“Good Vibrations”. Per Mike Love sembra essere la risposta (giusta) per ogni cosa. Per come si vive la musica, si affronta il successo di un’intera carriera, si prova ad andare avanti sulle onde irrefrenabili della discografia, sempre nuova e mutevole. E lo è anche quando gli si chiede, insieme al compare Al Jardine, qual è la canzone che continuano a preferire dopo tutti questi anni, dall’avvio della loro band, i Beach Boys.
Formatasi nel 1961 e codificato il genere della surf music che racchiudeva in sé lo stereotipo della California sole, mare e spiagge, il gruppo composto insieme al trio dei fratelli Wilson – Brian, Dennis e Carl – arriva su Disney+ (dal 24 maggio) per il documentario omonimo che ripercorre la nascita e la ribaltata di un fenomeno di massa che avrebbe definito cosa sarebbe stata la musica nel futuro.
Da Bruce Springsteen a Simon & Garfunkel, da David Bowie ai Beatles – che compaiono anche, fugacemente, nel doc – i Beach Boys hanno propagato le “giuste vibrazioni” tanto da diventare una monade musicale travolgete. Oltre che tra le assi portanti della cultura statunitense, come osservato dall’occhio dei registi Frank Marshall e Thom Zimny.
“Good Vibrations è la positività fatta canzone”, afferma Love. Ma ne ha un’altra per cui cova una profonda tenerezza: “The Warmth of Sun. È più introspettiva, anche triste, parla di quando sei davvero innamorato, ma nulla si concretizza. L’abbiamo scritta la notte prima che il presidente Kennedy venne portato in ospedale a Dallas. La registrammo l’anno successivo, nel 1964. Lo stupore per ciò che successe era talmente irreale che, pur non cambiando le parole per adattarle all’evento, mentre la incidevamo sentivamo nello studio con noi il dolore di un intero paese”.
L’opportunità “fenomenale” a cinquant’anni da Endless Summer
E se è proprio il calore ad aver fatto la fortuna della band, seppur quello più assolato e cocente del litorale losangelino, anche il brano a cui Jardine tiene più di tutti è ben lontano dal gelato mangiato sulle sdraio e i tanti bikini colorati. “Non posso che ricordare con affetto Christmas Day, una canzone natalizia in cui ho avuto la mia prima parte da solista. Poi c’è ovviamente Help Me, Rhonda. È stato il nostro pezzo forte, molto popolare per un periodo. È così divertente da cantare”.
Tantissimi gli aneddoti e attenta la ricostruzione dai primi anni sessanta del gruppo, per un Frank Marshall che “sono cresciuto a Newport Beach, a sud di Hawthorne, dove hanno vissuto i Beach Boys”. E continua: “Sono appassionato di surf e della musica che ne deriva. Ricordo la prima volta che ascoltai Surfin’ USA dei Beach Boys, dove alla sola melodia strumentale questi ragazzi erano riusciti ad aggiungere anche un testo che sapeva innalzarne il valore”.
E se per Marshall è stato come ripercorrere la gioventù, per Thom Zimny – uno che all’attivo un gran numero di documentari-verità e film-concerto su (e di) Bruce Springsteen – è un “sogno che si avvera”. “In realtà provengo dalla East Coast – prosegue il co-regista – Quindi la mia visione era un po’ diversa. Ma mi sono sempre sentito legato ad una band che mi ha permesso di onorare un pezzo di storia della musica”.
Un’opportunità “fenomenale” anche per la coincidenza con il cinquantesimo anniversario dell’album Endless Summer, compilation di greatest hits della band. “È un miracolo che, a sessant’anni dalla nascita dei Beach Boys, ci sia ancora chi apprezza, canta e ascolta le nostre canzoni”, si commuove Mike Love.
“Sento che il documentario, in questo momento, è un’enorme benedizione. Non nego di provare un po’ di tristezza guardandone alcuni pezzi. Dennis non c’è più, nemmeno Carl. Brian ha avuto le sue difficoltà. C’è della malinconia, ma non supera l’amore che abbiamo messo e che univa le nostre differenze per creare qualcosa di più grande”.
Ed è il collega-amico a ripercorrere i processi creativi che hanno portato a brani indimenticabili come Wouldn’t It Be Nice e a narrare come nascevano le leggendarie armonie vocali dei Beach Boys: “ Ogni volta che iniziavamo una canzone era già nella testa di Brian. L’arrangiamento era già lì. Brian metteva la mano destra sui tasti del pianoforte e ognuno di noi era una nota. Cantava la melodia e io prendevo quella successiva. Carl era il terzo tenore e poi c’era Mike al baritono. E se c’era Dennis, era da qualche parte nel mezzo. L’importante era ricordarsi la propria parte per non incasinare il tutto”.
Oltre ad alcune delle canzoni più impegnative del gruppo, ci sono alcuni pezzi decisamente sorprendenti della loro discografia. Su tutte, secondo Jardine, Their Hearts Were Full of Spring: “Brian idolatrava i Freshmen. E dimostrare di saperla riadattare, per noi che eravamo considerati solo un gruppo di surfisti, è stato come tirare fuori un coniglio dal cilindro”.
The Beach Boys, tra presente e passato
Un meravigliarsi continuo, che per Marshall si traduce nel vedere “una band di pochi individui su di un palco che si esibivano per 400.000 persone. È questo senso di grandezza, l’impatto che hanno avuto, che ci ha guidato nel documentario”. Senza tralasciare la dimensione personale: “Mai dimenticare la riflessione che abbiamo cercato di portare avanti sulla famiglia – fa eco Zimny – Oltre all’approfondimento sui singoli membri”.
Dalla partecipazione nel documentario di Janelle Monáe al ricordo di Lana Del Rey che si esibisce sulle note di Barbara Ann insieme alla figlia di Love, Ambha, il film è anche il ritratto dell’eredità dei Beach Boys: “Questa musica è immortale – chiosa lo stesso Mike – Noi musicisti no, ma lei sì. Qualche mese fa abbiamo partecipato al Lovin’ Life Festival a Charlotte, nel North Carolina. Era una giornata di sole e migliaia di persone ballavano e cantavano. La musica è la nostra liberazione dalle negatività del mondo, che abbiamo sempre deciso di non cantare, anche quando ce n’erano un sacco: la guerra nel Vietnam, le manifestazioni studentesche degli anni sessanta, che assomigliano a quelle di oggi. Abbiamo preso questi elementi e li abbiamo trasformati”.
Tramutandoli, appunto, in Good Vibrations: “Quando ho scritto il testo ho immaginato una ragazza e il suo prodigarsi per la pace. Credo sia per tale ragione che il brano si piazzò al primo posto. A Sheffield, in Inghilterra, uno psicologo ha studiato le canzoni dal punto di vista di quali facessero sentire meglio le persone e Good Vibrations è risultata la più efficace. Penso sia questo ad aver portato venti artisti con altrettante canzoni della nostra carriera a realizzare un tributo ai Beach Boys. Si va dai Weezer con California Girls a John Legend con Sail On, Sailor. È qualcosa di speciale”.
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