Berlinale 74: Saoirse Ronan su The Outrun e lo sguardo femminile sulle dipendenze e la riabilitazione

Protagonista del film di Nora Fingscheidt, ispirato al romanzo di Amy Liptrot e in anteprima europea dopo il Sundance, l'attrice irlandese racconta l'esperienza di un set duro e immerso nella natura

Durante le riprese di The Outrun, Saoirse Ronan ha fatto nascere agnelli, ha nuotato con le foche e si è immersa nella flora e nella fauna della piccola isola scozzese in cui il film è girato.

La quattro volte candidata all’Oscar interpreta Rona, una giovane donna che lascia Londra e torna nella sua città natale sulle isole Orcadi. Durante il suo percorso contro le dipendenze sperimenta tutte le dure realtà e le meraviglie naturali che una piccola isola colpita dal vento al largo della costa scozzese ha da offrire.

Il film, diretto dalla regista tedesca Nora Fingscheidt (System Crasher) e basato sul romanzo Nelle isole estreme di Amy Liptrot , è in programma a Berlino dopo l’anteprima al Sundance, dove ha ottenuto recensioni molto positive. Ronan, prima della proiezione berlinese del film, ha parlato con THR del motivo per cui si è legata al libro di Liptrot, dei vantaggi di produrre anche il progetto e di come la cultura unica delle isole Orcadi abbia influenzato il film.

Come ha scoperto il libro di Amy Liptrot?

È stato Jack Lowden, anche lui produttore, a farmelo scoprire. È uno scozzese molto orgoglioso e ha trascorso un po’ di tempo nelle isole Orcadi. Ogni volta che va in un posto nuovo, cerca di leggere un libro di uno scrittore di quel posto, se può. Così, si era già innamorato di The Outrun e quando eravamo in isolamento per il Covid mi ha consigliato di leggerlo. Mi disse: “Questo è il prossimo ruolo che dovresti interpretare”. Riguardo il libro, credo che quasi tutti abbiano avuto un rapporto con la dipendenza, sia che si tratti di qualcosa che si è vissuto in prima persona, sia indirettamente attraverso una persona cara. È una malattia che ha colpito tutti noi, in un modo o nell’altro, e io non sono diversa. È una malattia che ha plasmato la mia vita in modo drammatico, non avendola vissuta in prima persona, ma avendo visto ciò che può accadere. Ho sempre voluto capirla meglio, perché era qualcosa che mi causava molto dolore. Alla fine mi sono sentita in grado di immergermi nell’altro lato della questione.

Quando sullo schermo si parla di storie di dipendenza, poche sono quelle di giovani donne. È un aspetto a cui ha pensato quando ha sviluppato il progetto? 

Questa è stata una delle prime cose che abbiamo capito. Non solo si trattava di seguire una giovane donna in fase di recupero, ma anche di seguire una persona che soffre di alcolismo, dove la tortura, lo strazio, la spirale autodistruttiva non sono sempre cose motivate solo dalla relazione con un uomo o con il partner. Si potrebbe anche togliere l’elemento della dipendenza, e rimarrebbe comunque una storia molto in cui è facile identificarsi,  su un periodo della vita di una donna che si avvia verso i 30 anni e si trova a dover esaminare la propria vita come non aveva mai fatto prima. L’elemento della dipendenza amplifica il viaggio che già affrontiamo come donne in quel particolare momento della nostra vita.

Il fatto che il libro tratti molto il mondo interiore della protagonista l’ha aiutata a creare la sua performance? 

Sapevamo che la protagonista sarebbe stata il cuore pulsante del film. Nora, la regista, quando ha letto il libro, si è davvero impadronita dell’elemento nerd della psiche di Amy. È davvero affascinata da argomenti di nicchia e si addentra nei dettagli della corrente nell’oceano o del dna di una medusa o di come l’etanolo influenzi il cervello. Nora voleva davvero includere questo aspetto nella storia complessiva del film. In quanto produttrice, volevo anche catturare l’energia delle Orcadi. Perché la protagonista, lontana dalla terraferma, si sente come se appartenesse solo a se stessa. Se sei un orcadiano, dici di essere un orcadiano, non dici di essere scozzese. Ci siamo davvero innamorati della mentalità delle persone che vivono lì, un atteggiamento di grande pragmatismo e volontà di andare avanti a qualsiasi costo. Io e Jack (Lowden, ndr) abbiamo pensato fosse interessante abbinare questo tipo di mentalità alla malattia mentale e al turbamento emotivo che la protagonista attraversa.

Saoirse Ronan in The Outrun

Saoirse Ronan in The Outrun Courtesy of Studio Canal/Berlinale

Avete girato direttamente sull’isola, è corretto?

Abbiamo iniziato a Londra, con alcune scene molto intense per il personaggio. Poi ci siamo spostati verso le Orcadi concentrandoci sui rapporti di Rona con i genitori e sul reinserimento nella comunità. Poi siamo arrivati a Papa Westray, che è l’isola in cui la ragazza finisce. Ci siamo progressivamente isolati sempre di più. Questo è stato il vantaggio di essere anche. Mi dicevo: “È così che voglio girare”. Lavoro con me stessa da più di 20 anni. È uno strumento anche questo: sai cosa devi fare quando si tratta del tuo lavoro.

Come pensa che il fatto di trovarsi alle Orcadi abbia influenzato il film? 

Quando siamo arrivati a Papa Westray eravamo alla fine del Covid ed eravamo prima di tutto grati di poterci riconnettere con altre persone. Tutto questo ha ispirato in modo molto organico la performance. Abbiamo girato a casa di Amy (Liptrot, ndr) e nella sua fattoria. Abbiamo conosciuto suo padre, che vive ancora nella fattoria. Quando io e Stephen (Dillane, ndr) abbiamo girato le scene tra Amy e suo padre, suo padre era nei paraggi, quindi è stata un’esperienza piuttosto surreale. Credo sia stato molto utile per il cast ricordarsi che si tratta di una storia vera e che appartiene a persone vere. Avevo fatto altri due film durante la pandemia. Uno era in Australia (Foe – Il nemico, con Paul Mescal, ndr) e in realtà siamo stati entrambi colpiti dal Covid, uno dopo l’altro. Eravamo in un deserto arido e sterile, ed eravamo essenzialmente solo noi due. La cosa interessante di fare prima Foe e poi The Outrun è che Foe si svolge 100 o 150 anni nel futuro, quando tutto ciò che è vivo, qualsiasi materiale organico, è morto. Quindi, sono passato dall’essere in quell’ambiente a questo film in cui stavo a terra fra gli animali. Sona passato dall’assenza di vita a tanta vita nel giro di un paio di mesi.

C’erano molte infrastrutture sull’isola?

Siamo stati il primo film in assoluto a girare nelle Orcadi. In generale, non è un luogo che la gente conosce, quindi tutte le infrastrutture sono state portate appositamente sull’isola. In una piccola comunità, ci si impegna molto per tenere tutti occupati e con qualcosa da fare. Quindi, c’erano molti attori dilettanti, molti giovani in particolare che erano davvero appassionati di teatro. Mi è già capitato di girare in città più piccole, dove c’è sempre una persona che è un po’ problematica o che rende la giornata delle riprese molto difficile. Non abbiamo sperimentato nulla di tutto ciò. Spero che li abbia ispirati a continuare a fare di più, perché c’è un certo romanticismo in questo posto. È un vero e proprio amalgama di cultura celtica e nordica. È un paese vichingo, essenzialmente.

 

Traduzione di Nadia Cazzaniga