perfettamente. Avrei fatto scomparire il pubblico se avessi potuto. Questa cosa l’ho riportata anche nel lavoro. Probabilmente questo genere di approccio ha fatto sì che alcuni artisti si siano sentiti più a loro agio a voler lavorare con me.
C’è un live che sogna di filmare?
Ovviamente sì, ma non glielo lo dico (ride, ndr)! Anche se i live così sono quelli che non potrò mai filmare. Nei miei sogni di bambino c’erano gli INXS e i Nirvana. Sono contento restino lì, inarrivabili. Perché quando stai troppo dentro alle cose e te le vivi da vicino perdi automaticamente quel senso di magia. È difficile stare a contatto con l’artista con cui sogni di lavorare e pensare che ti possa continuare a dare le stesse identiche emozioni che ti dava prima. Paolo Conte rientra in quel mondo lì. Anzi, forse è ancora meglio.
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