Lorenzo Di Bonaventura, il produttore di Shark 2: “Lo sciopero di sceneggiatori e attori? Prevedibile e inevitabile”

Ha prodotto in proprio Transformers, G.I. Joe, Constantine, ha lavorato come executive della Warner Bros a cult e capolavori come Three Kings, Un giorno di ordinaria follia, Matrix. E a THR Roma dà la ricetta del Blockbuster perfetto. E non solo

“Sono italiano, come lo erano i miei nonni, l’Italia è sempre nei miei pensieri”. Lo confermerà anche nel corso dell’intervista Lorenzo Di Bonaventura, uno dei più grandi produttori americani, un signore che nel curriculum può vantare una saga di successo planetario come Transformers, ma anche G.I. Joe e adesso The Meg, in Italia Shark, il cui secondo capitolo, Shark 2 – L’abisso è appena arrivato nelle sale italiane e di tutto il mondo. Dopo avere lavorato per anni in Warner Bros. Di Bonaventura si è messo in proprio, iniziando l’avventura con un film che è poi diventato un cult per gli appassionati di fumetti, Constantine, per poi lavorare anche con Neil Gaiman per il suo fantasy Stardust e inanellando poi tanti altri successi nel corso della sua carriera. Che al momento, come per molti altri, è in un momento di pausa forzata a causa dello sciopero degli sceneggiatori e degli attori. Ne abbiamo parlato, così come di molte altre cose nel corso della nostra conversazione.

Shark è uno dei film più divertenti degli ultimi anni, nel sequel ci troviamo di fronte addirittura a tre megalodonti. Quanto le piace fare film di questo genere?
È come tornare bambini, la linea editoriale è: “Ok, cosa possiamo fare? In quanti modi diversi possiamo fare in modo che uno squalo faccia a pezzi qualcuno? Questo è il trucco. Li considero entrambi film molto interessanti, sia questo che il primo, perché penso che molti grandi film, come Transformers o Il pianeta delle scimmie, abbiano come premessa creativa un discreto grado di follia. Si tratta di trovare il giusto equilibrio su quanto ci si debba prendere sul serio. Ma se ci si prende troppo sul serio, è come se si dicesse: “Ma dai, è uno squalo gigante”. Esatto! La cosa interessante è il tono di questi film, che si evolve costantemente mentre li fai, è una sfida diversa, perché l’immaginazione può andare ovunque, partendo dalla domanda “Cosa c’è in fondo all’oceano che nessuno ha mai trovato prima?”.

E naturalmente si può anche fare in modo che Jason Statham prenda a pugni uno squalo gigante. E non è assurdo, perché è Jason.
Sì, proprio così. Anzi, è divertente. Questa volta abbiamo trovato la maniera di farglielo prendere a calci. Come vedi ci siamo dati da fare in tutti i modi per combattere questo squalo enorme. Sai, è la sfida di fare il secondo film: essere più grande, più spassoso, lo dobbiamo al pubblico. Quando fai un sequel, devi offrire una nuova esperienza, ma allo stesso tempo devi essere fedele alla prima, perché è per questo che gli spettatori scelgono di tornare. Si tratta di trovare un equilibrio tra il rendere il film più tutto senza cambiare radicalmente. E credo che Shark 2 sia molto riuscito in questo senso (lo è per il pubblico italiano che al box office lo sta decisamente premiando – ndr).

Ha parlato di sequel. Lei è un esperto in materia, come nel creare franchise di successo partendo da giocattoli, come G.I. Joe e Transformers
Per entrambi potevamo contare anche su una ricca produzione di fumetti e cartoni animati. Avevano quindi già dei personaggi definiti e delle situazioni elaborate molto bene. Ma quello che è interessante è il rapporto con il pubblico. Ci sono molte persone che già sono relazionate fortemente con il prodotto, perché magari ci giocavano da piccoli. Lo stesso vale per gli squali, con cui c’è un rapporto organico, e per questo ne abbiamo fatti di ancora più grandi. Bisogna attirare il pubblico e capire il rapporto universale che c’è con quello che racconti, senza essere troppo intellettuali perché parliamo di affari, sono film che costano molti soldi. È sempre una questione di equilibrio. Ciò che mi ha aiutato enormemente come produttore è essere stato un executive della Warner Bros per 13 anni, durante i quali ho avuto la fortuna di fare esattamente i film che sognavo di fare quando sono arrivato a Hollywood: Un giorno di ordinaria follia, Three Kings, Training Day, La tempesta perfetta, Matrix. E poi mi sono messo a produrre blockbuster. Ma è stato il lavoro alla Warner che mi ha permesso di imparare come funziona il business e soprattutto come funziona il pubblico. La cosa peggiore dell’essere un regista è la prima volta che mostri il tuo film a un pubblico, è come il giorno del giudizio, è una sensazione terribile. E l’ho vissuta tante volte, ma se si presta attenzione in quel momento si impara a capire perché il pubblico reagisce a qualcosa piuttosto che a un’altra.

Shark è una grande idea d’intrattenimento. Ma è anche un film con un processo produttivo molto creativo. Fare il produttore è un mestiere complesso, in Italia per esempio si punta molto sui fondi che concede il governo e sul Tax Credit, che è al 40%, molto vantaggioso, dovrebbe venire a girare in Italia.
L’ho fatto, per American Assassin, ed è stato fantastico, ho trovato dei professionisti grandiosi. Credimi, cerco continuamente di convincere gli sceneggiatori a scrivere storie ambientate in Italia per venire a lavorare da voi. Anche se ci sono delle complessità, girare in esterni è difficile, soprattutto a Roma, ma è comunque sempre un’esperienza. E poi non c’è niente di meglio che mangiare un bel piatto di pasta a pranzo durante la pausa.

Come darle torto! Tornando alla produzione di un film, paradossalmente mettere insieme una cordata con investitori internazionali oggi è semplice, dato che i fondi di molte economie ricche come Cina, India ed Emirati Arabi investono nel settore cinematografico. Ma bisogna sempre trovare i partner giusti. Ha detto che bisogna sempre trovare l’equilibrio: anche tra i soldi e le persone giuste con cui lavorare?
Sai, la cosa cambia parecchio a seconda delle dimensioni del film, perché i film dal budget molto alto hanno una forte pressione finanziaria e i partner tendono a preoccuparsi e questo è sempre molto interessante, di quanto si rifletta la loro cultura nel film, come si inserisca nel racconto e come venga mostrato il loro paese. Per farti un esempio recente, nell’ultimo Transformers abbiamo girato in Perù e, pur non avendoci finanziato direttamente, il governo peruviano ci ha dato accesso a location che altrimenti ci sarebbero costate una fortuna, sempre che fossimo riusciti a ottenere il permesso di girare. Insomma, parliamo del Machu Picchu. Ci sono molti criteri che vanno considerati quando si sceglie di lavorare con un partner internazionale piuttosto che con un altro. Uno di questi è: quanto ti vuole il paese da cui arrivano i soldi che ti servono per fare un film? Quando abbiamo girato in Egitto abbiamo avuto accesso alle piramidi, un evento eccezionale che succede quando si fanno film enormi e che fanno sentire bene i finanziatori. Ma non è sempre così, mettere insieme un budget è un’operazione complessa come lo è trovare i giusti compagni di strada, ed è giusto che sia così, perché chi investe si fa un’idea precisa e personale di come dovrebbe essere il film. Su questo aspetto bisogna lavorare sodo, perché quando si trova un’intesa le difficoltà a cui inevitabilmente si va incontro si risolvono rapidamente. Poi considera una cosa: qualunque sia la dimensione del film, che costi 200 milioni o 5, tutti pensano che se ne debbano spendere meno. E ovviamente non è così. Quindi mettere insieme i finanziamenti è come cucire una trapunta il cui filo devono essere persone affidabili con cui intraprendere il viaggio. Di recente un amico produttore ha finito i soldi a metà della corsa perché si è trovato a lavorare con delle persone poco serie. Dal mio punto di vista, la prima cosa è trovare investitori che abbiano una visione precisa di quello che verrà fuori e che possibilmente lavorino in questo settore già da qualche tempo. I problemi si hanno quando si entra in contatto con realtà che il cinema non l’hanno mai fatto.

Torniamo a Shark 2. Ben Wheatley è un regista geniale, ma non è una persona facile.
Mi è piaciuto molto lavorare con Ben. Prima di tutto, farei qualunque film con lui perché è un uomo sincero e molto gentile. Professionalmente mi interessava lavorare con un regista con un bagaglio precedente molto definito, ma che non aveva mai lavorato su un film di questa scala. Sapevo che proprio per questo ci avremmo messo un po’ prima di mettere una firma su un contratto, perché bisogna farsi molte domande. In questo caso, trattandosi di un sequel, la situazione era più semplice, perché ho potuto chiedergli cosa gli fosse piaciuto del primo film e cosa avrebbe voluto fare di diverso e nuovo per il secondo. Quello che speravo e che è venuto fuori nel film è il suo modo di lavorare con gli attori, da cui riesce a trarre il massimo. La grande sorpresa è stata la sua abilità nel gestire una macchina così grande, si sentiva molto sicuro e questa cosa ha aiutato enormemente anche me dal punto di vista creativo, cosa che non succede proprio così spesso a causa delle tante cose che devo fare. Quando si realizza una coproduzione come in questo caso con due entità completamente diverse, la Warner Bros e la CMC (un fondo cinese specializzato in sport, cinema e televisione, con un capitale gestito di 2,5 miliardi di dollari n.d.r.), bisogna fare in modo che entrambe si sentano soddisfatte. Ben ha contribuito a far sì che questo accadesse. Non credo si possa portare una sensibilità indipendente in un blockbuster, ma certamente puoi portare la tua sensibilità personale come artista, girando un blockbuster con un’estetica diversa. Ed è esattamente quello che ha fatto Ben.

Cosa sta accadendo a Hollywood. Erano 60 anni che sceneggiatori e attori non si alleavano contro gli studios. Da produttore, cosa pensa di quello che sta succedendo e quanto tempo ci vorrà per trovare una soluzione secondo lei?
Non ne ho idea. Non mi sembra si possa risolvere rapidamente, ma c’è sempre una speranza. In ogni caso, al momento sono disoccupato. Davvero, e non ho fatto niente per diventarlo, com’è successo? Scherzi a parte, penso che l’irruzione dei servizi streaming abbia creato nuove opportunità ma anche nuovi problemi. E non mi sorprende che si sia arrivati a questo punto perché una volta gli studios avevano degli obiettivi molto precisi, facevano cinema e televisione. Ora parliamo di tech company che hanno questo tipo di approccio nei confronti del business, mentre gli studios hanno esigenze ancora diverse, più tradizionali ma evolute rispetto al passato. In ogni caso, i modelli stanno cambiando molto velocemente e sono tutti diversi tra loro. E la conseguenza di questa varietà è lo sciopero, perché l’interesse personale di ogni compagnia è specifico, come lo è il modo di approcciarsi e trovare un accordo con sceneggiatori, attori e produttori, anche se con noi è più semplice. In ogni caso, era prevedibile che prima o poi accadesse.