Ugo Chiti: “Quel gran genio di Francesco Nuti, il teatro e il mio amore per il fantastico un po’ noir”

Mentre è al lavoro su un film "difficile e un po' gotico" come Aditi, grazie alla collaborazione tra Casa delle Visioni e Fenix Entertainment (distintasi recentemente per Stranizza d'amuri di Beppe Fiorello e Monica di Andrea Pallaoro), uno dei più grandi sceneggiatori italiani si racconta a THR Roma

Ugo Chiti è un libro aperto sulle pagine più belle del cinema italiano degli ultimi decenni. Capace di danzare tra la commedia e il dramma come pochi altri, ha messo la sua firma su diversi capolavori di diversi generi e i premi, che non sempre sono il termometro di una carriera ma a volte c’azzeccano, stanno lì a dimostrarlo. Quello che ha vinto per La stranezza insieme al regista Roberto Andò e Massimo Gaudioso è il sesto David di Donatello (dopo i tre per i film di Garrone L’imbalsamatore, Gomorra e Dogman, uno Per amore solo per amore di Giovanni Veronesi e per La stoffa dei sogni di Gianfranco Cabiddu, gioiello sottovalutato) e a 80 anni non intende rallentare, ancora entusiasta del cinema, del suo lavoro, di un percorso che da 60 anni lo vede volteggiare con grazia e una penna lucida e geniale tra palco, realtà e grande schermo.

E ha voluto aprire il cassetto dei ricordi, ma anche quello dei progetti futuri, con The Hollywood Reporter Roma. A partire dagli inizi, con quel comico stralunato e malinconico e irresistibile che ci ha lasciato pochi giorni fa.

Come nasce la sua avventura lavorativa con Francesco Nuti?

Nasce grazie ad Alessandro Benvenuti, con cui c’era un rapporto di amicizia e stima fondato sul teatro, lui vedeva i miei spettacoli del FLOG (Fondazione Lavoratori Officine Galileo) e io i suoi. Ti ricorderai che il gruppo dei Giancattivi non nasce con Nuti, all’inizio, e quando Sandro e Athina (Cenci) si trovano da soli, lui mi porta a Prato a vedere questo ragazzo per avere un consiglio. In quel periodo mi dedicavo alla ricerca e la riproposizione delle tradizioni popolari, un discorso fondato sulla drammaturgia vernacolare riletta in forma critica, loro erano invece avanguardia pura e surreale. Nacque subito una stima reciproca e cominciai a fiancheggiare i Giancattivi e in quel ruolo mi trovai in quel teatro, accanto a Benvenuti a vedere questo spettacolo che si chiamava Polli d’allevamento. E mi colpì immediatamente l’empatia che Francesco creava con il suo pubblico, con un taglio originale e mai ideologico, una leggerezza che non era mai superficialità. Mi piacque subito e lo dico agli altri due, pur mettendoli in guardia sul fatto che una personalità come la sua avrebbe influito sul loro processo creativo e sul loro modo di esprimersi.

La storia ci dice che non ebbero paura e pur se per breve tempo crearono un gruppo comico rimasto nell’immaginario collettivo

Francesco entra nel gruppo e il repertorio vira dalla loro vena vagamente surreale, alla Ionesco, a un umorismo non connotato da un punto di vista dialettale e vernacolare che abita in questo mondo un po’ lunare, un po’ sospeso. Francesco si amalgama perfettamente, anche perché sa contaminarli, però restando su dei temi più riconoscibili per il pubblico. Poi arriva Non Stop (programma televisivo cult d’intrattenimento comico andato in onda tra il 1977 e il 1979 – nda) e cambia tutto. Ricordo che un giorno che stavamo lavorando insieme, eravamo in campagna, andiamo in un negozio a comprare qualcosa da mangiare ci rendiamo conto della notorietà che li ha appena investiti. Soprattutto Nuti, di cui tutti ricordano la battuta “te la mi mamma la lasci stare”.

Quel periodo cambia la grammatica della commedia, cinematografica a non

È un momento fortunato in cui in pochi mesi escono Verdone, Troisi e lui, c’è un passaggio generazionale verso una nuova comicità, una nuova commedia dell’arte e io mi trovo ad aiutarli, in scrittura, con la scenografia e i costumi (i primi lavori mi vedono accreditato in questi due reparti). Siamo amici, prima che sodali. Con Alessandro il rapporto professionale era già forte, con Francesco arrivano prima la stima e l’affetto e poi il lavoro insieme.

Credo che la forza dei Giancattivi all’inizio fosse in queste anime diverse che si legavano benissimo insieme, però si capiva che lui era quello che riusciva a costruire un rapporto più forte con il pubblico. Quando si dividono io un po’ ne soffro, anche se continuiamo a lavorare insieme, anche con Giovanni Veronesi, ma mi sento un po’ diviso tra due amici. Lui lavora con Giovanni, con Cerami, io sono sempre lì attorno a fare un po’ tutto, poi dopo altre sceneggiature per altri entro in scrittura ufficialmente in Willy Signori e vengo da lontano. Gliene sarò sempre grato, perché mentre continuo a lavorare tanto con il teatro, è il lavoro con lui che mi consente di entrare nel mondo del cinema: il fatto di essere un campione d’incassi mi apre tutte le porte. Lo sappiamo com’è l’Italia: se c’è il successo, non c’è sguardo critico. Figuriamoci se poi veniva da un ragazzo arguto, intelligente, originale come lui, se la quantità si univa alla qualità come nel suo caso.

Poi dopo una serie di film rimasti nel mito, Francesco Nuti cade in picchiata con film costosissimi e non riusciti. Che successe?

Non lo so. Io posso raccontare di OcchioPinocchio – su Il signor Quindicipalle non ho lavorato – e se è vero che lui ebbe qualche problema personale, continuo a pensare che quello fosse un grande film nonostante alcuni difetti. Basta guardare i primi 15 minuti, ci sono uno sguardo, un’idea di cinema davvero forti. Poi è vero, tante cose in quell’opera sono inespresse, ma il problema vero è stato che il clima attorno al film, non è l’unica volta che mi è successo, è diventato presto negativo. Riguardandolo, però, anche ora lo trovo un lavoro di grande forza creativa, dolente, diverso. Ma nessuno ha voluto indagare OcchioPinocchio nelle sue tracce più nascoste, sepolte, preferendo guardarlo superficialmente, definendolo un film egocentrico come il suo autore. Ho sempre avuto la sensazione che ci fosse una pregiudiziale voglia di minimizzare il valore di quel film e del suo regista.

Nuti, Garrone, Andò: nella sua carriera ci sono tanti autori diversi, tanti stili differenti. A un marziano che chiedesse cos’è il cinema italiano dovremmo dirgli: parla con Ugo Chiti

Sono e sono stato un uomo fortunato, il cinema mi ha dato tanto, a partire dai riconoscimenti (due Nastri d’Argento, sei David di Donatello), ma credo di essermi meritato qualcosa di tutto questo anche per il mio modo di lavorare, la mia capacità di adattarmi ai mondi altrui, di capirli ed entrarci. E questo pur rimanendo il teatro il mio vero luogo d’elezione. Però per me non è solo un talento saper abitare la fantasia altrui, è proprio un divertimento che affronto con disinvoltura mentre nello scrivere, immaginare, dirigere per il palco sono più assoluto, ho una mia grammatica precisa e decisa. Al cinema ho lavorato con tante persone con qualità diverse, ma mantenendomi riconoscibile ho saputo sempre entrare in contatto con gli altri, intonarmi a loro. Non è solo umiltà, ma anche curiosità di uomini e donne nuove con visioni diverse. E poi a pensarci bene passare da Nuti a Veronesi a Garrone non è così strano, cambiano i toni ma a volte argomenti e personaggi potrebbero tranquillamente riconoscersi. Poi, certo, ci sono quei film in cui mi specchio di più: penso a La stoffa dei sogni di Gianfranco Cabiddu o La stranezza di Roberto Andò, dove il teatro è protagonista e lì ovviamente nuoto nella mia acqua.

Ecco, il teatro. È il suo primo e grande amore?

Di sicuro è una parte fondante e fondamentale di me, quella in cui mi sento a casa. Ho sempre voluto proteggere un certo tipo di teatro. Anche ai danni di uno sperimentalismo che in alcuni anni è diventato eccessivo, con un elemento per me molto negativo che era la distruzione della parola, ridotta a suono, e io invece avevo un innato, violento bisogno di comunicare con la parola. Ho lavorato per 60 anni su questo ed è chiaro che sui miei film ambientati in questo mondo si senta. Figuriamoci ne La stranezza, dove si mette su una filodrammatica e si affronta un testo rivoluzionario di un grande maestro come Pirandello o nel film di Cabiddu dove al centro di tutto c’è Shakespeare, uno di quegli autori da cui esci sempre rinn0vato, migliorato, pulito. Sono come una fonte d’acqua pura. Se ami quei lavori, quel modo di usare e modellare la parola, puoi anche tradirlo. In quei casi il mio lavoro è ancora più facile, mentre scrivo è come se proiettassi dentro la mia mente il film, lo vedo subito tridimensionale. Ovviamente sempre nel rispetto del regista, maho avuto l’ulteriore fortuna di lavorare con persone meravigliose con cui c’è stato uno scambio creativo, un confronto continuo. A dirla tutta questa è stata una costante della mia carriera, non ho mai trovato al cinema mancanza di rispetto nei miei confronti o verso il mio lavoro. Anzi, ho sempre lavorato in grande condivisione con gli altri, anche e soprattutto con registi con visioni comunque molto forti, penso a Matteo Garrone.

Per decenni il cinema italiano ha avuto una crisi nel suo settore drammatica. Nasce proprio tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, quando i nuovi comici illudono tutti che si possa sia scrivere che dirigere?

Difficile fare una mappatura temporale in merito. Credo che sì, sia emerso nella sua evidenza con l’ondata dei comici alla Verdone, Nuti e Troisi, ma che fosse già in nuce anni prima. Certo è che l’arrivo della grande notorietà dei personaggi televisivi ha portato i produttori a puntare su di loro – ma non è cominciata con quei comici, ma già con altri generi fondati su star di successo – e non sulla forza della scrittura o della regia di un film. In quel momento tutto si semplifica e a uscirne malconcia è proprio l’importanza dello sceneggiatore che in quella situazione si mette – e lo fa tuttora in diversi casi – a fiancheggiare il personaggio e non più a guidare l’artista e l’attore. Chi scriveva si preoccupava di dare varianti a quegli archetipi proposti negli sketch, se si era fortunati si dava loro una dimensione drammaturgica, ma sempre funzionale a quella caratterizzazione. Questo ha reso secondario il ruolo dello scrittore per il cinema. Io ho avuto la fortuna di lavorare per chi voleva in primis fare cinema e non farsi sfruttare come personaggio e di tenere per me sempre una galleria di osservazione umana, di non stancarmi mai di guardare il mondo, a partire dal mio amato teatro che ti dà un’altra grande possibilità, quella di affrontare i classici, che sono sempre una splendida palestra per chi scrive e non ti permettono di abbassare l’asticella della qualità.

In quegli anni ’80 il qui e ora avvelenò molti pozzi, anche nel cinema civile

Non sono del tutto d’accordo, ma è vero che toccare il contemporaneo è sempre pericoloso, è sempre una materia già contaminata, mal digerita e proposta attraverso la tv, certe fiction, l’informazione odierna. Valeva allora e vale ancora di più oggi, probabilmente. E se tu ci ritorni con quella levità di bisturi che è l’arte sopraffina della grande commedia italiana a volte può essere difficile affondare al meglio in quel materiale già troppo trattato. Però è anche vero che per vari motivi sento che qualcosa sta cambiando, anche la presenza di oggetti cinematografici che prevedono una nuova centralità degli sceneggiatori determinano più attenzione per la scrittura.

Se dovesse riassumere in una frase qual è la ragione del suo decennale successo, cosa direbbe?

Può sembrare una risposta banale, ma credo che nelle mie commedie come nei drammi ci sia sempre stata la paura di infiocchettare con qualcosa di consolatorio le storie, il timore che la levità diventasse eccessiva leggerezza: nelle mie storie, e la cosa mi piace, c’è sempre un retrogusto più acido, più aspro che devi cercare immediatamente sotto ciò che è più evidente. E credo sia una cifra leggibile del mio lavoro, sempre presente nelle sfumature di ciò che faccio.

Come in Aditi, il suo prossimo film che verrà diretto da Stefano Lorenzi?

Eh, in Aditi (che nasce dalla collaborazione di Casa delle Visioni con Fenix Entertainmente, distintasi recentemente per la produzione di Stranizza d’amuri di Beppe Fiorello e Monica di Andrea Pallaoro) si parla di quella che potrebbe sembrare una storia molto difficile, c’è di mezzo un femminicidio visto e raccontato attraverso la sofferenza infantile da esso provocata, trasfigurata in un percorso favolistico che si contrappone continuamente al reale. Nasce come progetto per un corto, ma ho capito, sentito subito che poteva essere qualcosa di più. Poi quella nota fantastica e dolente, che a volte ho percorso con Garrone, è qualcosa che sento molto mia e me ne sono appropriato. Ma siamo in una fase embrionale, lo sto scrivendo proprio adesso. Mi viene in mente che per certi versi è un film che si avvicina a uno che ho scritto ormai anni fa, per Brando De Sica, che amo molto: Mimì – Principe delle tenebre. Una storia molto mia, perturbante, quasi gotica, di quel nero che sfuma per tornare poi a una riconoscibilità dell’umanità profonda, ferita, sofferta. Non cerco mai il compiacimento horrorifico, ma appunto quella tonalità scura, quel turbamento che cresce, che diviene un dolore che abita un terreno e un tempo sospesi, quello è un territorio di scrittura che mi affascina da morire. Perché laddove abita la paura, la rabbia c’è anche un’umanità bella, affascinante, persino serena.

A fine anni ’90 con Albergo Roma e La seconda moglie tentò, con due belle opere, la strada della regia. Come mai l’ha abbandonata?

Non so che dirti, una serie di concomitanze mi hanno portato ad allontanarmi. Il primo film ce l’avevo così chiaro in mente che l’ho di fatto trasportato dalla pagina al set senza sforzo, forse troppo pedissequamente, un altro è diventato calligrafico perché un certo cinema era passato di moda. O non è tornato di moda abbastanza in fretta, non l’ho ancora capito. Il fatto è che stavo da dio con gli attori, che mi piaceva il comparto tecnico – da scenografo e costumista qual ero – e che forse mi appoggiavo troppo alla visione degli altri per la regia in senso strettamente tecnico: non che grandi autori non lo abbiano fatto prima di me, ma del fare un film mi piacevano sempre di più altre cose rispetto allo stare seduto su una sedia con dietro il mio nome. Il montaggio, per esempio, che è un’altra forma di scrittura. E poi fu preso con poco rispetto a Venezia il secondo, con facili e puerili ironie ecco non mi è piaciuto il mondo del cinema dalla visuale del cineasta, sono sincero, soprattutto perché in quel periodo ho avuto l’impressione di essere finito in mezzo alla battaglia che tutti stavano facendo contro Cecchi Gori.