Marco Risi, il grande freddo (e il caldo) tra le generazioni: “Questo film l’ho fatto per mio padre Dino”

Il regista ha presentato al TFF Il punto di rugiada, in cui racconta l'incontro tra due giovani e un gruppo di anziani. "Ha a che fare con po' con lui. Non è soltanto il voler raccontare una storia di vecchi ma di quella generazione lì". E di Fortapàsc ricorda: "La morte di Giancarlo Siani me la sono portata dentro. Ma non ho voluto farne un santino". L'intervista con THR Roma

“Questa canzone mi emoziona. È proprio della mia epoca. Avevo 15 anni quando ascoltavo questa roba qui”. Marco Risi si scusa e, per qualche secondo, smette di parlare. Elegantissimo nel suo spezzato socchiude gli occhi e pronuncia a bassa voce un “darling” seguendo i versi una canzone che passa in sottofondo in un ristorante che si affaccia davanti alla Mole di Torino. Ad un tavolo da sparecchiare, tra bicchieri di vino lasciati a metà e una melagrana, il regista racconta a THR Roma il suo ultimo film, Il punto di rugiada, presentato al Torino Film Festival in cui la musica – da Little Tony a Bruno Martino – ha un ruolo importante. “E la chiamano estate era proprio una canzone di mio padre”, confida il regista. “Me lo immagino che ballava nei night club, cheek to cheek”.

Una produzione Fandango e Rai Cinema che parte da molto lontano e che lo lega proprio al padre Dino. La storia di Carlo (Alessandro Fella), un ragazzo viziato e sregolato, che una notte provoca da ubriaco un grave incidente d’auto per il quale viene condannato a scontare un anno di lavori socialmente utili in una casa di riposo. Insieme a lui a Villa Bianca arriva anche Manuel (Roberto Gudese), un giovane spacciatore colto in flagrante. L’incontro con gli ospiti della struttura cambierà per sempre il loro sguardo sul mondo e sulla vita.

Marco Risi

Marco Risi

Come li ha messi insieme questi due mondi apparentemente agli antipodi?

Il titolo del film fa riferimento all’incontro fra due temperature che possono dar luogo a una nevicata. Il caldo da una parte e il freddo dall’altra. Ma non è detto che il caldo sia per forza rappresentato dai giovani. Anzi, ci sono giovani che sono molto più freddi dei vecchi. Bastava avvicinarli. Ero sicuro che nel momento in cui metti un ragazzo di 25/30 anni vicino a gente che ne ha 80 sarebbe stato bello vederli insieme. È stata questa la cosa che mi ha spinto. Ho girato intorno a questo film per una decina d’anni. Alla fine sono riuscito a trovare la quadra con la sceneggiatura giusta e mi piaceva proprio quest’idea di mettere a confronto due generazioni così lontane che si guardano con grande sospetto. Come succede anche a me adesso nella vita.

In che modo?

Vedo i giovani che non mi guardano più. Le giovani ancor di più. E mi piaceva vederli insieme. Capire che da questo incontro può nascere qualche cosa che ha a che fare con una parola che si usa sempre di meno: rispetto. Quello degli uni verso gli altri. Non soltanto dei giovani verso i vecchi ma anche dei vecchi verso i giovani. Quando si accorgono che c’è sentimento, che c’è materia, che non c’è soltanto WhatsApp. Nel film i telefonini non ci sono. I due protagonisti la mattina li devono lasciare. Li riprendono la sera e quando li accendono sono sempre fonte di problemi. A villa Bianca, invece, vediamo delle persone che interagiscono, che comunicano, che vogliono aprirsi.

Suo padre avrebbe voluto realizzare un film sulla terza età partendo da La morte di Ivan Il’ič di Tolstoj. Ha fatto questo film anche per lui?

Sì, ha a che fare un po’ con lui. A parte tutte le cose che ci sono nel film, che gli appartengono. Anche l’aver scritto un libro sul nostro rapporto (Forte respiro rapido, Mondadori, ndr) centra con con il film. Non è soltanto il voler raccontare una storia di vecchi ma di quella generazione lì. I personaggi adulti hanno tutti nomi che possono fare riferimento a grandi registi. Dino, Federico, Mario, Pietro.

Una scena de Il punto di rugiada di Marco Risi. Foto di Christian Nosel

Una scena de Il punto di rugiada di Marco Risi. Foto di Christian Nosel

Quella stagione cinematografica è ancora attuale?

Ci sono dei film di quell’epoca lì che non invecchiano. Me ne viene in mente uno su tutti di mio padre che è considerato il suo masterpiece: Il sorpasso. Un film che piace veramente a tutti. Fotografa perfettamente – pur raccontando solo due giorni – la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra con la morte, coraggiosa, dell’eroe positivo. Martin Scorsese ha detto: non si era mai vista una cosa così in un film. È come se con la morte del personaggio di Jean-Louis Trintignant finisse l’età dell’innocenza e cominciasse l’età del sopruso, della sopraffazione, della furbizia. Vittorio Gassman, infatti, dieci anni dopo fa In nome del popolo italiano, sempre con mio padre, dove interpreta un grande affarista truffatore. Un mascalzone.

Alla fine del film inserisce un riferimento al Covid. Ma lo fa con una nota spiritosa. Perché?

Perché il tono del film è quello. Il racconto può essere anche doloroso, ma mai triste.

Racconta che il primo seme del film nasce durante un incontro per Fortapàsc. Un film che continua ad essere molto amato. Secondo lei perché?

Mio figlio Tano mi dice: “Mary per sempre è il tuo film più conosciuto. L’ultimo Capodanno il tuo cult. Fortapàsc, il tuo più bello”. Ci sono dei film che contengono in sé una grazia dal momento in cui si scrivono al momento in cui si finiscono per tutta una serie di coincidenze fortuite, di stelle che si allineano nel modo giusto. E Fortapàsc è uno di quelli. Mi è capitato di rivederlo in occasione, purtroppo, della morte di Andrea Purgatori. Ho pensato che fosse davvero un buon film.

Sentiva la responsabilità di quel racconto?

L’avvicinamento a quel film è stato molto delicato. Raccontare una storia che ha a che fare con un personaggio esistito, con il fratello Paolo che mi metteva sulle ginocchia le camicie di Giancarlo, aver conosciuto tutti quelli che avevano avuto a che fare con lui e che pretendevano, giustamente, che si facesse un film onesto. Ancora mi ricordo quando eravamo sul set e continuavamo a rimandare la scena della morte. Si è avvicinato un uomo in motocicletta che passava di lì e ha visto la macchina di Giancarlo. Perché quella che abbiamo usato per le riprese era la sua vera Mehari.

C’erano tutti gli ingredienti per fare un film che poteva essere bello ma anche sbagliato, perché bisognava tener conto di tante cose. Andava a finire che dovevo decidere io com’era lui veramente e non tutti gli altri. Neanche il fratello che mi parlava del suo carattere. Io non lo volevo neanche sapere fino in fondo. C’era chi mi diceva che era in un modo e chi in un altro. Alla fine ti devi formare la tua idea.

Perché ha voluto raccontare quella storia?

Quando ho visto la fotografia sul giornale di Giancarlo morto con indosso una maglietta bianca e il volto inclinato in quella macchina così facile da colpire, così esposta, mi sono veramente commosso. È stato l’unico giornalista ucciso dalla camorra, mentre la mafia ne ha fatti fuori parecchi. E questa cosa si vede che me la sono portata dentro. Questo sentimento di raccontarlo senza farne un santino. Perché l’importante in un film è trovare il sentimento giusto.

Libero De Rienzo sulla Mehari di Giancarlo Siani. Foto di Fabrizio Di Giulio

Libero De Rienzo sulla Mehari di Giancarlo Siani. Foto di Fabrizio Di Giulio

Giancarlo Siani era un “giornalista giornalista”. Crede in Italia oggi ce ne siano altri?

Ce ne sono che rischiano la pelle. Penso a Lirio Abbate. Se ne parla di meno. Giancarlo lo è diventato perché l’abbiamo detto noi. Il film ha aiutato in questo senso tante altre cose che sono successe dopo. Sicuramente era uno che andava in giro. Era uno di quei giornalisti che si consumavano le suole delle scarpe. Un grande ringraziamento lo devo ad Andrea Purgatori, perché tante cose belle di quel film sono anche merito suo. Quel “giornalista giornalista” è suo.

Le manca Libero De Rienzo?

L’ho sentito fino a poco tempo prima della sua morte. Ogni tanto mi chiamava, anche se spariva per lunghi periodi. Non si sapeva neanche dove fosse finito. C’era un film che voleva fare, me l’aveva fatto leggere. A un certo punto abbiamo pensato anche di farlo, ma era giusto lo facesse lui. Mi manca. Mi manca tantissimo. E manca anche al cinema perché era un bravo attore. Anche se era l’ultima cosa che voleva fare. Gli piaceva molto di più occuparsi della fotografia, della macchina da presa, della regia. Quello dell’attore lo considerava un lavoro di ripiego che gli serviva per campare. Lo faceva bene quando entrava veramente nel personaggio. Quando ha fatto Fortapàsc me ne sono accorto piano piano, un po’ alla volta. È stata una responsabilità enorme anche per lui. Se la sentiva addosso questa cosa.

Non ha finito di raccontare cosa fece quell’uomo in motocicletta.

Ha riconosciuto la targa e gli è venuto un colpo. Si è fermato e ha chiesto a uno dei macchinisti che cosa stessimo facendo con la Mehari di Giancarlo. Gli rispose che stavamo girando un film su di lui. “Allora dì al regista che lo deve fare molto bene, perché Giancarlo aveva un cuore grande così”.