Aspettando Daaaaaalì, quando Beckett, Buñuel e Magritte si incontrano in un regista cialtrone e geniale

Se Guy Debord e Luigi Pirandello avessero avuto un figlio, quello sarebbe stato Quentin Dupieux. Se Salvador Dalì avesse visto questo film, lo avrebbe adorato. E odiato. Comunque un capolavoro. Come sempre. Fuori concorso. E fuori di testa

Quentin Dupieux è un genio. Quentin Dupieux è un cialtrone. È un esteta raffinato e pieno di talento. Ma è anche un guitto da avanspettacolo. Ha idee folgoranti almeno quante sono quelle che ruba al teatro dell’assurdo, al surrealismo, al cabaret, al cinema demenziale. ha inventato un genere musicale e un genere cinematografico – il suo, anzi i suoi -, ne ha saccheggiati, ripensati e destrutturati altrettanti.

Dupieux è pop come lo era Mr. Oizo e una pubblicità che rimarrà nella storia sulla musica di Flat Beat, una musica che ancora oggi ci balla dentro, è jazz come il suo cinema. Ha in sé l’arte del grottesco, è un animale mitologico metà Louis De Funès, metà Pirandello e metà Magritte.

Sì, lui può essere uno e mezzo.

Ed è affascinante come nello stesso giorno lui sul red carpet e Jannacci nella proiezione per stampa e industry si parlino. Con un pianoforte. Dupieux ne fa l’inquadratura iniziale e finale: un pianoforte bianco, un cipresso piantato sopra, in un buco apposito, un getto d’acqua che esce da sotto i tasti. Nel film di Giorgio Verdelli, Enzo Jannacci Vengo anch’io, il cantautore milanese, in una trasmissione televisiva, usciva dalla cassa armonica come fosse una bara. Si sarebbero piaciuti. Entrambi fuori concorso. E fuori di testa.

Daaaaaalì!

Commento breve Uno, nessuno, almeno cinque, eccovi servito il Dalìnception pirandelliano
Data di uscita:
Cast: Anaïs Demoustier, Edouard Baer, Jonathan Cohen, Gilles Lellouche, Pio Marmaï, Didier Flamand, Romain Duris
Regista: Quentin Dupieux
Sceneggiatori: Quentin Dupieux
Durata: 79 minuti

Daaaaaalì, la trama

Una giornalista, ex farmacista, noiosa e dimessa – lo dice lei di sé, non è body shaming o simili -, vuole fare l’intervista della vita. A Salvador Dalì. Da qui parte un film che è una coazione a ripetere, un disco rotto di seconde occasioni concesse e ritirate, di sogni che vengono raccontati e risvegli che non sono nient’altro che lo stesso sogno, come quel finale, gioco di specchi (quasi) infinito.

Con oggetti che tornano – un quadro di rara bruttezza su tutti – cowboy, corridoi infiniti, i baffi di Dalì su cinque o sei facce diverse, dobbiamo ancora decidere, telefonate – alcune con oggetti avveniristici – un’intervista che non inizia mai, un film senza senso (più di quello di cui stiamo parlando), una truccatrice generosa, l’ego di Dalì, pessimi spaghetti. Non ci avete capito nulla? Perfetto, allora è la conferma che è un capolavoro.

Daaaaaalì in Italia sarà distribuito da Lucky Red

Daaaaaalì in Italia sarà distribuito da Lucky Red

La recensione: cinque volti e sempre gli stessi baffi

Neanche 80 minuti, un’opera genialmente cialtrona in cui si aspetta Dalì come Godot. Solo che il secondo non arriva e la storia si compie nell’assurdità dell’animo umano e del nostro mondo, il secondo c’è sempre. Con cinque volti diversi e sempre gli stessi baffi, con attori istrioni e compiaciuti che si divertono terribilmente a imitarne l’accento, l’ego ipertrofico, a rimarcare la nostra tendenza (e quindi anche la sua) a costruire icone al limite della caricatura. O forse è il contrario.

Quentin Dupieux lo sa: questo meccanismo prima lo ha sfruttato, poi ne ha rotto gli schemi e infranto le regole, ora con la maturità ha imparato a giocarci, è un Debord che non si prende sul serio e che ci spiega, con le armi della commedia, spesso demenziale, la società dello spettacolo. Come  ha fatto, con registro, narrazione e regia diversissimi, anche a Locarno con Yannick.

La bellezza e la grandezza di questo produttore musicale e regista parigino (Rubber, Wrong, Mandibles alcuni dei suoi gioielli cinematografici) è che a ridosso dei 50 anni, che festeggerà l’anno prossimo, sembra aver trovato un equilibrio – si fa per dire, trattandosi di lui – tra le sue due anime. L’artista duro e puro, il surreale creatore di mondi e di storie, capace di render vivo ed espressivo uno pneumatico dedicandogli un road movie geniale, e il cialtrone, capace di annusare con maestria dove si anniderà la risata altrui, anche quella crassa (e a volte soprattutto), di utilizzare soluzioni narrative e comiche furbissime, capace di usare la sua libertà e il suo credito per concedersi pop e trash che altri neanche potrebbero immaginare.

Merito anche di un montaggio (suo) che ha il battito dei suoi lavori musicali, armonioso e ossessivo nella ripetizione, tanto che quando vedi il telefono a rotella aspetti che da qualche parte spunti Flat Eric. Tutto sembra organico e coerente nella cinematografia di Daaaaaalì, pardon di Dupieux, hai l’impressione siano i capitoli di un unico libro, eppure sei anche spiazzato dai diversi registri e dal passo differente delle ultime due opere, viste a distanza un mese dall’altra, appunto questa e Yannick!, che nei contenuti si cercano – l’aleatorietà dell’opera d’arte, l’autodefinirsi dell’artista come tale, l’ossessione delle persone normali a cercare un palco, un po’ di fama o di ispirare almeno un quadro li trovi in entrambi – come se in ogni opera più della continuità si ravvisasse l’eco l’una dell’altra.

Ecco, sembrano far parte di un unico libro, i suoi film. Ma scritto in almeno 10 lingue diversi e tre alfabeti differenti.

In questo film la riuscita, celebrata da un applauso entusiasta e divertito della critica e roboante del pubblico, è anche nell'(auto?)ironia di un genio cialtrone che ne riconosce un altro, di due iconoclasti post moderni che hanno costruito e blandito se stessi facendosi icone. di due fantasiosi e rutilanti creatori di universi paralleli e paraculi che troppo si divertono a terremotare la mediocrità letale altrui.

E alla fine la risposta di tutto è dentro di te epperò è sbagliata (scusate la citazione di Quelo, che sarebbe un ottimo compagno di giochi di Flat Eric e di Corrado Guzzanti che preghiamo un giorno reciti per il cineasta francese, o anche il contrario va bene).

Scherzi a parte, la risposta è in una foto, rubata qui a Venezia. In cui Quentin Dupieux, tenendo tra le mani la nostra rivista cartacea, il primo numero speciale e fuori produzione distribuito qui al Festival, sembra dirci una verità talmente evidente nel suo film da rimanere nascosta sotto gli occhi di tutti.

Oui, Salvador Dalì, anzi Daaaaaalì! c’est moi.

Quentin Dupieux indica il Dalì sulla cover del nostro primo numero speciale cartaceo

Quentin Dupieux indica il Dalì sulla cover del primo numero speciale cartaceo di The Hollywood Reporter Roma