Secret Invasion, il (non) caso dei titoli di testa fatti dall’intelligenza artificiale

La giustificazione dei creatori della serie dell'aver delegato i titoli di testa all'IA non è un abile uso del metalinguaggio, ma qualcosa di molto pericoloso. E ci apre una finestra su cosa sta succedendo nell'industria dell'intrattenimento

Il fatto che l’MCU (l’universo cinematografico e televisivo della Marvel) abbia qualche problema in questo periodo, lo si capisce dal fatto che la serie Secret Invasion (creata da Kevin Bradstreet e con Samuel L. Jackson come protagonista) stia suscitando interesse più per il fatto che i suoi titoli di testa siano stati realizzati con l’ausilio di una intelligenza artificiale che per i suoi contenuti e la sua qualità. E anche questo pezzo non fa eccezione, a dire il vero.

IA, di cosa parliamo e come funziona

Prima di continuare però, riassumiamo di cosa parliamo quando ci addentriamo nel campo delle IA specializzate nella creazione di immagini. Sostanzialmente si tratta di programmi estremamente complessi e parzialmente autonomi che a fronte di una richiesta di un utente umano, un “prompt”, formulata attraverso le parole, realizza (sarebbe più corretto dire che “compone”) un’immagine originale.

Esempio: se dentro la finestra di comunicazione Midjourney (al momento la IA più popolare ed evoluta per quanto riguarda le opere visive) scrivessimo la frase: “realizza l’immagine realistica di una bella ragazza bionda, vista in primo piano, in campagna e con una piccola fattoria alle sue spalle”, dopo qualche secondo ci verrebbero restituite quattro proposte di immagini, affinabili con ulteriori indicazioni e passaggi. Volendo, le nostre richieste possono essere molto più specifiche e dettagliate di quella che abbiamo portato come esempio e, con un certo grado di conoscenza di come le IA “pensano” (il termine è improprio perché, in realtà, le attuali IA non pensano ma si limitano a interpretare le richieste) si possono ottenere risultati anche molto complessi.

È per questo che sta nascendo la figura professionale del “prompter”, cioè di una persona che sa fare richieste all’IA nella maniera più efficace per ottenere il risultato più possibilmente fedele ai desideri del cliente.

Dai manga alla Gioconda

Volendo, con una IA si può entrare anche nel merito della tecnica da impiegare (ad esempio, si può chiedere un’immagine fotorealistica, o una “dipinta” alla maniera degli impressionisti, o una versione manga, le possibilità sono praticamente infinite) o si possono dare dei riferimenti specifici come “realizza una versione della Gioconda ma con Monica Bellucci al posto di Monna Lisa”. Infine, si possono dare anche indicazioni stilistiche: “realizza una versione della Gioconda nello stile di H.R. Giger”.

Ma come fa la IA a creare le sue immagini? Le inventa da zero, come un artista umano che si trova davanti a un foglio bianco? No. Una IA si poggia sulle sue banche dati, un vasto insieme di immagini, foto, modelli tridimensionali e quant’altro, che  va a spulciare, alla ricerca di quegli elementi che compongono la nostra richiesta. Trovate queste “fonti”, l’IA le scompone e le ricompone per soddisfare la nostra richiesta e secondo una serie di procedimenti che sono, se così possiamo definirlo, il “suo stile”. Questo “stile” è quello che differenzia, per dire, un’immagine creata da Midjourney da una creata da Bing o da Stable Diffusion (altre IA che stanno cercando di imporsi nel settore visivo).

Questo “stile” è anche la ragione per cui, al momento, riusciamo ancora a distinguere un’immagine generata da una IA rispetto a una generata da un umano (cosa che, con il progredire della tecnologia, sta diventando sempre più complicata da fare).

Secret Invasion, il problema è un altro

Ora, prima di andare avanti è bene segnalare un paio di cose importanti: la maggior parte delle IA specializzate in immagini si basano su banche dati finite e chiuse, cioè che non accedono al Web per reperire le immagini di cui hanno bisogno ma si poggiano su delle librerie che vengono determinate, costruite e aggiornate dall’azienda proprietaria della IA stessa.

Come? Difficile a dirsi perché c’è una scarsissima trasparenza in questo. Quello che sappiamo è che, in parte, ci si poggia su materiale realizzato da artisti e tecnici, espressamente per le librerie stesse, in parte su immagini cedute contrattualmente da parte degli artisti che le hanno realizzate e, in parte (in larghissima parte, pare) su immagini prese senza alcun consenso di alcuno e date in pasto alla IA. E questo solleva una delle maggiori resistenze e ostilità che le IA stanno incontrando nell’ambito creativo, ovvero il fatto che molte personalità del settore e varie associazioni prontamente costituite (per amor di brevità cito solo l’Egair – European Guild for Artificial Intelligence Regulation l’associazione che più attivamente e professionalmente si è mossa a livello europeo per capirci qualcosa in questa storia) stanno aspramente criticando l’uso indiscriminato (e, soprattutto, non autorizzato) delle immagini create da artisti che mai hanno dato il loro consenso a uno sfruttamento simile.

Il lavoro degli altri

La questione è abbastanza semplice: una IA usa il lavoro di altri per creare le sue immagini. Non trae ispirazione. Non replica uno stile alla maniera di. Semplicemente, prende il lavoro di qualcuno altro, lo scompone, lo rimodula, e lo usa per creare qualcosa di nuovo.

Sono certo che qualcuno di voi, a questo punto, ha pensato: vabbè, ma non succede anche nella musica con le campionature? Sì, e infatti le campionature sono legalmente regolate, necessitano di autorizzazioni del campionato e, generalmente, sono sussidiarie a un accordo economico. Nel caso delle immagini create da IA questo non succede. Quello che succede, invece, è che dentro una IA  accade una “magia” (almeno così ce la raccontano) che fa apparire una nuova immagine che prima non esisteva e fa sparire il diritto d’autore, che prima esisteva.

Alla questione (per nulla secondaria) si affianca poi quella della tutela dei professionisti umani. Anche qui, per farla breve, gli assistenti digitali hanno già eroso molti posti di lavoro in tanti campi (quello delle traduzioni dei videogiochi, per esempio, è stato letteralmente rivoluzionato-distrutto dall’impiego di traduttori digitali evoluti) e ora, con l’arrivo delle IA avanzate, anche i campi dell’eccellenza artistica sono (o, quantomeno, si sentono) minacciati.

Secret Invasion: Marvel, perché lo fai?

È ovvio che Moebius sarà sempre quel genio di Moebius e, come tale, irriproducibile, ma è altrettanto ovvio che non tutti gli artisti sono Moebius e si muovono al suo livello. Alcuni artisti che operano nel cinema, nel fumetto, nei videogame, sono “solamente” dei bravi professionisti, pieni di competenze e talenti che però non li rendono fuori dalla portata delle IA (che, oltretutto, saccheggiano il loro lavoro per aggiungere al danno anche la beffa).

Questo significa che le aziende (specie quelle che hanno alti costi di produzione e una scarsa disponibilità di forza lavoro, come quelle giapponesi che operano nel campo dell’animazione) stanno iniziando a provare le IA per sostituire gli impiegati umani. Con quali risultati? Per ora non così straordinari, ma è solo questione di tempo. Ora, in questo scenario particolarmente complicato (e vi giuro che l’ho semplificato parecchio, lasciando anche altre problematiche fuori dal discorso) la Marvel decide di far realizzare i titoli di testa della sua nuova serie televisiva da una IA. Come se non ci fosse alcun dibattito a riguardo e come se una cosa come questa non implicasse delle responsabilità ben precise. E la domanda viene spontanea: perché?

Un’invasione invisibile

Stando ai creatori, la ragione è artistica: Secret Invasion è una serie che parla dell’invasione invisibile degli Skrull, una razza capace di assumere qualsiasi sembianza e di mescolarsi con i terrestri per portare a compimento i loro complotti. Alieni che sembrano esseri umani e che prendono il loro posto. Quindi, l’idea di affidare la creazione dei titoli di testa della serie a una IA che si finge un artista umano e che ne prende il posto, ci potrebbe anche stare in termini di metalinguaggio. Però, a rifletterci sopra, è come se Netflix avesse affidato i titoli di testa della miniserie di Dahmer a Jeffrey Dahmer stesso, lasciandogli ammazzare qualcuno per le riprese, in maniera da rendere ancora più ricco e controverso il discorso metatestuale.

Come dite? Dahmer è morto? Vabbè, non lo avete visto The Flash di Muschietti? Ormai, riportare in vita digitalmente i morti, è una cosa che non solleva più problemi (e anche di questa cosa bisognerebbe parlarne).