La cultura come bene comune, guardiamo al futuro insieme: è nell’arte la rivoluzione (davvero) democratica e necessaria

Riconoscere il valore dei nemici, trovare una piattaforma comune e condivisa e cercare obiettivi da perseguire oltre le proprie idee politiche. Ciò che all'estero è dato per scontato, in Italia è utopia. Invertiamo la tendenza a distruggere l'altro, costruiamo insieme. Cominciando a valorizzare una classe dirigente al di là di presunte appartenenze e cercandone una nuova

Qualche giorno fa un collega francese mi chiedeva conto, per un’inchiesta che stava facendo sugli aiuti pubblici in Europa, del caos che ogni dichiarazione del Ministro della Cultura italiano suscitasse nel Belpaese, non riconoscendo una simile intensità emotiva e politica nel suo che pure ha definito “caldo” quando si tratta di dibattito pubblico.

Due o tre settimane fa dei rappresentanti di una categoria del cinema importantissima – a mio parere la più importante – mi ha chiesto un confronto su dati, leggi, prospettive del rapporto tra il cinema italiano, in particolare d’autore, e la politica, la cosa pubblica.

Avevano la legittima paura che la strategia di questo governo fosse creare un’egemonia robusta e muscolare su ciò che è cultura in Italia.

E francamente, va detto, è difficile pensare diversamente se un libro su Acca Larenzia d’inchiesta (Dalla stessa parte mi troverai di Valentina Mira) sul suicidio in carcere di uno degli imputati di quel pluriomicidio porti la destra ad attaccare furiosamente e scompostamente il premio Strega o se i giornalisti Rai denunciano “il servizio pubblico usato come megafono” per una par condicio divenuta per Meloni e soci libertà totale e indisturbata di propaganda televisiva.

Avevano paura, quelle donne e quegli uomini, che ciò che era stato portato avanti dai vari esponenti della politica culturale negli ultimi mesi si riconoscesse in un (falso) efficientismo che spazzasse via specificità culturale, sostegni al cinema indipendente, una visione libera e sperimentale da cui possono poi nascere le eccellenze. Una paura legittima, ma che fa dimenticare che non è che altrove abbiano poi così più tutelato tutti questi aspetti.

Chissà che negli Stati Generali di Siracusa (12-14 aprile 2024), che sinceramente sembrano più kermesse che terreno di confronto, saranno davvero serviti, alla fine, ad andare a fondo di ciò che davvero sta annichilendo la cultura in questo paese.

La cultura deve essere un bene comune

Ha scritto al Foglio il Ministro Gennaro Sangiuliano che l’Oscar de La grande bellezza arrivò, 11 anni fa, in un periodo in cui gli aiuti al settore ammontavano a 190 milioni di euro, non ai più di 700 come degli ultimi due anni (lì di contributi selettivi, qui di tax credit). E fa altri esempi, tra cui quello che ama molto, pur nella sua spiacevolezza, sull’ultima fatica di Saverio Costanzo, Finalmente l’Alba, che avrebbe incassato decine di migliaia di euro per 9 milioni pubblici ottenuti.

Ma è un punto di vista strettamente merceologico, insensato per un lavoro creativo e artistico come parametro di giudizio. E in ogni caso se uno volesse comunque affrontare il tema su questo piano analitico, dovrebbe invece capire come e quanto il Pubblico aiutava il cinema ai tempi degli esordi di entrambi, quanto ne abbiano beneficiato allora, più che al culmine della loro fama e vena inventiva.

Così come dire che il neorealismo non incidesse sulle casse dello Stato è pretestuoso (siamo nell’immediato dopoguerra è il piano Marshall investe tutto e tutti, anche il cinema, con una Hollywood che investe da noi per lungimiranza economica ma pure – come ci insegnano molti saggi – per propaganda politica) così come mitizzare i produttori che facevano tutto da soli.

Boom economico, legge Andreotti e leggende ministeriali

Non era poi così difficile in un periodo di boom economico, in cui anche il consumo culturale saliva vertiginosamente. A cavallo degli anni ’50 e ’60 esordiscono tanti maestri, da Fellini ad Antonioni a Olmi fino a Pasolini, le architravi del nostro immaginario. E chi non lo fa in quel periodo ma prima, costa dirlo, lo fa anche grazie alle prebende concesse da un fascismo decisamente sensibile al cinema (la Mostra Internazionale è figlia dell’intuizione dell’ex ministro plenipotenziario fascista, ex governatore della Tripolitania italiana e conte di Misurata Giuseppe Volpi).

I produttori rischiavano e guadagnavano perché vivevano e agivano in una società e in un’epoca in cui, per dire, in pochi anni, i frigoriferi quintuplicarono la loro presenza nelle nostre case, così come le auto nelle nostre strade. Le televisioni diventarono 10 volte tanto, le lavatrici 100.

Ma anche perché, caro Ministro, c’era eccome l’intervento pubblico. È rimasta leggendaria, la stella polare di ogni racconto sulla epica cinematografica di quegli anni, la legge n.958 (ottima, va detto) del 29 dicembre 1949 voluta dall’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega per lo Spettacolo Giulio Andreotti.

Prevedeva tra le altre cose “provvidenze” notevoli per l’epoca (1 miliardo 250 milioni), una programmazione obbligatoria che permettesse l’accesso ai benefici di legge con l’abbinamento di un cortometraggio o di un documentario di valore culturale che incassasse il 3 per cento lordo degli spettacoli del film che precedeva (così, per dire, si sono costruite le fortune di case di produzione, alcune specializzate come la Documento Film, e poi di registi e produttori) e un’attribuzione della nazionalità della pellicola che arginò l’invasione di Hollywood, che in quel momento colonizzava le nostre sale (e non solo) e fu l’inizio di un lungo periodo di successi, fino a diventare il secondo mercato cinematografico al mondo.

Oltre le gaffes

Insomma, caro Ministro, non è proprio come lei ha scritto su Il Foglio. Ma alle sue gaffes, che ci fanno pure sorridere, siamo anche un po’ abituati: l’essere giurato dello Strega e promettere a Geppy Cucciari di leggere (dopo) i libri che ha votato, collocare a Londra una piazza di un’altra metropoli, la lettera affettuosa a Giorgetti con cui si offrivano in dono 100 milioni di quelli destinati al cinema, sono disattenzioni, vogliamo pensarle così, momenti di distrazione che possono sempre capitare. E vogliamo capire.

E, per una volta, non vogliamo fare polemica. Vorremmo anzi cercare di tornare a quella domanda del collega transalpino che con un po’ di supponenza, è vero, ci chiedevano perché fossimo così litigiosi e “paranoici”, ci ha definito proprio così, sui temi culturali. E alla mia domanda, “voi perché non lo siete?”, la sua risposta è stata semplice. “Lo siamo, quando si tratta di argomenti fondamentali, come ai tempi dell’intermittenza dei lavoratori dello spettacolo da difendere e implementare. Ma non quotidianamente. Perché che vi sia destra o sinistra al potere, abbiamo principi su cui nessuno si sognerebbe di discutere. Le quote di cinema francese in tv, la difesa della nostra rete culturale. Vengono dati per scontati, per dati, certe cose non potrebbero essere cambiate”.

Ecco, la risposta era semplicissima, eppure non mi aveva neanche sfiorato. Da noi chi arriva al Ministero e in tutte le altre istituzioni culturali principali, rovescia il tavolo e poi lo riapparecchia. A volte, va detto, persino tra governi che dovrebbero essere in continuità tra loro, figuriamoci se invece ci troviamo con un’alternanza democratica tra chi era all’opposizione e chi al governo.

Paranoie convergenti

Paranoici, mi ha detto quel reporter transalpino un po’ saccente. Ma ha ragione.

Per questo dobbiamo essere sinceri, abbandonare casacche rosse e nere, e guardarci allo specchio, anzi gli uni negli occhi degli altri. E smettere di accettare che il cinema venga considerato il cortile delle terrazze scoliane, di un’élite di centrosinistra che si piace assai, di contenuti progressisti e a volte marginali per il pubblico più popolare. Perché, ora sempre meno, ma è vero.

Lo è perché da quella parte c’è una sensibilità maggiore per creatività e arte? Probabile, ma anche perché per anni la strategia della togliattiana egemonia culturale ha lavorato bene. Il buon Palmiro cinico e lungimirante ripuliva tessere del partito fascista, foto vestiti da balilla, appelli imbarazzanti firmati per pavidità con una nuova verginità artistico-politica di professori e intellettuali, per recuperare nel mondo di parole e immagini quello che non poteva avere dalle urne o nei palazzi del potere.

Un luogo dell’anima e della mente che quell’élite protegge gelosamente con una barriera sociale invisibile ma consistente, che concede troppo spesso solo ai borghesi di praticare quest’arte affascinante (i Vicari, i Virzì, i D’Innocenzo, nelle loro generazioni sono eccezioni). Lo fa, va detto, anche e soprattutto combattendo strenuamente per i valori in cui crede, ma praticando molto raramente quell’inclusività, quell’uguaglianza che a parole ama. Ma che poi a Capalbio, a piedi scalzi come nei gatti in tangenziale targati Milani-Cortellesi, sono valori che non fanno mai la loro figura come dovrebbero.

Una piattaforma comune, facciamo proposte altre e alternative

Dall’altra parte, a destra, c’è la convinzione ferrea di essere esclusi ed emarginati, di non essere mai stati invitati nei salotti che contavano, eppure quando elementi di valore come Squitieri arrivavano a girare opere cinematografiche, magari venivano contestate maggiormente per le sue simpatie politiche, ma la qualità di ciò che facevano emergeva.

A destra si è sempre cercato di demolire il fortino avversario, invece di costruire una classe dirigente e di favorire, magari in classi sociali diverse e in contesti diversi, una primavera culturale diversa. La cultura si preferiva (e preferisce?) deriderla, umiliarla, piuttosto che conoscerla e contaminarla.

Di sicuro in questa battaglia, c’è una grande assente. La cultura come bene comune. Si fa una gran fatica a parlarsi e confrontarsi, a trovare una piattaforma di confronto condivisa, tutto è sempre in discussione.

La quota d’investimento nazionale dei grandi streamer? Ostaggio di lobby e di una politica che le segue servilmente. Il Centro Sperimentale di Cinematografia? Un’arena perché si possa attuare la versione del manuale Cencelli preferita e su cui intervenire per spartizioni di potere. La Rai? Non ne parliamo, e proprio in una delle sue epoche creative e finanziarie probabilmente più virtuose. Il tax credit, i contributi selettivi? Quasi un’arma di ricatto. E così via. E vale per la destra, come per la sinistra. Qualcuno usa dichiarazioni più colorite e folkloristiche, altri a volte pure (ricordate “la commissione degli amici degli amici”?), più spesso lavorano sotto traccia e con parole più accorte. Ma il contenuto è simile, parallelo, convergente.

Quali obiettivi?

Proviamo a invertire questa tendenza. Smettiamola di essere tifosi ottusi e violenti, come nella maggior parte delle partite di calcio. Iniziamo magari a giudicare male un arbitraggio quando stiamo vincendo o, ancora meglio, quando ci favorisce. Guardiamo al presunto nemico non dico come un alleato, siamo pur sempre in Italia, ma magari come qualcuno che ha il nostro stesso obiettivo, ma vuole arrivarci per una strada diversa. Ma, soprattutto, invece di essere ossessionati dal dimostrare come, se e quanto gli altri sbaglino, quegli obiettivi stabiliamoli. Insieme. E raggiungiamoli.

Proviamo. E che siano facili e immediati. Un accesso più equo al cinema e alle sue professioni. Una possibilità maggiore di usufruire di una formazione che non abbia barriere di classe. Un’internazionalizzazione vera del prodotto – come dice Ravello, “aspettano le nostre storie” -, una sacrosanta battaglia agli sprechi.

Una continuità progettuale politica, economica e culturale, la fine della visione del mondo della cultura come di un settore esclusivamente economico ma come un’industria di prototipi, se proprio vi dà fastidio la parola arte. Pensiamola, che so, come la Formula 1. Ci si partecipa sapendo di andare in perdita, ma quello che andrà in pista oggi, migliorerà le nostre strade domani.

Sembra qualcosa di immenso, impossibile, eppure, mettendoci quella sana ingenuità che ci ha fatto amare spudoratamente quel gioiello che è Viva la libertà di Roberto Andò, non sembrano poi ostacoli insormontabili.

Ora, chi scrive è un estremista della cultura. Uno che è convinto che se lo sviluppo della stessa è sancito come diritto costituzionale dall’art. 9 – Benigni ha ragione, è la più bella del mondo la nostra Costituzione, se qualcuno la leggesse davvero – allora tutto ciò che interviene su di lei dovrebbe avere forza di leggi costituzionali e ancor di più sarebbe necessario per cambiarne i connotati una maggioranza qualificata di due terzi del parlamento.

Ma, mi rendo conto, è una posizione molto radicale e poco radical chic.

L’intervento del Direttore generale Cinema e audiovisivo del Ministero della Cultura, Nicola Borrelli, all’incontro “Restate con noi” Storie, identità e valori della TV che cambia, nella sede della Stampa Estera a Roma, 24 maggio 2023

L’intervento del Direttore generale Cinema e audiovisivo del Ministero della Cultura, Nicola Borrelli, all’incontro “Restate con noi” Storie, identità e valori della TV che cambia, nella sede della Stampa Estera a Roma, 24 maggio 2023

Immaginare una cultura diversa: una possibile road map

Però proviamo a giocare con la fantasia, che in fondo è ciò che si fa al e col cinema e nella cultura in generale.

Partiamo dall’accesso più equo al cinema e alle sue professioni. Con una possibilità maggiore di una formazione che non abbia barriere di classe. A Roma, alla Magliana, c’è una scuola di cinema pubblica e gratuita, Gian Maria Volonté. Ha le carte in regola per piacere a tutti.

È una scuola d’eccellenza, che ha Daniele Vicari e Antonio Medici ai suoi vertici, che ha Ettore Scola come padre nobile e Valerio Mastandrea tra i fondatori. Da lei sono usciti tanti e qualificati artisti e tecnici. E, per gli efficientisti che troviamo a destra, tranquilli: già nel primo anno uno su due viene inserito stabilmente nel mondo del lavoro.

Pensate, un luogo che raggiunge questo grado di perfezione, anche politica, vive costantemente in una situazione di precarietà.

Torniamo agli investimenti pubblici.

E se i contributi fossero più selettivi?

Pensiamo ai contributi selettivi, che in modo insensato creano sempre discussioni (soprattutto, diciamocelo, per quanto marginalmente incidono nei singoli budget e anche in quanto stanziato dal pubblico per il settore), anche perché ex post tutti sono bravi a criticare finanziamenti dati e non dati, soprattutto se nella scelta c’è una qualificata discrezionalità che apre le porte a possibili e pretestuose polemiche. Ogni tre mesi qualcuno si lamenta di stanziamenti troppo cospicui per un singolo titolo, per un’esclusione di un successivo successo da quegli aiuti pubblici, o troppi pochi film nella lista dei meritevoli e finanziati.

Immaginiamo un cambio di regole che potrebbe unirsi anche alla battaglia contro gli sprechi. Facciamo accedere a questi aiuti di stato solo film dal medio-basso budget (diciamo sotto i 2,5 milioni di euro?), magari con una media età del cast tecnico e artistico sotto i 35 anni e bonus nel caso si attinga alle scuole pubbliche di cinema.

Diciamo che ciò che ora è previsto per tutti i film venga diviso in due e che il plafond destinato ai selettivi veda una metà invece dedicata alle suddette scuole. Anzi meglio, a delle case dello studente di cinema. Vere e proprie residenze artistiche con tanto di borse di studio (senza un’istituzione come quest’ultima, come ha raccontato a Malcom Pagani, non avremmo avuto il cinema di Virzì), luoghi di convivenza e contaminazione, in cui magari i dormitori sono accanto a teatri di posa.

Sì è utopia, ma pensateci: da una parte farebbero una cosa di sinistra, dall’altra potrebbero dire che hanno tagliato i contributi a fondo perduto a favore di giovani senza opportunità economiche. Con la cultura, dicono a destra, non si mangia. Ma magari si studia e si dorme da fuori sede.

Il Tax Credit e i suoi fratelli

Sul tax credit, ad esempio, ci potrebbe essere un compromesso storico. A sinistra potrebbero riconoscere che in fondo, negli ultimi anni, basta guardare l’ultima classifica dei budget delle serie televisive del superesperto industry Robert Bernocchi, si è usato lo strumento sì per diventare molto competitivi ma anche per rimpinguare casse e capitalizzazioni di società italiane non di rado con robusto se non quasi esclusivo capitale straniero. A guardare quei budget il tax credit sembra uno strumento per integrare guadagni e annullare rischi, più che un incentivo. E 700 milioni per garantire guadagni futuri a un pugno di imprenditori non è che siano pochi.

Dall’altra parte, la battaglia agli sprechi va fatta con intelligenza e attenzione, proprio perché se si vuole essere attenti al mercato – ci si lamenta di film finanziati con 29 spettatori paganti -, allora non bisogna perdere il vantaggio competitivo ottenuto su altri paesi e mercati grazie al tax credit e quindi si deve essere profondamente attenti sì al sopra e sotto la linea, ma anche a come e quanto riallocare quel denaro pubblico. Così come sembra folle, in un momento di salute, incidere sul canone Rai. Perché, e lo sappiamo, ciò che il cinema restituisce alla collettività è, quando va male, il doppio di quanto erogato dallo Stato (con una parte di questo ritorno che è immediato, attraverso la fiscalità di forza lavor0 diretta e indotta).

Avesse fatto così anche il settore dell’automotive, ora il mondo sarebbe un luogo invaso dalle Panda 4×4.

Un cinema italiano e internazionale, specifico e universale

L’internazionalizzazione del prodotto deve passare da un finanziamento pubblico diretto e cospicuo nelle campagne per gli Oscar ad esempio, ma anche sulla possibilità di accordi bilaterali molto forti e ben pensati. Quello targato Lucia Borgonzoni Italia-Giappone, ad esempio (a sinistra possono ammettere, ad esempio che la vivace sottosegretaria leghista è tra le migliori dirigenti politiche degli ultimi anni del settore) è un modello sia creativo che politico ed economico.

Ma non basta, ancora è agli inizi quello con la Croazia – firmato a Zara nel 2007, ma reso esecutivo “appena” undici anni dopo – con cui si potrà balcanizzare il nostro cinema (nel senso buono: la cooperazione degli ex jugoslavi nelle coproduzioni li ha fatti diventare una minipotenza economica e artistica). Lavoriamoci.

Si può fare ancora di più e meglio, così come, tra PNRR, i contributi per film e festival storici (da Eurimages in giù) e parte dei finanziamenti sull’agenda 2030 della UE, c’è un oceano di opportunità da poter cogliere ma che non di rado rimangono lettera morta, anche perché, va detto, burocrazia e bizantinismi delle istituzioni continentali battono persino le nostre.

Non abbiamo paura di prendere il meglio dai modelli di successo altrui, che siano quello belga, francese, tedesco o ticinese. La regionalizzazione del primo, la capacità di vendersi e raccontarsi del secondo (che si riporti ai vecchi fasti ItaliaCinema e la si faccia diventare come e più di Unifrance, vero e proprio ministero degli esteri del cinema francese), la solidità del terzo, le trovate moderne e economicamente competitive del quarto. Uniamolo ai nostri modelli di successo (come quello di molte delle Film Commission, per dirne uno), costruiamone altri.

E così via, le idee sono tante: si deve pensare a penetrare definitivamente un mercato come quello ispanofono che è enorme, pieno di opportunità, tornare a sondare quello mediorientale come un tempo fece Bray ad ora, entrambi, tranne poche virtuose eccezioni, ignorati. Anche lì, tornando alla legge del 1949, perché non immaginare parte del tax credit elargito e da elargire da utilizzare obbligatoriamente per determinati progetti che rispondano a una serie di caratteristiche che possano migliorare il settore?

Giovani leve e capitani coraggiosi

La continuità progettuale e politica, sembra così evidente che quasi non dovrebbe essere spiegata. Molte cose buone sono state fatte dal MiBaC (ora MiC) anche per il doppio mandato Franceschini, per la possibilità di guardare oltre una legislatura, ma ancora di più vale il discorso per il direttore generale cinema Nicola Borrelli.

Anche qui, tutti possono concordare su un lavoro eccellente e imparziale – e sotto i ministri più diversi, da Galan a Franceschini, da Bondi a Bray – che ne ha impedito la costruzione di un personaggio da copertina, ma che al contempo, con un’ottima e costante opera di mediazione e proposte, in 15 anni ha costruito una stabilità strutturale che ha permesso molti passi in avanti. Non è un caso che parliamo di un dirigente pubblico non solo tra i più competenti, ma anche a chi concepisce la propria attività come di servizio al paese e non come costruzione di un potere personale.

Una nomina politica, che risale al 2018, invece, Borgonzoni. Conte, Draghi e poi Meloni con una breve parentesi di assenza nel 2020. Certo, è curioso come la più attiva ed efficace dei sottosegretariati abbia visto pubblicate le proprie deleghe più tardi dei colleghi, ma sarà stato solo un ritardo casuale.

Lucia Borgonzoni, senatrice e sottosegretaria di Stato al Ministero per i Beni e le Attività Culturali

Italian Undersecretary for Culture, Lucia Borgonzoni, arrives at the Lido Beach for the Venice International Film Festival, in Venice, Italy, 30 August 2023. The 80th edition of the Venice Film Festival runs from 30 August to 09 September 2023

Continuità, come Borrelli, che in quel Ministero sta dal 2009. Allargando il campo, pensiamo anche ad altri dirigenti nodali: Paolo Del Brocco, Rai Cinema, player necessario e indispensabile che svolge un ruolo pubblico e di proposta artistica e industriale.
E ancora i Nicola Maccanico – tra privato e pubblico, da Warner a Vision a Cinecittà –  o Alberto Barbera, il cui lungo regno veneziano (che dovrebbe prolungarsi, con scelta lungimirante e proprio in questa direzione, anche con il governo Meloni) ha portato la Mostra ad essere regina incontrastata dei festival internazionali.

Ripartire dal (ri)conoscersi alleati

Non è un caso. E su quest’esperienza, su obiettivi comuni, sulla continuità bisogna ripartire. Su un minimo comun denominatore condiviso, che venga stabilito con chi la cultura la fa, la diffonde, la porta avanti. Sprechi e investimenti, internazionalizzazione e valorizzazione dei talenti, strutturazione industriale più competitiva e sperimentazione creativa, impulso a esordi e a nuova linfa in tutte le professioni e formazione.

Senza paura di essere naïf, inquadriamo altre esigenze, magari fuori dai soliti schemi consumati di politica e istituzioni, e in questo senso quella classe dirigente esperta, quelli che nello sport chiameremmo top player nel pieno della loro carriera, trovi nelle nuove generazioni ispirazione, risorse, futuro. Abbiano il coraggio, come avviene proprio nella amata Francia, di nominare in ruoli fondamentali under 30 e under 40, invece di seguire l’italianissima tendenza a creare cerchi magici di coetanei o di generazion serventi appena successive alla propria.

Un patto politico, culturale, generazionale che osservi quell’art. 9 che non cita parole come egemonia o cultura di destra o sinistra, ma definisce e sottintende la cultura come un bene comune.

La cultura come diritto (e dovere) inalienabile

Perché tale è. La cultura è un diritto (e un dovere, di ogni governo) inalienabile di un essere umano, il suo accesso come il suo sviluppo. Va trattato come tale, non come un orpello, come un lusso superfluo o come un fastidioso privilegio altrui (e non lo è, tra l’apporto che la stessa porta al PIL e gli investimenti in essa c’è una differenza di 4 punti percentuali abbondanti a favore di quest’ultimi, a voler proprio fare i conti in tasca).

Sappiamo che queste (tante) righe disturberanno molti. Perché la faziosità costringe ognuno di noi a demonizzare i nemici e santificare gli amici – salvo scoprirsi in pochi anni in campi opposti, gli uni e gli altri, senza capire come e quando sia successo -, a seguire ideologie che ormai sono solo comportamentali e non di contenuto, a ossequiare schemi triti e ritriti per non sembrare ingenui. Ad avere pregiudizi verso chi magari in una dichiarazione goffa disse di non leggere libri: ma ci dimentichiamo che un intellettuale potrebbe essere un pessimo dirigente culturale, così come un medico non sarà necessariamente un grande ministro della Sanità. I politici non devono essere necessariamente degli intellettuali – certo, quando lo sono, è una festa, ma di Einaudi ce n’è uno solo -, ma devono saper parlare e collaborare con loro.

Siamo realisti, sogniamo l’impossibile

In un periodo di crisi come questo bisogna essere realisti e sognare l’impossibile. Trovare strade nuove, obiettivi altri e infine che lo si possa fare parlandosi invece che combattendosi. Almeno quando si riesce a capirsi e si potrebbe fare un pezzo di strada insieme.

Smettere di considerare l’arte e la cultura il proprio giardino segreto e privato da una parte, esclusivo campo da giochi per un’élite illuminata, non considerarlo dall’altra un fastidioso orpello da eliminare. Da una parte aprirsi a un confronto, dall’altra a imparare, dalla comunicazione politica in Rai, ai libri da leggere e di cui non aver paura, ai film da amare e non temere, a non temere o annichilire il confronto, ma amarlo e affrontarlo.

C’è bisogno di tutti. Una cultura di destra, ce lo insegnano Francia e Stati Uniti, non è solo giusto che esista ma necessario perché si renda più fertile il dibattito artistico e politico. Perché crescano le classi dirigenti e non siano più temute invasioni barbariche.

Dopo il compromesso storico, potremmo, magari speriamo con più fortuna, inaugurare il compromesso artistico.