“Una cosa del genere in questo momento è proprio una coltellata”. Michela Giraud prende il telefono e filma da lontano una coppia che, a due anni dal matrimonio, ha deciso di rinnovare le promesse sulla terrazza di un albergo di Sestri Levante sullo sfondo di un tramonto arancio che illumina la Baia del Silenzio. Lo stesso dove si sta tenendo l’attività stampa del Riviera International Film Festival di cui Giraud è stata protagonista insieme a Giancarlo Commare e Gianmarco Saurino per presentare Maschile plurale. Il sequel di Maschile singolare, ancora una volta diretto da Alessandro Guida, da giugno su Prime Video.
Ma la stand up comedian e attrice – da maggio in tour in Europa e UK con lo spettacolo Mi hanno gettata in mezzo ai lupi e non ne sono uscita capobranco – lo scorso aprile ha debuttato sul grande schermo anche come regista con Flaminia. Un racconto (semi) autobiografico in cui mette in scena il rapporto con la sorella maggiore, Cristina, a cui è stato diagnosticato un disturbo nello spetto autistico. Un esordio e una storia che la neo regista sente così fortemente da commuoversi mentre ne parla a THR Roma. “La mia perversione è restare durante le proiezioni. Mi chiedono: ‘Ma perché rimani?’. E io rispondo: ‘Ma tu capisci che regalo che la vita mi ha fatto? Entro in sala e vedo la gente che si emoziona con una cosa che ho fatto. Come posso non volerlo vedere tutte le volte?’”.
Il pubblico e la critica sono rimasti molto colpiti dalla sfera drammatica del film.
Sì, ma io non sono offesa. L’ho fatto apposta.
Quindi è felice di essere riuscita a raccontare altro di sé?
Sì. Fare la commedia al cinema è la cosa più difficile che esista. Un conto è fare stand up comedy e scrivere gli sketch. Ma scrivere la commedia per il cinema è proprio un mestiere. Ho fatto delle cose che a me facevano molto ridere e che spero abbiano fatto ridere anche il pubblico. Ma non ho voluto “ esagerare”. Perché sapevo che il passaggio a quella parte sarebbe stato più violento. E non volevo questo stacco.
Avevo l’esigenza di fare quella parte più drammatica e, a un certo punto, l’esigenza ha superato la preoccupazione. Perché quando ti preoccupi di una cosa, ti metti il freno a mano. Io, invece, mi sono lasciata andare. Mi sono detta: “Ho bisogno di raccontare l’amore incompiuto, il dolore del non sentirsi visti, la sopraffazione della gente stupida che non ci fa sentire al sicuro di essere noi stessi”. Avevo questa cosa dentro e sapevo che sarebbe stata una scommessa perché il pubblico non si aspettava questo.
Su Instagram ha condiviso dei video molto divertenti dei suoi incontri con il pubblico in sala.
La mia perversione è restare durante le proiezioni. Mi chiedono: “Ma perché rimani?”. E io rispondo: “Ma tu capisci che regalo che la vita mi ha fatto?. Entro in sala e vedo la gente che si emoziona con una cosa che ho fatto. Come posso non volerlo vedere tutte le volte?”. Mi piace osservare da dietro la tenda gente che non conosco che sta seduta a vedere una cosa che ho fatto io. Sopratutto durante la parte più drammatica. Nessuno usa il telefono. In tutte le presentazioni che ho fatto ne ho contati cinque. Ma lo guardano e mettono subito via perché hanno paura di perdersi qualcosa. Quella roba lì mi ripaga di tutto.
C’è anche chi le ha detto che non le è piaciuto?
Sì, mi è capitato una volta. Poi è stato linciato (ride, ndr). Però se tu ti alzi, vai al cinema, paghi il biglietto e mi dici che non ti è piaciuto, io ti rispetto. Hai il diritto di dirmelo. Ma vedere persone emozionate che magari non riuscivano a parlare oppure mi dicevano delle cose… Non pubblico i filmanti perché uno si deve sentire anche libero di essere fragile, di piangere, di commuoversi o di non commuoversi. Per questo faccio sempre così: vado lì, ci scherzo, all’inizio li lascio soli perché paradossalmente ho più pudore della parte comica e poi, piano piano, entro di soppiatto.
Sua sorella il film l’ha visto?
Sì, certo. All’inizio ha detto che le faceva schifo (ride, ndr). Perché giustamente rivedersi è difficile. Sfido chiunque a guardare un attore che ti rifà. Poi le è piaciuto. È andata in bagno e da dietro la porta mi ha detto: “Complimenti” (imita la voce della sorella, ndr). È stato anche un modo per me di avvicinarmi a lei. Quando hai dei fratelli con i quali ci sono dei sospesi, ti allontani.
E io col fatto che lei era molto richiedente della mia attenzione non volevo che il nostro rapporto fosse solo basato su questo. È stato bello portarmela in trasferta e sentire delle frasi che mi ha detto. “Sono al sicuro quando sto con te”. È stato anche un mio modo molto egoista per risolvere delle cose. Ma è stato bello vedere che in questo mio modo egoista tanta gente aveva voglia di ritrovarsi.
Una domanda stupida: tra “Mignottone pazzo” e “Fregna moscia” una via di mezzo c’è?
Sono tutte sfumature di condizioni principalmente femminili. Ma posso assicurare che sono anche tanto maschili (ride, ndr). È una condizione umana. Il mignottone pazzo è una condizione tragica nella quale si ostenta un benessere quando in realtà dentro si muore. Invece la fregna moscia è qualcuno che sa campare cercando di ridurre al minimo tutto lo scontro con la vita. Cioè non pagando niente, facendosi venire a prendere, accomodandosi in una condizione nella quale sia richiedente, perché poi in palio si darà un premio. Che mi sento di dire abbiamo un po’ tutti. La differenza è tra una condizione tragica e una condizione scaltra. Essere fregna moscia è un mestiere. E delle volte uno quando vuole cercare di essere in rottura va contro. Invece, ogni tanto, è giusto pure essere un po’ fregna moscia.
Sullo sfondo di Flaminia c’è Roma. Lei che rapporto ha con la sua città?
Strano. Il 70% dei romani ha un rapporto assolutista, l’altro 30% quello che si ha con i genitori. Io faccio parte di quel 30%. Io da Roma scappo Ci sono dei momenti in cui dico: “Sai che c’è? C’è che è il momento di andare fuori dai coglioni”. Paradossalmente Roma è così grande, ma allo stesso tempo riesce ad essere così provinciale e deludente delle volte. È come i genitori: ti dà la vita, ma poi non ti vede. E quando fa così vado all’estero. Perché per me Milano è all’estero (ride, ndr). Però a un certo punto, quando stai tanto fuori, c’è un attaccamento così viscerale che devi tornare. È un rapporto conflittuale, come il rapporto che c’è con una mamma. Ti scontri, ma poi devi tornare.
È nata alla fine degli anni Ottanta e quindi cresciuta tra Serena Dandini e Mediaset. Cos’è che in quegli anni l’ha colpita al punto da dire: “Voglio stare su un palco?”.
Tutto. Serena Dandini e la Gialappa’s per me erano dei fari. I volti di MTV erano inarrivabili. Sono stati degli influssi positivi perché era una televisione che ti dava un tanto contenuto. C’era anche tanta monnezza (ride, ndr), però era giusto il fatto che ci fossero entrambe le cose. C’erano programmi veramente belli, riferimenti. Chiambretti, Target, Zelig. Tutte realtà che mi hanno formato.
Hai paura di fare passi falsi?
Ne ho avuta tanta. Soprattutto dopo LoL. Però adesso no, perché altrimenti non fai niente. Cerco di pensare prima a quello che faccio. Anche se per qualcuno potrà sempre essere sbagliato. L’importante è prendersi sempre la responsabilità di quello che uno fa.
E il tour in Europa?
È stato accolto con un grande entusiasmo. Al di là di ogni mia aspettativa. Dopo due anni che non faccio un tour da un’ora sul palco il punto è: “Ce la faro?”. Però mi è mancato tanto. La gente ha così fame e io ho così fame della gente che non vedo l’ora. Sa qual è il segreto? Faccio le cose più per me che per il pubblico. Poi a loro può piacere o non piacere. Ma io lo faccio perché ne ho voglia.
Un’ultima domanda: si è mai sentita messa in un angolo in un settore, come quello della stand up comedy, molto maschile?
Ci hanno provato, ma gli è andata male (ride, ndr).
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