Giulia Elettra Gorietti: “Ho scelto di essere libera. Come i miei personaggi”

"La lotta alla misoginia? Dovrebbe partire dagli uomini". Al cinema con Lo sposo indeciso, presto la vedremo in Compulsion di Neil Marshall, primo ruolo da protagonista in un progetto internazionale: l'attrice si racconta a THR

“Ci sono nata con questo spirito di giustizia. Sarà che sono bilancia? Se vedo un’ingiustizia per strada non so stare zitta”. Giulia Elettra Gorietti ha le idee molto chiare. Del tipo di cinema che vuole fare – “Dimenticando l’etichetta che mi sentivo addosso, gli altri hanno iniziato a vedermi per quella che sono veramente” – e del tipo di cittadina che vuole essere – “Lotto contro la violenza sulle donne con tante associazioni, grazie anche a quello che le figure femminili della mia famiglia mi hanno trasmesso”.

Dal 29 giugno è al cinema tra i protagonisti di Lo sposo indeciso, film diretto da Giorgio Amato, presentato in anteprima al Taormina Film Fest, in cui condivide lo schermo con Gian Marco Tognazzi, Ilenia Pastorelli, Ornella Muti, Francesco Pannofino e Claudia Gerini. La storia è quella del professor Gianni Buridano (Tognazzi), filosofo di fama internazionale, e di Samantha (Pastorelli) ragazza delle pulizie che lavora all’università dove Gianni insegna. Nonostante le enormi differenze sociali e culturali i due hanno deciso di sposarsi, inconsapevoli che sul loro amore incombe una terribile maledizione pronta a scatenarsi proprio il giorno delle nozze.

E presto vedremo l’attrice anche nel suo primo ruolo da protagonista in una pellicola internazionale, Compulsion di Neil Marshall e in una commedia italiana, (30 anni) di meno di Mauro Graiani.

Gianni, il personaggio interpretato da Gian Marco Tognazzi in Lo sposo indeciso, in una scena del film dice: “Per la prima volta mi sento libero dalle etichette”. Lei da attrice si è mai sentita vittima di etichette?

Assolutamente sì. Vado molto fiera di tutti i film che ho fatto, ma avevo bisogno di dimostrare altro. C’era il rischio di essere un po’ etichettata, e non riuscivo a venirne fuori. Noi esseri umani non siamo una cosa sola. Per un lungo periodo, ho cercato di abbattere questo muro. Ho iniziato con Manuel di Dario Albertini. È stata la mia prima vittoria. Un film al quale tengo tantissimo, per diverse ragioni. Innanzitutto perché è una storia molto bella, perché Dario è un regista incredibile e mi ha aiutato in questo mio obiettivo. Ho capito che dovevo permettermi di essere più libera io per prima. Dimenticando questa etichetta che mi sentivo addosso, gli altri hanno iniziato a vedermi per quella che sono veramente. Da quel momento sono riuscita a fare personaggi diversissimi. Lo sposo indeciso ne è un esempio.

In cosa consiste questo cambio di passo?

Prima interpretavo personaggi crudi e forti ma c’era sempre questa caratteristica della donna sensuale. Invece, negli ultimi film non ho un compagno e non ho una scena di sesso. Addirittura in una commedia che sto girando ora il mio personaggio è fidanzato con una donna. Sta uscendo fuori anche questa mia parte un po’ maschile che c’è, mi piace e che nessuno vedeva. Quindi è vero: il rischio di restare ingabbiati c’è. Però lo puoi scardinare. All’estero è un po’ più facile, perché ci sono più soldi. Anche solo pensando alle trasformazioni che fanno gli attori a Hollywood. Noi non ce le possiamo permettere. E questo vizia anche il modo di pensare ai personaggi.

In base al rischio di essere etichettata, si è ritrovata a dire molti no?

Sì, mi è capitato. E alcune di queste scelte hanno coinciso anche con la mia maternità e con il Covid. Ho avuto un periodo in cui mi sono dedicata molto di più a me stessa e a mia figlia. Sono contenta perché ora sto vedendo i frutti di questa mia scelta. Il mio sogno era fare un film internazionale. Nell’ultimo anno e mezzo arrivavo sempre seconda per progetti importantissimi e poi sono stata scelta per Compulsion di Neil Marshall.

Com’è andata?

Neil è una persona veramente speciale, sono contenta di averlo incontrato nella mia vita. È un vero professionista con una grande anima. Quello di Compulsion è stato il mio primo ruolo da protagonista girato interamente in inglese. Abbiamo finito di girare un mese fa a Malta. È un thriller, siamo tre donne protagoniste. Io sarò una dark detective.

E ora?

Mi sto preparando per una commedia, (30 anni) di meno, diretta da Mauro Graiani. Nel cast ci sono Nino Frassica, Massimo Ghini, Antonio Catania, Claudio Casisa e Claudio Colica. Mi piace molto questo personaggio che si trova in mezzo a un gruppetto di maschi di cui si sente assolutamente parte integrante. C’è molta libertà. La stessa che dovrebbe esserci di più anche nella nostra società.

È tra le firmatarie di Dissenso Comune, il manifesto firmato da attrici e lavoratrici dello spettacolo per contestare un sistema di potere dove c’è sempre disuguaglianza. Dalla firma qualcosa è cambiato?

Da quando è nato il Me Too ho notato un cambiamento positivo. Ma si può fare sempre meglio, in ogni campo. Penso che tutto il movimento che c’è stato nel mondo in generale abbia scardinato tanti preconcetti. Credo sia cambiato molto, e lo vorrei sempre di più. Non solo nel mondo dello spettacolo dove c’è anche più apertura mentale e la possibilità di esprimere le proprie idee più che in altri lavori. Basta pensare a tanti altri contesti dove è molto più difficile. Mi batto ogni giorno da quando ho 18 anni. Lotto contro la violenza sulle donne con tante associazioni, grazie anche a quello che le figure femminili della mia famiglia mi hanno trasmesso e che spero di trasmettere in maniera accurata a mia figlia.

C’è bisogno di un’educazione comune?

Nella società c’è veramente tanto da fare. Basta pensare a tutti i femminicidi o agli insulti che Michela Murgia si è presa solamente perché parlava dell’importanza del linguaggio. Stimo veramente tanto il grande lavoro che ha fatto e che sta continuando a fare. Recentemente ho letto un articolo molto bello in cui un’attivista maschile contro la violenza sulle donne, Jackson Katz, sottolineava l’importanza che questa lotta parta soprattutto all’interno dei gruppi maschili. Fare leva sulla misoginia, per esempio. Se viene fatta una battuta pesante su una donna a tavola tra uomini, cosa che accade spesso, uno di loro dovrebbe far riflettere gli altri su quel tipo di linguaggio. È una piccola cosa. Ma è dalle piccole cose che si arriva a fare le grandi.

Da dove si potrebbe iniziare?

Dalla scuola. Parlando di parità di genere, dell’accettazione della comunità LGBTQIA+, dell’omosessualità come qualcosa di assolutamente normale. Magari così crescerebbero dei giovani ragazzi molto più sensibili, molto più umani. C’è un femminicidio ogni due settimane. Penso a Giulia Tramontano, alla poliziotta (Pierpaola Romano, ndr) uccisa dal collega (Massimiliano Carpineti, ndr), a una donna a Rimini uccisa dal marito che a sua volta si è tolto la vita lasciando orfano un ragazzo di 16 anni. “Amare da morire” è un luogo comune. Perché da morire? L’amore non è morte.

Ha iniziato a lavorare in questo ambiente da giovanissima. Questo mestiere le ha dato sicuramente molto, ma crede anche che le abbia anche tolto qualcosa?

Sì. E adesso che mi sento donna riesco a realizzare la pressione che avevo e anche il senso, forse a volte troppo alto, di responsabilità. Però lo capisco oggi, all’epoca ero totalmente inconsapevole, non avevo ancora gli strumenti per decifrarlo. Sicuramente ho fatto anche tanti errori, come tante cose positive. E proprio grazie all’inconsapevolezza. Il passato non si può cambiare e comunque sono felice. Sono propensa alla gratitudine. Mi sento fortunata per aver avuto la possibilità di iniziare così giovane e fare così tanti film e lavorare con dei professionisti così capaci.

Lei nasce come ginnasta. Tempo fa ha raccontato la sua esperienza ricollegandosi alle accuse mosse da alcune atlete nei confronti dei loro allenatori. Cosa l’ha spinta a farlo?

Nonostante abbia parlato della mia esperienza, quando è uscito tutto ho preferito stare in silenzio. Era qualcosa che accadeva oggi e pensavo che il mio contributo, visto che ormai erano passati veramente troppi anni, non fosse importante. Ho avuto un rifiuto. Poi, un giorno, mentre ero in treno mi è capitato di leggere l’intervista di queste due atlete (Nina Corradini e Anna Basta, ndr) e ho sentito una grande rabbia dentro di me. Ho pensato a come potessi trasformarla in qualcosa di utile. Ho sentito il dovere di raccontarlo anche per dare loro credibilità. Poi hanno parlato anche Jury Chechi, che ha smesso tanti anni prima di me, Carlotta Ferlito e altri. Se si aggiungono tante altre persone, magari si porta l’opinione pubblica a riflettere sul fatto che quelle ragazze non si sono inventate tutto.

Sentiva di doverle di “proteggere”?

Avevo il dovere di dare un piccolo contributo perché lo sentivo col cuore, visto che in passato ho sofferto tanto per questo e l’ho superato con la terapia. È stata una grande macchia dentro di me. Probabilmente avrei avuto un’infanzia molto più serena. Ma anche una giovinezza diversa se ci avessi lavorato molto prima o, addirittura, se non l’avessi proprio vissuta. Spesso le allenatrici diventano quasi delle mamme, soprattutto per le ragazze che vengono da altre città. Così piccole, si sentono sole e le prendono come riferimento. Anche se non tutte sono così. Ce ne sono anche di bravissime. Io, per esempio, oltre all’esperienza negativa che ho vissuto, ho conosciuto un’allenatrice che era una delle persone più sane mai incontrate nel mondo dello sport. Non bisogna mai generalizzare.

Da qualche settimana è disponibile su Netflix Tre metri sopra il cielo. A distanza di tanti anni, crede che quel film sia stato il precursore di tanti racconti teen?

Assolutamente. Quella raccontata nel film era un’altra generazione, erano altri tempi e venivano raccontati in un altro linguaggio. Oggi bisogna adattarsi ad uno nuovo che spero possa racchiudere sempre più degli esempi positivi. Prima non si parlava di tante tematiche che fortunatamente oggi affrontiamo. Però sì, è stato un inizio. Avevo un personaggio molto libero all’epoca che non vedeva il sesso come qualcosa di assurdo. Era molto libera.

Come la viveva?

Non ci vedevo niente di strano, a dir la verità. Vengo da una famiglia molto matriarcale. Racconto sempre questa cosa perché ne vado fiera: la mia bisnonna era totalmente libera, ha avuto tre compagni. Si contrapponeva a convinzioni che all’epoca erano molto difficili da abbattere, basti pensare che il delitto d’onore è stato tolto relativamente pochi anni fa. Però, nonostante Tre metri sopra il cielo sia girato tanti anni dopo le relazioni della mia bisnonna, a causa di quel personaggio tra i ragazzi spesso venivo etichettata come una poco di buono.

Ai tempi a Roma lo videro tutti, ma all’epoca ha avvertito anche un certo snobismo verso il film?

Sì. Ma sinceramente non l’ho mai sofferto perché ritenevo che fosse un buon progetto. Ho dei bei ricordi e sento ancora tanto l’affetto da parte del pubblico. Faccio l’attrice perché amo recitare, raccontare e smuovere delle cose tramite i ruoli che interpreto. Lo faccio anche perché, come tutti gli artisti, ho bisogno di affetto e di approvazione. Quindi mi rende felice sapere che le persone ancora oggi mi scrivono e sono così tanto in empatia con me grazie a quel ruolo. Avevo 15 anni. E un’attrice così piccola non è che faccia tutto questo lavoro sul personaggio, mette anche molto di se stessa. Il fatto che io avessi tirato fuori tutta questa libertà e spensieratezza in quel modo così ironico, oggi, da madre, mi fa sorridere. È una parte autentica di me.