La lunga notte: la caduta del Duce. Già il titolo è irresistibile, una miniserie su quell’estate del 1943 in cui chi regnò indisturbato e acclamato per un Ventennio venne deposto con il disonore che meritava. Suo e del sistema, che però, italianamente, provò a riciclarsi e salvarsi all’ultimo.
Sprecare trecentoquaranta minuti su queste pagine di storia, francamente, non sembrava necessario, farlo con i ritmi di uno sceneggiato che trasforma tutto in una storia da fotoromanzo, in cui tutto è edulcorato dall’incapacità di questo paese di costruire una base conflittuale con i punti più oscuri della propria storia, pure meno.
La lunga notte: La caduta del Duce, la trama
La lunga notte racconta quanto accaduto nelle settimane precedenti la notte tra il 24 e il 25 luglio 1943, quando, in occasione dell’ultima riunione del Gran Consiglio, si decise di deporre il capo del fascismo, Benito Mussolini (interpretato da Duccio Camerini).
Lo sbarco delle truppe angloamericane in Sicilia, il bombardamento di Roma, l’alleanza tra Hitler e Mussolini sempre più debole, perché l’esercito italiano non riusciva a fermare gli alleati, tutto viene raccontato in 6 puntate. Un pezzo della nostra storia determinante raccontato, però, non sul campo di battaglia di un paese martoriato ma nelle stanze di un Potere grottesco e ormai morto, nostalgico di sé e della presunta grandezza mai raggiunta, impegnato in doppiogiochismi acrobatici.
La lunga notte: la caduta del Duce
Cast: Alessio Boni, Duccio Camerini, Aurora Ruffino, Martina Stella, Lucrezia Guidone, Ana Caterina Morariu, Flavio Parenti, Marco Foschi, Luigi Diberti, Maurizio Donadoni, Riccardo De Rinaldis, Manuela Ventura, Emma Benini, Giuseppe Antignati, Daniele Natali, Clemente Pernarella
Regista: Giacomo Campiotti
Sceneggiatori: Franco Bernini e Bernardo Pellegrini, con la consulenza storica di Pasquale Chessa
Durata: 339 minuti (6 puntate)
La recensione della serie tv diretta da Giacomo Campiotti
La serie, già disponibile nella sua interezza su Raiplay e che in tv passa in prima serata su RaiUno il 29, 30 e 31 gennaio, ha come regista Giacomo Campiotti, onesto mestierante che al cinema si fece notare con il bel Come due coccodrilli, ben trent’anni fa, e che poi è divenuto un cineasta televisivo, di quella tv che la Rai fa su santi (San Filippo Neri), storie esemplari di eroi comuni (Il sorteggio, sui giurati popolari di uno dei più noti processi alle BR, o ancora Chiara Lubitch), l’importante è che siano in costume e ambientate in un passato più o meno glorioso e infine e soprattutto le tre stagioni strappalacrime (ma molto ben fatte) di Braccialetti Rossi, da cui si è portato Aurora Ruffino nella parte di Maria José.
Uno dei migliori, Campiotti, va detto, nel genere “fiction Rai tanto tanto edificanti sugli italiani brava gente con o senza Giuseppe Fiorello”, così come gli sceneggiatori Franco Bernini (Piaggio, Olivetti, Piazza Fontana sempre in tv) e il giovane Bernardo Pellegrini (su tutti l’eccellente Il Re). Eppure.
Eppure La lunga notte: La caduta del Duce racconta la caduta del fascismo e l’inizio della liberazione alleata come una soap di quart’ordine, tra il piccolo dittatore che fa telefonate mute all’amante Claretta Petacci (Martina Stella, sempre sopra le righe, come se fosse in un’altra fiction, diretta da René Ferretti, e in un’altra epoca) che capisce che è lui – beata tarda adolescenza in camicia nera – e al telefono lo chiama Ben. Ben. Che pure se fosse vero, seppure avessimo registrazioni di tutto ciò, si dovrebbe capire che il vero quando troppo grottesco non fa un buon servizio alla realtà storica. Ben. Ma perché non Mussy, allora.
Il cast de La lunga notte: La caduta del Duce
Tutto è caricaturale. La principessa Maria José (Aurora Ruffino) è una sorta di eroina senza macchia e senza paura perché se c’è una certezza su questa fiction è che pur essendo andata sul set poche settimane dopo la vittoria di Meloni e soci (ma scritta prima), non è tanto che sia fascista quanto monarchica.
E se davvero non è possibile salvare Vittorio Emanuele III o l’erede Umberto II – la consulenza dello storico Pasquale Chessa, dall’impostazione particolare e interessante, una sorta di spregiudicato defeliciano (sia nel condividerlo che nel confutarlo), ma studioso serissimo, lo avrebbe impedito -, allora ecco lavorare sulla parte femminile, meno nota e più romanzabile, per salvare i Savoia salvabili.
Dino Grandi, già leader delle squadracce e Presidente della Camera dei Fasci, definito più volte opportunista, grazie anche alla bellezza e fierezza di Alessio Boni diventa una sorta di liberatore nero, Duccio Camerini dà al suo Mussolini una decadenza che quasi vorrebbe suscitarci empatia, tra un’ulcera che arriva quando non sa cosa rispondere, una prosa maschilista, clownesca (che, va detto, impregna tutta la fiction) e involontariamente comica e un atteggiamento passivo aggressivo urlato che a volte più che al Duce lo fa somigliare a Signorini.
Non parliamo della liaison Edda Mussolini – Galeazzo Ciano (Lucrezia Guidone, che deve ringraziare il suo carisma naturale che la salva, e Marco Foschi), tratteggiata come in una telenovela sudamericana d’altri tempi, gli alti gerarchi mostrati come bonaccioni alla ricerca di una soluzione di buon senso, persino i partigiani e le crocerossine che replicano foto parigine del dopoguerra in scene improbabili e che riducono la loro “missione” a tempeste ormonali o amicizie giovanili che si trasformano in slogan.
Qui si vuole rifare la storia d’Italia, ma in realtà si è costruito solo l’ennesimo alibi di un paese da operetta che sì, ha avuto vent’anni di una dittatura buffonesca ma feroce nei comportamenti, nelle leggi, nelle repressioni. Un paese che si scopre sulla tv generalista nostalgico di una monarchia che in fondo la rappresenta, familiare e familistica, unico nucleo sociale e politico che questa penisola riconosce davvero.
Non ci mancano le teste coronate, ma quelle debolezze e fragilità ridicole e improbabili che assomigliano alla mediocrità degli italiani brava gente che il meglio lo danno facendo compromessi, tradimenti fatti passare come male minore, voltafaccia raccontati come stoiche resistenze.
Qui si riscrive un pezzo di storia d’Italia, settimane che hanno fatto morti e feriti a migliaia, che hanno massacrato città e regioni, per salvare tutti, persino il Duce che più di una volta viene rimproverato non perché abbia rovinato l’Italia nei precedenti 20 anni, ma perché negli ultimi mesi “ormai distaccato dalla realtà”, “esausto”, “non più quello di un tempo”.
I cattivi sono giusto due, il Führer, che sembra preso dal Bagaglino (e in generale i tedeschi, così stereotipati non li vedevamo da I due colonnelli), e Claretta Petacci, perché l’amante è sempre da condannare.
E alla fine della sesta puntata la nostalgia di Fascisti su Marte si fa fortissima, irrimediabile. Ma, ad essere sinceri, ci accontenteremmo persino del parossismo ridicolo dei cinegiornali Luce, che per lo meno avevano più consapevolezza di sé.
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