In occasione dell’uscita nei cinema di The Penitent, ripubblichiamo l’intervista a Luca Barbareschi dello scorso 5 settembre.
“Alla fine nei miei film, nei nostri film, entrano dentro le nostre ossessioni, ciò di cui parliamo spesso: la filosofia, la religione, l’ermeneutica. Va sempre così con David e Roman”. Che poi sarebbero Mamet e Polanski. Sereno e sorridente, nonostante le contestazioni sul red carpet abbiano colpito anche lui, Luca Barbareschi era passato alla Mostra di Venezia come produttore di The Palace e regista di The Penitent, opera particolare, di ispirazione teatrale – una serie di dialoghi a due sui massimi sistemi che partono dal caso di uno psichiatra (interpretato dal regista) di un ragazzo che ha fatto una strage al college (interpretato da Fabrizio Ciavoni, già visto in un bel ruolo in Giulia ha un futuro come villain) – che pone interrogativi inquietanti su ciò che riteniamo assoluto, insindacabile, dalla legge a Dio. E di quanto, noi stessi, assurgiamo a dei nella volontà di dominarle, determinarle, interpretarle.
Carlos Hirsch è un uomo le cui certezze vengono demolite da un evento straordinario e devastante per lui, le vittime della strage, la società. Ha sempre creduto profondamente in sé, nel suo lavoro, persino nella sua limitatezza di essere umano. Era un uomo agiato, intellettuale, forse pure disincantato. Ma un suo paziente ammazza otto ragazzi e ne ferisce due. Dice di essere stato ispirato da lui, la legge vuole i suoi appunti, i giornali un capro espiatorio, la moglie di essere liberata dall’onta sociale. Lui ha solo Dio e un rabbino e la sua deontologia a proteggerlo. In tutti e tre sembra avere una fede granitica, ma con un processo squisitamente ebraico di (auto)maieutica e confronto e messa in discussione costante, vediamo demolire altre certezze. Le sue in primis, ma mentre guardiamo, anche le nostre. The Penitent è una seduta di psichiatria al mondo come lo conosciamo oggi. Ma anche a chi, in cerca di fedi illuministiche o irrazionali, non lo riesce più a capire.
Se uno legge la sinossi di The Penitent, pensa a un’opera ideologica, polemica. Poi si trova all’interno di un film pieno di dubbi, massimi sistemi e anche con un’inquietudine che aumenta invece di diminuire. Pieno di domande e senza risposte.
E’ un qualcosa di molto ebraico, estremamente legato a me, non a caso Carlos è ebreo. L’inquietudine è presente all’infinito per noi. Gli studi che fa questo psichiatra sui libri sacri sono anche i miei. Ho il dovuto rispetto per David Mamet, che è uno dei più grandi scrittori del mondo, ma posso dire di essere molto amico suo da più di 40 anni e di averlo messo in scena, per la prima volta, 30 anni fa. La mia crescita spirituale, artistica, produttiva ed estetica è stata fatta grazie a lui, grazie al gruppo dell’Actor’s Studio: Lee Strasberg, Cheryl Crawford, Nicholas Ray e grazie a Roman Polanski, con cui mi sono divertito tanti anni. È una legacy curiosa che ci ha portato mano nella mano in tante avventure e anche nella condivisione di tanti macrotemi sociali, politici, economici, culturali. Questo per dire che al di là della sceneggiatura di David, meravigliosa, già alla base di un lavoro teatrale, c’è un percorso preciso che mi coinvolge su tutto ciò di cui parliamo. Io e Mamet abbiamo lavorato insieme a Oleanna già 30 anni fa. Sai da cosa partiva quella pièce? Da una macchina del fango azionata per una denuncia di “stupro verbale”. Ricordo che allora ne parlammo dicendoci che se una cosa del genere fosse passata, sarebbe finito tutto. Era il primo seme della political correctness che ha germogliato oltre ogni immaginazione. E così il mondo si è inabissato nell’imbecillità.
“Il politicamente corretto, il cancro al cervello della società occidentale”. Così lo definisce Carlos in un dialogo con il suo avvocato…
Questa battuta è mia, l’ho scritta io, ma Mamet l’ha approvata. Era inevitabile che succedesse, il pensiero spinoziano, razionale, se vuoi anche esageratamente secolare, da Lutero a Vico, a cosa ha portato? Alla rovina. Tu ci puoi fare una filastrocca con gli intellettuali “austroungarici” dei tempi andati, Stefan Zweig, Robert Musil, Thomas Mann, Franz Kafka, Wolfgang Amadeus Mozart, Ludwig Van Beethoven. E nonostante quelle menti, quell’arte, c’è stato l’Anschluss, l’Austria Felix che si è gettata tra le braccia di Adolf Hitler con il 95% dei consensi. Questa si chiama l’hybris della secolarizzazione. L’unica cosa che invece ha tenuto in piedi l’Europa è stata l’aspirazionalità, la tradizione giudaico-cristiana, che i cinesi studiano da 5.000 anni e non capiscono, l’aver avuto un Rinascimento e loro no, l’essere più creativi di loro nasce da là. Lo sanno, ma non lo capiscono. Con Mamet molte delle nostre discussioni sono a volte di religione, a volte di filosofia, a volte di ermeneutica pura, io non penso che gli ebrei siano più intelligenti, io penso solo che noi siamo più allenati. Abbiamo dei chiari esempi di ebrei stupidi, è stato sulla cronaca dei giornali, penso a chi, della famiglia Agnelli, ha scritto di un gruppo di ragazzi su un treno, ma la vera forza nostra è l’elaborazione del pensiero. Noi siamo figli di una cultura del dubbio che a una domanda intelligente risponde sempre con un’altra domanda per evitare che la stupidità o la semplificazione della tua risposta offenda l’intelligenza tua e di tutti. In questo film abbiamo applicato questo in questo caso ci sono tre temi, la giustizia che ha pezzi in tutto il mondo, il ruolo della comunicazione, la religione.
Il suo film si apre con il suo personaggio contestato dalla comunità LGBTQIA+ sotto il suo ufficio, sotto casa. Ieri, il suo red carpet, ha avuto come contorcano una manifestazione femminista. Profetico?
Ho solo cercato di essere lucido su ciò che sta accadendo, sul delirio di questi anni fatto da woke culture, cancel culture, me too. Che poi io non sono contro il Me too, mi piacerebbe solo che invece di essere fatto da attricette paracule, fosse messo in atto e soprattutto ascoltato e sostenuto quello delle cassiere o delle magazziniere o delle infermiere del turno di notte, di chi ha due figli e 1100 euro di stipendio e viene molestata quotidianamente dal capo che approfitta del suo essere ostaggio di quella miseria. Poi sì, con David abbiamo sorriso quando è uscita la storia di Romeo e Giulietta bannato dalle scuole perché lei ha 14 anni. Io la battuta nel film l’ho messa come provocazione estrema. E invece è successo.
Lei ci sguazza nelle polemiche, ma ieri a parlare con le manifestanti non ci è andato…
Perché ormai non esiste più l’ascolto. Io ai tempi di Costanzo facevo l’uno contro tutti, non sai quante volte sono sceso dall’auto e ho parlato con i miei detrattori, ma ora non vengono a protestare per confrontarsi, ma per annientarti. Allora preferisco rispondere con un film denso, difficile, tratto peraltro anche da una storia vera. Parlo del caso Tarasov, la moglie si è suicidata, purtroppo. Io dedico il film a Jordan Peterson e a Jonathan Sachs, il primo perché sta vedendo la sua abilitazione e reputazione compromessa solo per essersi rifiutato di dire che esisteva, scientificamente, un altro sesso. Io posso mettermi i tacchi, ne ho tutto il diritto, anche tu. Staremmo anche bene, ma rimaniamo, scientificamente, uomini con i tacchi. Jonathan Sachs è stato il caporabbino a Londra: io gli devo la vita come impostazione mentale, ma anche lui sta pagando l’andare contro il non pensiero dominante. Se passi dal pensiero spinoziano analitico al pensiero magico, lì si sgancia la razionalità, credi alle favole, vivi in una civiltà di dementi.
Lei sembra dare molta della colpa ai giornalisti di questa rovina morale.
Se lupo67 vale Ostellino, è finito tutto. Ma se i giornalisti, che dovrebbero essere i sacerdoti dell’informazione, bestemmiano, perde legittimità. E asservirsi, non riportare le notizie in modo esatto, prendere un’intervista e aggiungere parole mai detto sono bestemmie. Amo il giornalista che mi mette in difficoltà, mi provoca, mi contesta. Non quello che inventa, ha pregiudizi, ti fa male per un lettore in più. The content is the king, che sia giornalistico o di un medicinale, poco importa. Altrimenti è solo Oriazi e Curiazi.
Come in Rai. Dove però tornerà.
Sì, ma la cosa bella è che Barbareschi riesce sempre a essere fuori dal coro. Oriazi e Curiazi, quando comanda uno di loro, hanno contratti e potere, a me hanno annunciato la seconda stagione di una trasmissione (in barba a tutto, ndr) che mi era stata data sotto il centrosinistra. Ma so solo questo, non c’è qualcosa di scritto, a ora, che lo confermi. Io non ho nessun vantaggio da questo governo perché sono scomodo per tutti: si ricordi sempre che nel mio Eliseo hanno lavorato tutti. TUTTI. Eppure credo di avere esperienza e talento per ricoprire posizioni importanti.
Tipo il presidente della Rai, magari?
Figurarsi, ci vogliono troppi compromessi per arrivare a gestire quel baraccone. Io sono un imprenditore. Ma mi piacerebbe, come premio alla mia carriera e opportunità per tutti, avere l’onore di guidare una grande istituzione pubblica culturale. Credo potrei fare bene, forse per questo non lo faranno mai.
Sta pensando alla Biennale o alla direzione del Festival di Venezia?
Una che abbia importanza e influenza per la crescita del nostro paese. Perché non una di queste due? Senza conflitti di interesse, ovviamente. Sai perché non succederà mai? Perché sono troppo indipendente, non sarei controllabile. Ma sai quante cose meravigliose potrei fare. In fondo a che serve uno con decenni di esperienza internazionale che parla cinque lingue e ha avuto successo in produzioni teatrali, cinematografiche e nella gestione culturale? Non è quello che si cerca, non in Italia. E da vecchio socialista craxiano lasciamelo dire, a me questa destra e questa sinistra fanno sorridere. Soprattutto la seconda, che ancora si autodefinisce tale. In cosa lo è?
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