Due indizi fanno una prova. Checco Zalone prima, Pio e Amedo ora. Tra di loro Gennaro Nunziante, regista e sceneggiatore che in coppia con il comico pugliese ha realizzato quattro film (da Top Ten dei migliori incassi italiani) prima che le loro strade si separassero. Zalone si è dato alla regia (non senza qualche inciampo) con Tolo Tolo mentre Nunziante, dopo la parentesi non del tutto riuscita de Il vegetale, ha trovato due nuovi partner – complice Lorenzo Mieli con Fremantle – nella coppia comica di Emigratis. A distanza di un anno dal loro primo film insieme, Belli ciao, i tre hanno fatto il bis con Come può uno scoglio.
Come può uno scoglio: una commedia onesta
Una commedia onesta, che non finge di essere quello che non è e fa quello per cui è stata scritta e pensata: far ridere il pubblico. Non c’è nulla di filosofico, elevato o rivoluzionario. Eppure il film funziona proprio perché non dimentica e non tradisce la sua natura. Preso in prestito un verso di Mogol e Battisti, Come può uno scoglio si basa su un assunto. Al mondo esistono due tipi di uomini: di sabbia e di scoglio.
Il primo corrisponde a Pio, figlio di papà senza carattere e con il sogno di diventare cantante rimasto chiuso in un cassetto per seguire le regole imposte dalla famiglia, mentre il secondo risponde al nome di Amedeo, che di famiglia non ne ha avuta nessuna e nella vita si è dovuto arrangiare finendo più volte dietro le sbarre. Il destino li fa incontrare e il resto è un susseguirsi di gag che attraversano l’Italia, da Treviso a Napoli passando per la Puglia.
Una fotografia dell’Italia
Omertà, latitanti religiosi, corruzione, edilizia sfrenata, infiltrazione mafiosa al nord, bullismo, politica disinteressata alla cosa pubblica ed elettorato distratto. Come può uno scoglio fotografa, prende in giro e ci fa ridere di buona parte del marcio del nostro paese senza scadere nel volgare o mettendosi in cattedra. Tutto è raccontato tra le righe, senza sottolineature forzate. La stoccata c’è ma sta al pubblico riconoscerla. Al personaggio di Don Boschin, interpretato da Claudio Bigagli, il compito di pronunciare un monologo sull’importanza della disobbedienza, la solitudine dei ragazzi – tutti “bro” e “fra” in cerca di punti di riferimento – e l’importanza di fare piccoli passi insieme invece che da soli.
In mezzo citazioni musicali che dal neomelodico arrivano fino al rock anni Settanta e Ottanta, vero Leitmotiv del film che trova il suo culmine nella sequenza del jukebox. Pio e Amedeo, come ogni coppia comica che si rispetti, rivestono due ruoli opposti da cui scaturisce la risata. Se Pio rappresenta l’italiano benestante quanto ingessato e tonto, Amedeo è la controparte verace e un po’ cafona. Come nel film precedente c’è lo scontro tra “alto” e “basso”, nord e sud, dove è la parte (sulla carta) più avvantaggiata ad avere la peggio.
Rispetto a Belli ciao, però, c’è un passo in avanti. La scrittura qui è meno frenata ma mai cattiva o triviale. Siamo lontani dai cinepanettoni (per fortuna) e vicini ad una comicità semplice che non pretende di passare per sofisticata o innovatrice. Gennaro Nunziante la commedia la sa orchestrare e in Pio e Amedeo ha trovato due alleati con cui continuare a raccontare un’Italia che non riesce (o non vuole) cambiare.
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