Parthenope! Lo sappiamo, iniziare una recensione con un punto esclamativo è perlomeno scortese. Ma lo urla Achille Lauro, interpretato da Alfonso Santagata, dopo la nascita di una bambina che già si capisce sarebbe stata speciale.
Lo urla dopo che il padre, suo astuto e abile consigliori, gli ha chiesto, con devota urgenza, come chiamarla: lui scorge il golfo e risponde. E pensando a una delle più celebri inquadrature del film che è valso l’Oscar a Paolo Sorrentino, La grande bellezza, quella di un Antonello Venditti monumento decadente a se stesso, viene subito in mente la parodia guzzantiana “e se nasce una bambina poi, la chiameremo Romaaa”.
Ovviamente non c’è nulla di più lontano. A dispetto di quel Comandante che sa essere grezzo ma anche guascone in una malinconica e inferma ultima apparizione nel film, lontano da quelle prime inquadrature volutamente barocche e opulente, cresce un film delicato e fragile, bellissimo e evocativo, dolente e impietoso com’è la sua protagonista.
Celeste Dalla Porta alias Parthenope. O viceversa, chissà
Celeste ce l’aveva scritto un po’ nel nome e nel cognome, questo film. Celeste, come quel mare e quel cielo, Porta attraverso cui entrare nello spirito vero di Napoli. Bella di una bellezza sfacciata, quasi insopportabile, persino irritante, l’attrice protagonista dell’ultimo film di un cineasta che dopo La grande bellezza indaga la giovinezza (e in fondo questo potrebbe essere, espanso, l’adattamento del romanzo capolavoro di Jep Gambardella) – perduta, perdente, disunita e potente – con ostinata, disarmante, struggente bravura.
Parthenope: quel capolavoro che capirete (davvero) dopo qualche giorno
Cast: Dario Aita, Celeste Dalla Porta, Silvia Degrandi, Isabella Ferrari, Lorenzo Gleijeses, Biagio Izzo, Marlon Joubert, Peppe Lanzetta, Nello Mascia, Gary Oldman, Silvio Orlando, Luisa Ranieri, Daniele Rienzo, Stefania Sandrelli, Alfonso Santagata.
Regista: Paolo Sorrentino
Sceneggiatori: Paolo Sorrentino
Durata: 136 minuti
Perché con È stata la mano di Dio, Sorrentino ci ha confessato ciò che aveva riversato nel cinema senza renderlo pubblico, ha ritrovato e offerto a noi il sorriso e le debolezze di una famiglia speciale, di un ragazzino ferito ed eccezionale, di una città che ha saputo salvarlo.
Ma Napoli è una città di dannati, Napoli è la dannazione più bella. E lui lo sa, e per renderle giustizia, in questo dittico doveva opporre a un film rotondo e intimo, quest’opera che ne indaga invece il lato oscuro, dannatamente sacro, infinitamente doloroso. Celeste Dalla Porta è tutto questo, nel suo essere simulacro di quella bellezza dietro cui questa città si nasconde, nel suo coltivare la risposta pronta perché in fondo, pronta alla vita, non sarà mai, abituata a sfidare e provocare il mondo perché quest’ultimo non lo faccia con lei.
Celeste, pardon Parthenope, come Napoli rifiuta di mettersi in gioco, perché “è impossibile essere felici nella città più bella del mondo”. Parthenope è inafferrabile e spudoratamente accessibile, attratta da ciò che non può avere, maledetta da chi ha perduto, isola vanitosa che non può, alla fine, che nascondersi dietro una cattedra invece che esporsi al mondo.
Parthenope è Napoli, perché nel film ti ipnotizza con ogni centimetro della sua pelle, con ogni parola sin troppo studiata, con ogni sguardo in cui ti perdi, persino contro la tua volontà. Ti basta amarla, essere ricambiati in fondo è così volgare.
E poi ti irrita, perché sa essere vacua ed egoista, perché si accontenta di sé e al di là della sua brillante avvenenza, della sua ironia così sagace che le fa dire, in un impeto di superbia “Mi chiamo Parthenope, non mi vergogno mai” scoprendosi per una volta nel suo fingersi altro.
Lo fa con la stessa arroganza, la medesima forza narrativa e immaginifica. Probabilmente per questo il destino mette davanti al personaggio e al film quella vittoria – reale, uno scudetto desiderato e sin troppo facilmente ottenuto – così lontana da sé e lei non può che sorriderle, senza farne parte.
Parthenope, la recensione
Per questo e tanti, troppi altri motivi Parthenope è un film che si attirerà addosso, come la sua protagonista, amori appassionati e odi tenaci, ma che verrà del tutto capito solo dai napoletani esiliati, da chi ha scelto la propria diaspora e l’ha odiata, amata e infine accettata da lontano, lacerandosi con e per lei. Sia la diaspora, che la città. E la propria condizioni di amanti ostinati, sedotti, delusi, abbandonati e complici.
Parthenope è Paolo Sorrentino che si è disunito e ricomposto, è un regista che per una volta lascia Fellini e Scorsese per corteggiare Truffaut e Bertolucci – scovando la realtà nel primo e l’estetica nel secondo – ma superandone le triangolazioni, metaforiche e ferocemente fisiche, non consumandole come loro, ma bruciandole, magari persino in una notte. E quanto sono bravi – e in questo quasi si parlano due opere lontanissime come Challengers e Parthenope – i due attori maschi, Dario Aita (il suo talento ci era già chiaro ed evidente grazie a Daniele Vicari, in Prima che la notte) e Daniele Rienzo, perché qui è il triangolo è scaleno, e qualcuno è più lontano degli altri e loro, di quel dolore adolescenziale che questa metropoli inghiottita e compressa tra un golfo e un vulcano ha reso cifra stilistica ed esistenziale, riescono ad essere portatori naturali.
Il cast di Parthenope, un insieme di tasselli che formano un mosaico di insopportabile bellezza
Parthenope è anche un album di archetipi antropologici. E di interpreti sopraffini. Achille Lauro (Santagata) che si vanta della sua strategia elettorale leggendaria (la famosa scarpa prima delle consultazioni appaiata all’altra solo dopo la prova del voto a favore), il Gianni Agnelli altero e volgarmente rancoroso, la Sophia Loren che si fa oracolo su una nave da crociera di tutto l’indicibile su Napoli, che sa essere permalosa ma si conosce troppo a fondo per non riconoscersi in quell’intemerata così ben indossata da Luisa Ranieri.
E ancora il Devoto Marotta, professore mitico e temuto di antropologia che ha nascosto l’enormità del suo dolore dentro un altro modo di essere sagaci, quello impassibile e scorbutico (Silvio Orlando, il più bravo di tutti ma così disinteressato a farcelo sapere da esserlo e basta). Poi Marlon Joubert la cui Napoli è sin troppo carnale e il suo Roberto Criscuolo ne incarna uno dei tanti semidei corrotti e scorretti, con una scena di cui è spettatore lui stesso che entrerà nella galleria delle intuizioni sorrentiniane, di quelle che potrebbero vivere di vita propria.
E ancora Gary Oldman, irriconoscibile, come da anni, a sfidare il suo talento con maschere estreme, qui quella disperata e poetica di John Cheever, quasi protagonista di un cortometraggio che lo vede protagonista all’interno del film; Isabella Ferrari perché il cinema deve essere dissacrato e irriso, non è una cosa così seria da mitizzarla e iconizzarla; Stefania Sandrelli che, beh, aspettate pure 130 minuti per godervela, perché Paolo Sorrentino sa fare tante cose, e tutte meravigliosamente, ma riempire il corpo e il viso dei suoi attori di un film intero in poche pose, è tra quelle che fanno rimanere ogni volta a bocca aperta.
Parthenope, la trama
Ci siamo dimenticati di dirvi la storia che si dipana in due ore e un quarto senza che voi davvero ve ne accorgiate. Una qualità elementare ma decisiva dei grandi film, peraltro. Parthenope nasce negli anni ’50 e con disunita disomogeneità attraversa la sua città, e se stessa (ma sarebbe meglio dire “o se stessa”) per decenni. Fino al 2023, fino alla fine di tutto o all’inizio di altro, chissà. Parthenope è perfetta ma ha un vuoto dentro, Parthenope è la personificazione implacabile e feroce di Napoli e passa un intero film e un’intera vita, quella raccontata a sedurre e sedurci. Proprio come Napoli fa da sempre.
Parthenope ha tutte le qualità e tutte le colpe. Parthenope non è né sarà mai una cartolina, ma è il Vesuvio leopardiano di Martone, capace di eruttare, una volta sola, e uccidere, ma anche di dare senso a decine di vite. Tranne, forse, alla propria.
Parthenope, semplicemente, è un film bellissimo. E raccontarlo, recensirlo è solo la sublimazione del viverlo. Della sala che ti avvolge, di Celeste Dalla Porta che ti guarda, di Dario Aita che sa resistere alla sirena solo perché l’ha amata, baciata, ascoltata e qualcosa è morto dentro di lui, perché lui potesse dirsi suo ma fuggendo altrove. Lui è l’uomo che vede l’illusione, l’inganno, ma preferisce farsene carico, per amore e perché lei non lo farebbe. Per amare Parthenope, e Napoli, non puoi fare altro.
Alcuni non la sopporteranno quest’opera, perché una bellezza così annichilente induce alla fuga. Perché su Napoli aveva ragione Goethe, ma anche Rea, persino, in alcuni momenti, Giorgio Bocca (il famoso orologio rotto che due volte al giorno segna l’ora giusta) e sì, Paolo Sorrentino. Lui, che ha aspettato una vita per raccontare davvero la sua città, lui che dice, in una nota di regia che è un pezzo di enorme letteratura, che Napoli “è libera, pericolosa e non giudica mai. Come Parthenope”. Per questo siamo condannati ad amarla. Ed “è il posto ideale per illudersi di trascorrere una vita imprevedibile e meravigliosa”. E invece, usando un altro aggettivo che mette in quello scritto, tutto questo “è estenuante”. Amarla, Parthenope, lo è.
Ma è anche tutto bellissimo, di quel bellissimo luminoso e stupito che Celeste Dalla Porta verbalizza davanti a un prodigio nascosto. Davanti a chi ride. Di noi, dei nostri dubbi e misteri. Dei nostri silenzi. “Che nei belli è mistero e nei brutti è solo un fallimento”. Ma nei prodigi, è verità. Indicibile, ci dice il film.
Paolo Sorrentino ha sempre la risposta pronta. Ma qui, con qualche aforisma con cui gioca, anche con se stesso – lui più di tutti quanto sia “triste essere bravi, si rischia di diventare abili” – ma in realtà si e ci consegna al dubbio, al dolore di una felicità impossibile, alla giovinezza perduta per sempre, a volte sopravvalutata e di cui rimaniamo sempre ostaggio. Come di Napoli. Come di Parthenope. Lei, e il film.
E dovrei ancora dirvi che la fotografia di Daria D’Antonio è certosina e vibrante, le musiche di Lele Marchitelli accordate a scenografie e sceneggiatura anche quando fanno loro da controcanto, i costumi di Carlo Poggioli li senti addosso. Ma finiremmo per parlarci addosso, quel rischio che Parthenope sa di correre, ma che evita sempre all’ultimo, a volte compiaciuto. Perché in fondo è triste pure essere bravi, facendo finta di non saperlo.
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