Momenti di Antonio Monda: le lacrime del Principe di Salina e l’alba di una nuova era ne Il Gattopardo

Burt Lancaster che piange, in un bagno, è la scena decadente, ferocemente ironica e grandiosa che si fa metafora di un'epoca che tramonta e del sorgere di tempi nuovi, moderni e non necessariamente migliori

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Un sentore di morte, in ogni scena. Più è grandiosa, più è emotiva ed elegante, più cala dalla regia di Luchino Visconti, su Il Gattopardo, l’atmosfera decadente e dolente di chi guarda un’epoca morire e, neanche troppo celatamente, sente una forte immedesimazione con essa.

Luchino Visconti, il principe di Salina del cinema italiano

Luchino Visconti è, in tutto e per tutto, il principe di Salina, il grande regista ne Il Gattopardo non descrive solo la strategia tutta italica del camaleontico cambiare tutto perché nulla cambi davvero, ma anche il senso di perdita di qualcosa che in realtà non tornerà più.

Se è vero che un’identità di un paese resiliente, non sempre nella maniera giusta, è ben raccontato dalla storia di Tomasi di Lampedusa che ne fece un libro seminale per una nazione intera, quest’opera fu anche il canto del cigno per un’aristocrazia che ha in sé, in quelle pagine (e poi quelle immagini) la profonda consapevolezza e al contempo un senso di rimozione di ciò che sta accadendo, del crollo di un piccolo mondo antico così ben fotografato da un ballo coreografato alla perfezione così come dalle lacrime di un principe di Salina, un titanico Burt Lancaster, in un bagno tanto elegante quanto metafora feroce e ironica di ciò che sta accadendo e di come e dove l’aristocrazia ormai era relegata dalla Storia.

Tomasi di Lampedusa lo dice, nel libro: prelude a una nuova alba “plebea” e pur non conservando quella nota inevitabilmente “classista” di un autore figlio del suo tempo, Visconti sente quel senso di rovina, di estinzione, di nostalgia di qualcosa che non tornerà più. Un presagio di morte, appunto, che fa parte spesso del suo cinema (si pensi alla scena più bella e lacerante di Morte a Venezia) e che trova nella sintesi tra quel classico della letteratura e quel capolavoro cinematografico forse l’apice di un’etica e un’estetica.

Il Gattopardo, fiore all’occhiello e rovina della Titanus

Una sintesi che costò parecchio alla Titanus – tre miliardi di lire, insieme al flop di Sodoma e Gomorra fece sì che la casa di produzione dovesse sospendere la sua attività -, nonostante il film arrivò persino in Nord America, grazie alla 20th Century Fox. Fu una lavorazione travagliatissima: doveva dirigerlo prima Mario Soldati e poi Ettore Giannini, entrambi allontanati e nel caso del secondo, addirittura stracciandone la sceneggiatura (la delusione portò quest’ultimo al ritiro dal mondo del cinema).

Visconti arrivò, come Burt Lancaster, come terza scelta e si portò un team di sceneggiatura di altissimo profilo (Suso Cecchi D’Amico, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa e Enrico Medioli, oltre al regista) per trovare una soluzione a quello che era ormai un kolossal per budget, tempo di lavorazione (quindici mesi) e ambizioni. Un parto doloroso e lungo che ha portato, però, a un’opera dal valore altissimo e universale. Di quelle che (ri)scrivono la carta d’identità di un paese.