Le erbe secche, nuovo fluviale lavoro del turco Nuri Bilge Ceylan, è un film serissimo. Né ci si potrebbe aspettare altrimenti da un autore che fa film enormi e ponderosi, sempre intorno alle tre ore, in cui riflette sul destino dell’uomo e sulla situazione politica del suo paese. Del resto Ceylan è un vincitore della Palma d’oro (2014, Il regno d’inverno) ed è un regista da prendere assolutamente sul serio.
Straziami ma di baci saziami
Detto questo, la visione di Le erbe secche ci ha provocato ricordi inaspettati, forse imbarazzanti. Il film parte con un immenso paesaggio innevato (siamo in Anatolia, in pieno inverno). Un autobus si ferma nel mezzo del nulla, in campo lunghissimo. Un uomo con un paio di valigie, grande sullo schermo come una formica, scende e si incammina a piedi nella neve. Lo giuriamo: sembra l’arrivo di Nino Manfredi a Sacrofante Marche in Straziami ma di baci saziami di Dino Risi, nostro personalissimo film-culto, e forse questa memoria involontaria (Proust docet) ci ha fuorviato.
L’uomo che cammina nella neve, e che ben presto giunge sconvolto a un villaggio, si chiama Samet ed è un professore di scuola media: scopriremo pian piano che è stato mandato lassù sui monti quattro anni prima, con un incarico “obbligatorio” – probabilmente a causa delle sue idee politiche di sinistra.
No, il dibattito no
Con altri colleghi, infatti, Samet intrattiene di tanto in tanto delle vivaci discussioni politiche che ricordano certe sedute di autocoscienza dei nostri anni ’70 (impegno vs. riflusso, privato vs. politico, cose così). E in quel momento, forse fuorviati da Dino Risi, ci sembrava di essere “dentro” il famoso “brutto film italiano” che Nanni Moretti ricostruiva nel capitolo in Vespa di Caro diario (ricordate: “eravamo orrendi, gridavamo slogan orrendi”…).
Non c’è niente da fare: anche di fronte a un (ipotetico) capolavoro, ogni critico e ogni spettatore porta con sé il proprio vissuto. Però, in questo caso, è anche un po’ colpa del film. Le erbe secche è decisamente troppo lungo e troppo verboso. Alcune scene/dibattito (la discussione politica di Samet con un collega e con il vecchio del paese, l’interminabile chiacchierata esistenziale a cena fra Samet e la collega Nuray che prelude, pensate un po’, al fatto che andranno ineluttabilmente a letto insieme) sono girate quasi in tempo reale. Ci si sente imbarazzati, come se fossimo entrati di soppiatto in casa dei personaggi e ci stessimo facendo gli affari loro.
L’Anatolia non è Istanbul
Non aiuta molto, va detto, tutta la parte del film ambientata a scuola: Samet insegna arte e vorrebbe essere uno di quegli insegnanti “empatici” e moderni che diventano amici dei propri ragazzi, ma sembra sfuggirgli che l’Anatolia non è Istanbul, che certe regole sono arcaiche, che è normale frugare negli zaini dei ragazzi alla ricerca di oggetti compromettenti (basta un diario privato, subito sequestrato); e, soprattutto, che fare un innocente regalino a una studentessa particolarmente sveglia può essere un gesto foriero di guai.
Quando alla fine ottiene il sospirato congedo che gli permette di tornare a Istanbul, Samet si lascia alle spalle l’Anatolia quasi con disprezzo. E dalle alate parole del prof, recitate dalla pensosa voce fuori campo dell’attore Deniz Celiloglu, emerge prepotente un vago sentore di misoginia.
Ceylan rimane un bravo regista, e ogni tanto alcune illuminazioni visive (l’uso del paesaggio, l’improvviso passaggio dall’inverno all’estate nel finale) lasciano di stucco. Il nostro sogno è che faccia prima o poi un film muto della durata di un’ora e mezza. Se accadrà, saremo i primi a festeggiare.
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