Gianluca Manzetti: “Io, Roma Blues, la mia vecchia band, i capelli alla Grease e il grande Lebowski”

Il regista e sceneggiatore ha preso spunto dal frontman della suo gruppo rock per un personaggio sopra le righe interpretato da Francesco Gheghi. Un viaggio - fuori concorso al festival di Torino - in una capitale sporca, brutta e cattiva. Anche tenera a suo modo. Sicuramente noir. L'intervista con THR Roma

Per Roma Blues – fuori concorso al Torino Film festival 2023 – serviva una capitale sporca. “Oddio, chissà quanta sporcizia dovrò portami dietro”, ma alla domanda del reparto scenografie ci ha pensato a rispondere direttamente la città eterna. Cassonetti straboccanti, immondizia riversata per le strade. Foglie, foglie ovunque. E un lezzo che il pubblico non può odorare, ma che si percepisce benissimo oltre lo schermo. Anche i suoni, a modo loro, sono quasi tutti “autentici”. Sirene della polizia, dei carabinieri, delle ambulanze. Una Roma chiassosa, che il suo blues lo crea spesso con i rumori assordanti che trova nei quartieri. Una città in cui i cantieri possono diventare lo sfondo di baci e inseguimenti; impalcature vere anche quelle, mica ricostruzioni.

In questa capitale calda dei locali notturni e i sogni irraggiungibili, Al (Francesco Gheghi) si sposta con la sua decappottabile, col capello gelatinato e la canzone sempre adatta da mettere alla radio. A mancargli è giusto una band – dopo che tutti l’hanno mollato -, un’etichetta musicale e un lavoro che lo soddisfi. Sarà forse per questo che si metterà sulle tracce di un delitto di cui non ha abbastanza prove. Strano e dinoccolato, Al arriva dal passato rockettaro del suo regista e sceneggiatore, Gianluca Manzetti, ispirato al frontman del gruppo in cui suonava da ragazzo: “Ma lui non lo sa ancora. Non ci parliamo da anni. Forse dovrei chiamarlo”.

Quindi ancora non lo sa?

No, ma è talmente narcisista che gli farà solo che piacere quando glielo dirò.

E com’era questo suo amico?

Aveva davvero gli stivali da cowboy, una decappottabile, la camicia hawaiana e i capelli alla Grease. Si era costruito una vita a misura degli anni cinquanta. Poi qualcosa di diverso da Al ce l’ha, ovviamente. Il mio protagonista è più tenero, lui era un vero e proprio Fonzie.

Un lato più vicino al suo?

Ho comunque scritto Roma Blues a venticinque anni. Sicuramente c’è quel tipo di giovinezza nella pellicola. Anche io ho fatto parte di una band, sono un musicista autodidatta, ed ero il batterista che non si presentava mai alle prove. Però mi divertivo molto, pensavo anche ai videoclip, alla regia, ai costumi, alle scenografie. Alcuni sembrano i corti in super 8 di J.J. Abrams. Ovviamente in una versione agghiacciante.

Forse dovrebbe davvero chiamarlo.

Forse sì. Aveva anche un cugino di nome Bonzo, come nel film. Oddio, forse devo proprio. Tra l’altro era anche un mega cinefilo, oltre ad avere una vastissima cultura musicale. Lui stesso mi ha iniziato al noir e al neo-noir. Un genere che, su di me, ha lo stesso effetto degli horror: mi fanno distrarre. Mi danno una boccata di spensieratezza. Quasi mi fanno sognare.

Cosa pensa l’abbia spinto a prendere una persona reale e trasformarla nel suo protagonista?

Mi piace osservare gli altri. A parte il fatto che ho difficoltà a parlare di me, trovo ci siano talmente tanti personaggi intorno a noi di cui poter raccontare che concentrarsi su se stessi è una sorta di masturbazione. Poi ovvio, ho detto che Roma Blues ha molte caratteristiche che mi appartengono, ma il cuore sono due personaggi che sono il mio opposto. Al è il frontman della band in cui suonavo. Betty un insieme di tutte le ragazze che ho avuto in questi trentatré anni. Ma in loro c’è un impulso istintivo e incosciente che invidio. Sono due ragazzi liberi. Io sono organizzato in tutto. Loro sono quel tipo di persona che se dici di vedervi alle cinque del pomeriggio ti dicono subito: certo, andiamo! Se penso che ormai sono arrivato a calendarizzare anche quando devo fare la doccia…

I riferimenti cinematografici, invece, sono suoi o del suo amico? Noir e neo-noir a parte.

Credo che il primissimo ricordo cinematografico che ho è Toy Story. E sai che, probabilmente, è il più grande riferimento di Roma Blues? Francesco (Gheghi, ndr) mi ha anche detto che per Al si è ispirato a Woody e a un pollo. Che un pollo, tra l’altro, lo abbiamo avuto davvero sul set. Abbiamo girato la scena iniziale a Spinaceto, lì vicino dei miei amici hanno un allevamento di animali, tra cui polli. Gli ho chiesto se potevano aprire le gabbie e un cappone è venuto a rubarsi la scena. A proposito di citazioni, hai presente la scena dell’allenamento in cui Rocky cerca di afferrare i polli? Ecco, eravamo noi mentre cercavamo di rimetterli al loro posto.

Una scena di Roma Blues

Una scena di Roma Blues

E di film proiettati su un telo in mezzo al deserto ce ne sono stati? Come quando Al cerca di fare colpo su Betty.

In realtà no. Mi sarebbe piaciuto, ma tutto ciò che sono riuscito a fare è stato a casa mia, con un proiettore scassato rivolto verso il muro durante la quarantena. Ma, essendo difettoso, il tutto è durato cinque minuti. Tra l’altro è lo stesso proiettore che ho portato sul set.

Lo ha portato anche se scassato?

Sì, è un regalo di mia madre. Ci tengo a quel mio oggetto difettoso. Un’altra parte della mia vita nel film è il legame viscerale tra Al e la madre.

Andavate insieme al cinema?

È buffo, perché la verità è che è stata la migliore amica di mia madre a portarmi per la prima volta al cinema. I miei sono imprenditori, persone bellissime, ma borghesoni dell’Eur, stavano spesso in giro. Siamo andati a vedere Starship Troopers – Fanteria dello spazio di Paul Verhoeven. Era il 1997. Eravamo al cinema Ambassade di Montagnola, adesso chiuso. Ricordo che mi dustrusse. Un body horror con dei passaggi delicati per un bambino di sette anni.

Tutto normale per l’amica di sua madre?

Ho sentito un sacco di genitori che fanno vedere la qualunque ai loro figli. E poi lei era così, una sciroccata. Dopo l’uscita de Il grande Lebowski ha cominciato a portare le scarpette da scoglio fino a novembre perché viveva nel mito del Drugo. Credo che questo mi rendesse un po’ il suo Steve Buscemi.

Potrebbe essere la protagonista del suo prossimo film.

Potrebbe, ma sarebbe un po’ delicato. Però non lo escludo.

Ha anche un aneddoto divertente su Mino Caprio, nel cast della sua opera prima.

Sì, è una storia assurda, mi diverte tantissimo. Roma Blues ha al suo interno un film attorno a cui ruota il racconto. La pellicola è Detour – Deviazione per l’inferno di Edgar G. Ulmer del 1945. Mino Caprio è un noto doppiatore italiano. Un giorno stavamo cercando le scene adatte del noir da estrapolare e inserire in Roma Blues. Mino era nell’altra stanza a fare la prova parrucche. A un certo punto, mentre il protagonista parla, sentiamo dall’altra stanza: ma quello sono io! Era Mino che aveva doppiato l’interprete americano. Ma quante possibilità potevano esserci?

Come ha lavorato con i suoi protagonisti, Francesco Gheghi e Mikaela Neaze Silva?

Mi sentivo quasi in imbarazzo a lavorare con Francesco. È di una maturità che non ti aspetti da un ventenne, fuori e dentro il set. Ci siamo capiti dall’inizio, parlando da subito senza filtri e trovando insieme i tic e la camminata di Al. Abbiamo camminato ore e ore sul mio terrazzo per trovargli la falcata giusta. Per Betty è stato più difficile, proprio perché non riuscivamo a trovare l’attrice. Avevamo visionato all’incirca duecento selftape eppure non riuscivo a vedermela davanti. Un giorno, poi, ho avuto un flash: la mia casting director mi aveva inviato il reel di Mikaela, allora le ho chiesto come mai non avessi ancora visto il provino. “Te l’ho mandato un mese fa!”. Ci credi che era l’unico che non avevo visto? L’unico. E pensare che sono nevrotico quando si tratta di organizzare il lavoro. E così, abbiamo trovato Betty, anche se ci abbiamo lavorato molto insieme. Mikaela ha cominciato facendo la velina in Striscia la notizia, si è fatta affiancare da un coach e abbiamo cercato l’anima selvaggia del personaggio.

Ma alla fine, questa musica in Roma Blues, com’è?

È rock grezzo. Una via di mezzo: troppo blues sarebbe stato ridondante, troppo poco sarebbe stato scarno. E c’è un tema principale, mi piacciono i motivetti che accompagnano le emozioni e i momenti alla John Williams. C’è un alternarsi di nostalgico e grottesco, anche a richiamare Detour. Oggi, purtroppo, ascolto molto poco blues e rock. Mi sono dato all’elettronica. Ma non smetto di ammirare Gene Vincent, Robert Johnson o Elvis.

Ha già in cantiere un prossimo progetto?

Sì, un film su commissione, volevo cimentarmi in qualcosa di inedito. I tempi sono strettissimi, dovevamo girare a ottobre e abbiamo dovuto slittare, ma siamo quasi in dirittura d’arrivo. La storia è scritta da Vincenzo Alfieri e, tra i produttori, c’è Roberto Proia.