Love Club, quando la nuova serie LGBTQIA+ è un enorme “vorrei ma non posso”

Quattro puntate per quattro storie nella Milano di oggi, tra superficialità e amatorialità percepita: insomma, non ci si inventa neorealisti

Una serie antologica LGBTQIA+ italiana è cosa rara, con Prime Video che ha osato ciò che appariva inspiegabilmente inosabile da un punto di vista produttivo e distributivo grazie a Love Club, scritta da Silvia Di Gregorio, Bex Gunther e Denise Santoro insieme a Veronica Galli e Tommaso Triolo, per la regia di Mario Piredda.

Quattro episodi dalla durata di mezz’ora l’uno sbarcati in streaming il 20 giugno, in pieno Pride Month, per raccontare una comunità in tutte le sue spiccate differenze e sfaccettature.  Il Love Club è un locale LGBTQIA+ di Milano che rischia di chiudere per problemi economici. Le vite di Luz, Tim, Rose e Zhang, che orbitano tutte attorno al locale, si sfiorano in un percorso che obbligherà i quattro a dover affrontare le loro paure più grandi. “Palcoscenico delle loro vite, il Love Club è un luogo dove sesso, amore e amicizia si esprimono con traiettorie impreviste e senza regole di genere”, precisa la sinossi ufficiale del progetto Prime Video, sulla carta encomiabile per aver provato a raccontare realtà spesso volutamente lasciate ai margini dalla serialità italiana ma assai discutibile sul piano pratico e qualitativo.

Prisma è un’altra storia

Perché Love Club è un gigantesco “vorrei ma non posso” all’italiana che deraglia rapidamente sotto i colpi di un’amatorialità recitativa oggi come oggi, dinanzi a produzioni televisive mostruose, onestamente inaccettabile.

Vero è che la produzione si è soffermata su attori nella maggior parte dei casi non professionisti, appartenenti alla comunità LGBTQIA+ milanese, ma anche lo straordinario Mattia Carrano di Prisma, per rimanere su Prime Video e sull’inclusività LGBTQIA+, non aveva mai recitato prima di incontrare Ludovico Bessegato, che ha saputo dirigerlo e ottenere il meglio da un ragazzo chiamato ad interpretare addirittura due gemelli.

Proprio l’inevitabile paragone con Prisma, meritatamente fresca trionfatrice ai Nastri d’Argento come miglior serie drama dell’anno, finisce per affondare Love Club, visibilmente realizzata con altro e assai più ridotto budget ma anche, se non soprattutto, con minore profondità di scrittura e maggiore banalità nell’affrontare determinate tematiche.

Realizzato e ambientato nel 2023, Love Club è un prodotto vecchio sin dall’assunto di base, che vede questo locale milanese come unico “luogo sicuro” di una comunità altrove sbeffeggiata e poco accettata.  Una visione anacronistica di una realtà fortunatamente diversa, soprattutto nella “bolla” di Milano, dove le serate sono sempre più intrecciate e inclusive, staccandosi da quell’idea di “famiglia queer” a cui potersi affidare solo tra le mura amiche.

In Love Club è tutto finto (e si vede)

Le quattro brevi, poco incalzanti e noiosissime puntate di Love Club seguono i quattro protagonisti, pennellando quattro storie apparentemente autoconclusive. Riuscirà Luz a vivere la sua storia d’amore con Roberta senza il timore di perdere la propria indipendenza? Diviso tra un nuovo amore e il sogno di fare il dj, Tim è costretto a convivere con la propria malattia mentale, mentre Rose deve ritrovare il coraggio di cantare su un palco e Zhang culla il desiderio di esibirsi in drag, al cospetto di un compagno violento.

Sin dai primi secondi Love Club appare posticcio, gratuitamente glamour, con un’entrata in soggettiva all’interno del claustrofobico locale tra bellissime ed elegantissime donne che ammiccano suadenti alla protagonista. Pronti, via e Piredda dà vita un ambiente che non sembra mai reale, veritiero, neanche per un secondo, esplicitandosi come set televisivo, spot di un profumo, video musicale di Paola e Chiara, per poi cedere all’ovvietà.

La compagna che vede il tradimento dell’amata, la mamma ricca borghese imprenditrice di quest’ultima che non accetta la sua omosessualità, la chiamata salvifica all’unità di una comunità che si stringe attorno ad un locale per non farlo chiudere, la saggia madre drag che tiene i fili di un movimento in continua trasformazione, il ragazzo nero che lavora in pizzeria sognando il clubbing tra problemi psichiatrici di non si sa quale tipo e ghosting, la giovane bisessuale padrona del proprio corpo e del proprio piacere sessuale, l’imprenditore cinese vittima di discriminazione in famiglia tra padre omofobo e fidanzato manesco.

Love Club, perennemente in superficie

Se i tanti temi abbracciati in poco più di due ore possono definirsi portatori sani di interesse, tra monogamia, salute mentale, indipendenza e libertà sessuale, violenza e accettazione di sé, Love Club non riesce mai realmente a trattarli con efficacia, rimanendo perennemente in superficie, incapace di approfondire, di andare oltre il già visto.

Il progetto firmato Silvia Di Gregorio, Bex Gunther e Denise Santoro, che proprio nel “pilot” dà il peggio di sé, guarda a quei dialoghi apparentemente semplici, normali, appartenenti al vissuto quotidiano dello spettatore medio resi celebri in SKAM Italia da Ludovico Bessegato, in quel caso perfettamente pesati e centrati ma qui costantemente artificiosi, anche se non soprattutto a causa della recitazione dei suoi protagonisti Veronique Charlotte, Rodrigo Robbiati, Ester Pantano e Alessio Lu, che non appare mai fluida, autentica, credibile.

No, non ci si inventa neorealisti

L’ultima puntata, la più lunga e forse più ambiziosa, è da questo punto di vista esplicativa.  Zhang, fidanzato e con un lavoro strapagato tra i grattacieli di Milano, sogna di fare la drag queen. Ma è un mondo che non può condividere perché il suo compagno, Antoine, non fa altro che deridere il suo progetto di esibirsi in abiti femminili.

La call del Love Club, in cerca di nuovi performer per la sua più grande serata, è l’occasione che Zhang stava aspettando, se non fosse che l’amato lo aggredisca fisicamente e verbalmente, perché mai del tutto accettatosi e in imbarazzo dinanzi ad un compagno en-travesti. In poco meno di 40 minuti Mario Piredda sviscera la storia di Zhang, ragazzo di origini cinesi che si affida alle proprie radici per trasformarsi in Lady Luck, con Lu che fatica tremendamente a dare verosimiglianza ad un personaggio tanto complesso, soprattutto nel momento in cui deve recitare dialoghi che certamente non spiccano per profondità e originalità.

Il furente litigio in strada che si fa attesa liberazione è in tal senso quasi parodistico, con lirico coming out finale sulle note di Una Furtiva Lagrima di Gaetano Donizetti a certificare una scontentezza di fondo e una disarmante leggerezza nell’affrontare determinate tematiche.

Love Club si brucia al cospetto di un’ambizione che non tiene il passo produttivo, registico, interpretativo e autoriale,  accartocciandosi su quattro storielle da poche pagine di sceneggiatura che avrebbero meritato più incisività, consapevole responsabilità, meno scontentezza e molta più attenzione in tutti i suoi dettagli.

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