Chi ha paura del buio? Da Jordan Peele ad Ari Aster: storia di una rivoluzione horror

Sperimentazione, azzardo, innovazione, estetica. Da Jason Blum ad A24 i film dell'orrore sono al centro di un nuovo Rinascimento narrativo e produttivo. Merito di un gruppo di registi dall'ambizione sfrenata e una visione senza limiti

Oscar 2018. Jordan Peele, fino a quel momento conosciuto principalmente come comico, sfila sul red carpet degli Academy Awards. Il suo Scappa – Get Out è candidato a quattro statuette, tra cui miglior film. Un esordio dietro la macchina da presa con un budget da 4 milioni e 500mila dollari che arriverà a incassare 255 milioni in tutto il mondo. Quel 4 marzo 2019, sul palco del Dolby Theatre di Los Angeles, si è scritto un pezzo di storia. Peele vince l’Oscar per la miglior sceneggiatura. Inizia idealmente il Rinascimento del cinema horror contemporaneo.

L’America dell’orrore di Jordan Peele

A portare la bandiera di questo nuovo corso cinematografico proprio Peele che ha saputo unire omaggio alla tradizione horror e intrattenimento pop a una feroce critica sociale. Il suo Scappa – Get Out oltre ad essere un film dell’orrore è anche un film politico.

Una riflessione sulle colpe del liberalismo americano, sul razzismo insito negli Stati Uniti, sulla falsità di facciata di una classe sociale che finge di essere di gran lunga migliore di quello che è. Un pensiero approfondito anche in Noi (in originale Us). Una tuta rossa e un paio di forbici dorate. Jordan Peele con il suo secondo film, dopo il primo piano terrorizzato e immobile di Daniel Kaluuya, entra nell’immaginario pop con due elementi visivi che caratterizzano i suoi protagonisti.

Una terrificante e minacciosa famiglia di doppelgänger grazie alla quale mostra l’evoluzione – o forse sarebbe più giusto dire l’involuzione – dell’America dagli anni Ottanta ad oggi. Realizzato nel pieno della presidenza Trump, il film accusa la sua politica votata alla violenza e al razzismo e attesta la fine definitiva del sogno di un paese migliore – politicamente, culturalmente, socialmente – rappresentato dalla politica di Obama.

Il tutto mentre cita Shining e Lo squalo. Un po’ come avviene in Nope, suo terzo lungometraggio in cui inserisce elementi di fantascienza, citazioni bibliche e omaggia apertamente Sallie Gardner e la sua serie di fotografie di un cavallo a galoppo che rappresentano idealmente uno dei primi esperimenti cinematografici. Una sorta di western horror in sala sci-fi in cui la minaccia per i protagonisti è rappresentata da una nuvola/navicella extraterrestre.

Una scena di Noi di Jordan Peele

Una scena di Noi di Jordan Peele. Courtesy of Universal Pictures

Blumhouse: voce del verbo spaventare

Oggi, però, non si può dire horror senza dire Jason Blum. Con la sua Blumhouse Production, casa di produzione fondata nel 2000, ha messo in piedi un modello di business che ogni produttore hollywoodiano (e non) gli invidia. La prima pietra della sua nuova fondazione (horror) la posa nel 2007 quando produce Paranormal Activity di Oren Peli. Budget? 15.000 dollari. Incasso? 193 milioni di dollari in tutto il mondo.

A quel titolo innovatore ne sono seguiti molti altri – compresi Scappa – Get Out e Noi – replicando il successo di critica e botteghino oltre a confermare a Jason Blume che quella percorsa era la strada giusta. Da Insidious a Sinister, passando per la serie (cinematografica e televisiva) de La notte del giudizio, Oculus – Il riflesso del male e Ouija fino alla trilogia di Halloween diretta da David Gordon Green e l’ultimo successo targato Blumhouse: M3gan. Una ricetta perfetta fatta di libertà creativa per i registi, intrattenimento e terrore.

It Follows, il primo passo di un cambiamento horror

A onor del vero, però, se dovessimo rintracciare il film che nei primi anni Duemila ha segnato un prima e un dopo nel modo di concepire il genere horror, punteremmo il dito verso It Follows. Diretto da David Robert Mitchell e presentato al festival di Cannes del 2014 vede Malika Monroe – negli anni diventata nuovo volo del cinema horror statunitense – nei panni di Jay, diciannovenne perseguitata da una misteriosa entità che si trasmette per via sessuale.

Visibile solo alle sue vittime, l’entità le perseguita assumendo l’aspetto di chiunque. L’unico modo per liberarsene è attraverso un rapporto intimo che “trasferisca” la maledizione al malcapitato partner occasionale. Influenzato visivamente dai film di George Romero e John Carpenter, It Follows è stato interpretato da molti critici come una metafora sulla trasmissione dell’HIV.

Una visione non confermata dal regista che, più volte, ha dichiarato come il film nasca dagli incubi che faceva da ragazzo in un periodo molto complesso della sua vita e come il sesso rappresenti un modo per allontanare il pensiero della morte. Interpretazioni a parte, nell’ottica dell’evoluzione del cinema horror, It Follows segna un passo determinante. Il pericolo è impalpabile, non si può vedere, ma la sua percezione rende noi spettatori più vulnerabili.

Joaquin Phoenix e Ari Aster sul set di Beau ha paura

Joaquin Phoenix e Ari Aster sul set di Beau ha paura. Courtesy of I Wonder Pictures

A24. Storia di una rivoluzione (horror)

Se c’è una realtà produttiva e distributiva che negli ultimi dieci anni ha saputo mostrare che un nuovo modo di fare cinema è possibile è sicuramente A24. Fondata a New York nel 2012 da Daniel Katz, David Fenkel e John Hodges, l’azienda in soli cinque anni è arrivata agli Oscar. Nel 2017 ha letteralmente tolto dalle mani, grazie a Moonlight di Barry Jenkins, l’Oscar a miglior film erroneamente assegnato a La La Land di Damien Chazelle. E quest’anno solo con Everything Everywhere All At Once di statuette ne ha conquistate ben sette nelle principali categorie.

Ma concentrandoci sul cinema horror, il primo titolo di genere, in ordine di tempo, ad essere stato prodotto da A24 è Under The Sky di Jonathan Glazer. Pellicola debitrice alla fantascienza con la quale la casa di produzione inizia quella rivoluzione che l’ha portata, in una manciata di anni, a diventare un vero e proprio modello – narrativo, produttivo e distributivo – in fatto di cinema dell’orrore.

Robert Eggers, il volto nuovo dell’horror

Insieme a Jordan Peele, sono altri due i registi che in questi ultimi anni sono diventati simboli di un nuovo modo di intendere il genere horror. Il primo è Robert Eggers che con The Witch, nel 2015, non si è limitato a lanciare la carriera di Anya Taylor-Joy. La sua oscura favola folk segna l’inizio del cosiddetto “horror elevato”, una categoria che si riferisce proprio al nuovo modo di (non) mostrare il male.

A terrorizzare lo spettatore non sono più scene raccapriccianti, mostri deformi o litri di sangue. Ora la paura si percepisce, è fuori dall’inquadratura. A spaventare è un’idea, l’attesa snervante, l’invisibilità del male, le atmosfere suggerite dal film. Per non parlare poi di come visivamente questi film si rifacciano ad un’estetica ricercata raggiunta con accortezze tecniche raffinate. Ne è un esempio The Lighthouse, sempre di Eggers, in cui la fotografia di Jarin Blaschke è degna di un quadro espressionista.

Le visioni e le luci di Ari Aster

Al fianco del regista di The Witch è impossibile non citare Ari Aster. Considerato da Martin Scorsese come “il regista più potente del momento”, Aster è giunto al suo terzo lungometraggio con Beau ha paura. Un’epopea ansiogena e ossessiva con protagonista Joaquin Phoenix. Un film visionario, ambizioso, stratificato per il quale, si percepisce, il regista ha avuto carta bianca (finendo, va detto, per eccedere e girare a vuoto nella parte finale).

L’ennesima scelta coraggiosa di A24 forte, però, dei risultati dei primi due film di Aster: Hereditary – Le radici del male (un budget di 10 milioni di dollari per 80 milioni d’incasso) e Midsommar – Il villaggio dei dannati. Proprio con quest’ultimo film, ambientato in Svezia durante il solstizio d’estate, Aster compie un rovesciamento clamoroso per il genere. Niente ambientazioni notturne o spettrali, il film è illuminato dalla luce perenne e abbagliante di Pawel Pogorzelski.

La nuova via dell’horror passa per la sperimentazione, l’azzardo, l’innovazione, l’estetica. Ma, soprattutto, per la capacità di fare leva sulla psicologia degli spettatori (ne sono esempio It Come At Night di Trey Edward Shults, Saint Maude di Rose Glass, Men di Alex Garland). È con la nostra psiche che questi film giocano, stuzzicando i nostri sensi e finiscono per terrorizzarci mentre parlano di depressione, lutto, appartenenza sociale, psicologia o malattie mentali.

Mia Goth in una scena di X: A Sexy Horror Story

Mia Goth in una scena di X: A Sexy Horror Story. Courtesy of Midnight Factory

Da Ti West a Kane Parsons. Qual è il futuro dell’horror?

Altro nome imprescindibile quando oggi si parla di horror è quello di Ti West. Il regista di The Innkeepers nel 2022 ha dato il via a una trilogia con X: A Sexy Horror Story con protagonista Mia Goth (al centro, a ragione, di una polemica relativa alla mancata nomination agli Oscar per la sua interpretazione). In contemporanea alle riprese del primo capitolo, West ha filmato anche il sequel, Pearl – presentato a Venezia 79 – al quale seguirà il conclusivo MaXXXine.

Profondamente debitore di pellicole come Non aprite quella porta, Le colline hanno gli occhi o Psycho, X: A Sexy Horror Story riprende i temi e l’estetica classici del cinema horror ma li rivede in chiave moderna. Il risultato è una riflessione sul corpo, la bellezza e l’invecchiamento. Tutto, però, in chiave slasher in una citazione continua dei classici del genere aggiornati al presente.

Kane Parsons, dal liceo a Hollywood

Mentre titoli come Barbarian di Zach Cregger ottengono un successo clamoroso unendo la critica sociale – il film è ambientato in una sofferente Detroit – ad una storia horror da manuale e Talk to Me, nuovo titolo A24 degli esordienti Danny e Michael Philippou, viene definito uno dei film più spaventosi dell’anno, il futuro dell’horror ha un nome e cognome: Kane Parsons.

Classe 2005, Parsons ha postato sul suo canale YouTube un video intitolato The Backrooms. Camera a mano, spazi abbandonati e lunghi corridoi vuoti ripresi con la tecnica del found footage. Ambientato nel 1991, il video è spaventoso e prende spunto da una leggenda metropolitana legata ai bug dei videogiochi.

Arrivato a 47 milioni di visualizzazioni in un anno (ma sul canale YouTube Parsons ne ha caricati altri raggiungendo la cifra dei 173 milioni di click), il video ha attirato l’attenzione di A24 (neanche a dirlo), della Atomic Monster di James Wan e della 21 Laps di Shawn Levy che produrranno un film tratto dai suoi corti basato su una sceneggiatura di Roberto Patino (Sons of Anarchy e Westworld. – Dove tutto è concesso).

Niente male per un liceale che ha sulle spalle il compito di traghettare il genere horror verso una nuova fase della sua storia.