Le molte verità di Mr Pixar: “Il Santo Graal del cinema? Il 3D senza occhiali”

Direttore creativo dei Pixar Animation Studios, tre Oscar come regista e produttore di Elemental Pete Docter racconta a THR Roma l'approccio dell'azienda alle intelligenze artificiali e come ha trasformato in cartoon, "senza perdere leggerezza", il tema caldo dell'immigrazione

È l’uomo Pixar per eccellenza: 54 anni, 33 dei quali in azienda, unico regista ad aver vinto l’Oscar per l’animazione tre volte (l’ultima nel 2020), co-autore di Toy Story e Monsters & Co., regista di Up, Inside Out e Soul, chiamato a ricoprire – dopo le dimissioni di John Lasseter, fuori dall’azienda nel 2017 per un’accusa di molestie  – la carica di direttore creativo dei Pixar Animation Studios.

Talmente un tutt’uno con il lavoro da somigliare, persino nel fisico, a uno dei suoi personaggi – orecchie grandi, fronte altissima, sorriso ampio: un volto da cartoon. A Cannes per promuovere l’ultimo progetto animato della Pixar, Elemental di Peter Sohn, che domani chiuderà il festival di Cannes (in Italia dal 21 giugno), l’americano Pete Docter avrà la responsabilità creativa anche dei prossimi film Pixar, fra cui l’atteso seguito del suo Inside Out, presentato proprio al festival di Cannes nel 2015.

L’immigrazione, al centro di Elemental, è un tema caldo in Europa. Come pensa che sarà accolto?

Ci abbiamo pensato, a come sarebbe stato accolto in Europa. Volevamo parlare di immigrazione perché pensiamo sia importante farlo. Ma non volevamo perdere la nostra cifra leggera. Abbiamo provato a rendere noto, vicino e familiare il mondo in cui si muovono i nostri personaggi. Non potevamo certo trattare l’argomento con la freddezza di un telegiornale: il nostro pubblico va al cinema per evadere dalla realtà. Abbiamo lavorato però con attenzione alla caratterizzazione dei personaggi, ciascuno con la sua cultura specifica ma nessuno riconducibile a un determinato popolo: non puoi dire ‘quelli sono gli italiani’. Stesso discorso per le musiche, curate da Tom Newman. Ha composto melodie “elementali”, che non  fossero attribuibili direttamente a una specifica cultura. 

I protagonisti di Elemental sono gli elementi: fuoco, aria, acqua, terra. Tecnicamente è stato complicato realizzarli?

Ogni film Pixar è una sfida. Ma in questo caso, dovendo gestire personaggi fatti di acqua e di fuoco, è stato particolarmente complicato: evaporano, si sciolgono, bruciano, e in tutto ciò devono essere credibili, senza perdere espressività. Cinque anni fa un film del genere non lo avremmo potuto fare.

Dopo 27 film targati Pixar c’è il rischio di ripetersi?

Certo. Capita spesso di avere una buona idea, e di accorgerci in corso d’opera che era qualcosa che avevamo già fatto. Siamo stati pionieri dell’animazione in digitale, ora la partita la giochiamo in tanti. Ma la concorrenza non mi spaventa. Ti costringe ad alzare l’asticella della qualità. Le sfide più grandi, oggi, riguardano i costi e la programmazione.

Pixar si serve delle intelligenze artificiali?

Le usiamo per la renderizzazione dei frame (il processo di visualizzazione dell’immagine digitale, ndr), che le intelligenze artificiali rendono infinitamente più rapido. Ma è solo uno dei tanti esempi: stiamo sperimentando molto in questo campo. Posso dire con certezza che se c’è qualcosa che non può fare una IA, è inventare battute e scrivere un copione.

Ci ha provato?

Un paio di volte. Ho ottenuto cose estremamente banali. Alla Pixar facciamo storie basate sui personaggi, irriproducibili da un computer. Prenda Elemental: l’uomo acqua non lo può immaginare una macchina. È un personaggio onesto, limpido, così emotivo da non riuscire nemmeno a mentire. La donna fuoco, invece, è la figlia di due immigrati e sente il peso delle aspettative dei genitori. L’idea di un buon film arriva dal regista e dal team degli autori, poi viene lavorata dagli animatori. Ma è un prodotto collettivo. Necessariamente umano. 

Elemental, il nuovo film Pixar

Elemental, il nuovo film Disney/Pixar

Ha creato la prima serie originale Pixar, Win or Lose (attesa nel dicembre 2023, ndr): che fa, cambia formato?

Abbiamo cominciato a lavorarci appena è stata annunciata la nascita della piattaforma Disney+. Bob Iger e Alan Bergman, della Disney, ci hanno chiesto di sperimentare. All’inizio non ero convinto, poi ho riflettuto sulle opportunità: la struttura e la dinamica dei film cominciava a diventare fin troppo familiare, a starmi stretta, avevo voglia di cose diverse. Con la serie in streaming puoi fare tutto: episodi col colpo di scena finale o cortometraggi autonomi, di 10 o 40 minuti. 

Quindi il futuro del cinema è lo streaming o la sala?

I nostri film, basta guardare il livello dei dettagli, sono pensati sempre per il grande schermo. Ed è triste vedere ragazzi che guardano sul display di un tablet un prodotto pensato per uno schermo da 12 metri. Di sicuro tanti bambini si sono innamorati dei film guardandoli in salotto a casa, ed è bello che accada. Ma noi continueremo a produrre per il cinema, finché il pubblico lo vorrà.

Nel 3D ci crede?

Si sta evolvendo. All’inizio mi dava il mal di testa. Adesso lo considero un’opportunità. In teoria è molto intrigante. Forse il Santo Graal che cerchiamo tutti è il 3d senza occhiali. Ma ancora nessuno è riuscito a trovarlo.

Come è cambiata la Pixar da quando entrò in azienda, a vent’anni?

È cambiata e cambierà molto. Da allora siamo diventati molto più attenti al tema della diversità, nello staff ma anche nelle storie che raccontiamo: l’animazione è stata troppo a lungo un terreno per uomini maschi e bianchi. Riflettiamo il mondo che viviamo e cerchiamo nuove angolazioni per raccontarlo. Dal punto di vista dei prodotti, è un momento strano. Da una parte nel pubblico cresce la voglia di sequel, dall’altra si cercano esperienze sempre nuove: un controsenso. Non siamo sempre riusciti ad accontentarlo al 100%, ma ci proviamo.

Era un regista, adesso è un manager. Tornerà a fare film?

Spero a un certo punto di ricominciare. Mi dà comunque molta soddisfazione lavorare con i nostri autori, guidarli come fa l’editor con lo scrittore. Ho scoperto altri aspetti del lavoro, dall’altra parte del tavolo. 

Per esempio?

Quando facevo il regista non ho mai pensato a cosa volesse dire fare un “four quadrant movie” (in gergo, un film che soddisfi i quattro settori di pubblico: femmine, maschi, anagraficamente sopra e sotto i 25 anni, ndr). Facevo le cose che piacevano a me. Ed è quello che chiedo oggi ai nostri autori. Non si devono preoccupare di realizzare un film che accontenti tutti. A quello ci pensiamo noi, limando e aggiustando. Senza che si perda il senso, possibilmente.