Due cose inaspettate sono accadute ieri mentre Mathieu Kassovitz (ri)presentava dopo quasi trent’anni il suo secondo film da regista, L’odio, che tornerà in versione restaurata 4K con Minerva Pictures, Rarovideo Channel e Cat People Distribuzione dal 13 maggio, facendo una capatina prima al Cinema Troisi, con due incontri del regista insieme al pubblico.
La prima è che, sembrerebbe, l’autore francese non si è mai ispirato a Il cacciatore per la famosa scena della roulette russa. Non immediata come l’iconico momento del film di Michael Cimino, ma la rivelazione potrebbe smontare anni di critica e analisi del cinema, facendo temere che anche con Taxi driver potremmo esserci presi un abbaglio – il condizionale è d’obbligo, comunque, con Mathieu: oggi potrebbe non essere una citazione all’opera del 1978, domani chissà. E no, su Martin Scorsese possiamo restarne certi, aggiungendoci anche un po’ di Orson Welles tra le ispirazioni. Su tutte, però, Soy Cuba di Michail Kalatozov del 1964.
La seconda è che il Q&A previsto post-visione del film – la prima, visto che la monosala trasteverina ha proposto due proiezioni, una con dibattito e una successiva con presentazione – si è trasformato improvvisamente in una lezione sull’arte e l’immagine.
Pronto a tornare alla regia dopo tredici anni, superato anche un grave incidente su un circuito motociclistico che lo ha sbattuto fuori dalla pista lo scorso anno, Kassovitz dirigerà un’opera animata tratta dalla graphic novel La Bête est morte, che per l’occasione prenderà il titolo di The Big War, cercando nella novità digitale e nell’evoluzione tecnologica un inedito stimolo per le creazioni del domani.
Anche perché, per Kassovitz, siamo ormai finiti come fonte (in)finita di inventiva. E allora ben venga il progresso. E ben vengano, perché no, le IA. Nel riconoscere la programmaticità dei sistemi di duplicazione, degli algoritmi che offrono tutti la stessa cornice cambiando giusto (non sempre) il proprio contenuto, il regista e sceneggiatore di Meticcio riconosce l’infinità di prodotti che si ripetono e susseguono uno dopo l’altro, a cui è francamente impossibile stare dietro (“Quando ero giovane io uscivano tre film a settimana. Oggi è assurdo pensare di poter vedere tutto”).
AI sì o AI no?
Davvero troppi, davvero uguali, ma prodotti che siamo stati comunque noi a generare. A dare l’input a una molteplicità che nemmeno Walter Benjamin poteva immaginare. Ma è inutile rifuggire dall’avanzamento che si sta – e a cui stiamo – spianando il cammino. A questo punto è meglio abbracciarlo, anche se ci fa paura, ribrezzo, curiosità, meraviglia. Sentendolo parlare fa venire in mente Holy Motors di Leos Carax. “E quindi, IA, sì”.
“Sono convinto che l’intelligenza artificiale riuscirà a superare la nostra creatività”, continua Kassovitz. È forse per questo che l’autore, per cui “da anni ho l’impressione che abbiamo sostituito la nozione di vero/falso con un confine indefinibile tra ciò che percepiamo come reale e ciò che percepiamo come finzione”, darà nuova carne e nuovo sangue a L’odio.
Pronto per una versione teatrale, il film che lanciò la carriera di Vincent Cassel sarà un’esplosione di musica tra rap, hip hop e una commistione entusiasmante di generi, che Mathieu Kassovitz porterà sul palcoscenico curandone la regia e affidandosi ad artisti di talento per la colonna sonora.
Un tornare alle origini per, però, stravolgerle. Anche perché oggi un nuovo L’odio non si potrebbe fare. O sarebbe meglio chiedersi: sarebbe possibile farlo? “Non lo so”, confessa Mathieu. L’opera del ’95 era un ritratto vitale e giovanile di una generazione i cui disagi risuonano ancora. Ma non potrebbe certo essere lui a ri-girarlo. Toccherebbe a chi questo mondo deve cominciare a prenderlo tra le mani.
L’odio di Mathieu Kassovitz: il cinema di denuncia, oggi, è possibile?
Che questo non passi come un invito a fare un cinema di denuncia (“Non ve lo auguro. Anzi, se volete farlo: grazie mille”), bensì l’unico incentivo è di sentirsi liberi di poter scegliere per sé la propria strada. Quella che a metà anni novanta era molto chiara per Kassovitz, che sapeva benissimo di poter sconquassare un palazzo dell’istituzione cinematografica come il festival di Cannes, dove il film venne presentato.
Sicuri del proprio operato, convinti di aver portato uno spaccato che se molti conoscevano, sicuramente non avevano mai visto così e di cui non potevano prevedere “l’impatto che avrebbe avuto sulle persone e su quel mondo lì”, L’odio vinse la Palma d’oro per la miglior regia, anche se fu in quel momento che Kassovitz capì che “il cinema era un’arma borghese, non politica”. Colpa di giornalisti che “volevano solo creare un evento” e che per tale ragione lo condussero verso la realizzazione di Assassin(s).
Critica feroce contro i media che, però, venne altrettanto ferocemente recepita. O comunque non accolta come ci si sarebbe aspettati. Ma sebbene sia fondamentale ricordarsi dove affondano le radici del passato – con L’odio che torna nel presente in 150 sale in tutta Italia – Kassovitz lascia alle nuove generazioni il compito di raccontare il futuro.
E così è l’ora di salutare. Tra poster firmati, anche braccia su cui l’inchiostro si tramuterà probabilmente in tatuaggio indelebile, Mathie Kassovitz si gira di spalle avviandosi verso l’uscita. Sul suo giubbotto personalizzato una frase fissa nella mente: “Jusqu’ici tout va bien”. Fino a qui tutto bene.
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