The Curse, la recensione: Emma Stone e Nathan Fielder in una serie comica e estenuante

Nel cast anche Benny Safdie. Alla regia Nathan e David Zellner. Uno show sul voyeurismo del genere reality, che viene esposto e preso in giro nel prodotto firmato A24

Si dice che chi vive in case di vetro, non dovrebbe gettare pietre su quelle degli altri. Ma che dire delle persone che vivono in case di metallo scintillante? Stando alla nuova serie comica The Curse di Nathan Fielder e Benny Safdie, queste persone non dovrebbero partecipare ai reality show. Proprio come una casa di metallo – si veda il lavoro dell’architetto Doug Aitken, per esempio – potrebbe dare l’impressione di riflettere direttamente il mondo circostante, i reality show televisivi danno l’impressione di riflettere la realtà. Invece, sia la casa che i programmi tv non di fiction, riflettono qualcosa di più distorto e deformato e, di conseguenza, forse più rivelatore dal punto di vista emotivo.

Questo è il tema di fondo di The Curse, una serie complicata da descrivere in modo appropriato, cioè in un modo che abbia senso per i fan dei suoi partecipanti chiave. Quando si prende la sensibilità di Safdie (Diamanti grezzi), metà di un team di due fratelli noto per generare contenuti ad alto tasso d’ansia, e di Fielder (The Rehearsal), un maestro della goffaggine, e si aggiunge il potere di una star disposta a tutto come Emma Stone, che ha regalato alcune delle sue migliori interpretazioni quando le è stato chiesto di incanalare il disagio dei suoi autori, il risultato non sarà mai di un’allegria senza complicazioni.

The Curse è la nuova serie più “imbarazzata” dell’anno, un’opera di ansia e goffaggine. Ha molto da dire sul modo in cui viviamo oggi, ma molti dei suoi commenti irridenti – soprattutto quelli che pungolano il suo probabile pubblico di riferimento – e molte delle sue risate si perderanno di sicuro quando gli spettatori distoglieranno lo sguardo mortificati.

Whitney (Stone) e Asher (Fielder) sono il team di marito e moglie dietro l’episodio pilota di un nuovo programma di HGTV dal titolo Flipanthropy. La premessa: Asher e Whitney, che progettano le cosiddette “case passive” nel filone metallico-riflettente stile Aitken, stanno cercando di rivitalizzare la comunità di Española, nel New Mexico, portando uno stile di vita ecosostenibile e nuovi posti di lavoro in una città nota soprattutto per la criminalità e la povertà. Si sono impegnati a rispettare le radici indigene della zona, a onorare gli artisti locali e a mantenere le certificazioni della Passive House Society in Germania.

Qual è la maledizione del titolo?

L’episodio pilota del programma della coppia è prodotto dall’amico d’infanzia/tormentatore di Asher, Dougie (Safdie), un vero adepto del caos, sia nella sua vita personale che nella “realtà” che sta creando sullo schermo. Non è chiaro se Dougie sia proprio cattivo o solo un “cattivo” hollywoodiano. Ma è in grado di individuare le crepe nel matrimonio di Asher e Whitney – i tentativi della coppia sessualmente disfunzionale di avere un figlio non fanno che aumentare il dramma – ed è sicuro che gli spettatori di HGTV saranno più interessati a QUEL programma che a una serie sulle pressioni per rendere un’intera città a zero emissioni di carbonio.

Ma perché, vi starete giustamente chiedendo, la serie di Showtime si chiama The Curse, “La maledizione”? Beh, a livello letterale, Asher ha uno sfortunato incontro in un parcheggio con Nala (Dahabo Ahmed) e suo padre Abshir (Barkhad Abdi), che si conclude con la dichiarazione di Nala: “Io ti maledico”. Segue una serie di sfortune. Ma si tratta di una vera e propria maledizione, della manifestazione di un’ansia autoinflitta o solo di un prodotto dei sadici creatori della serie? E a livello metaforico? Siamo abbastanza sicuri che la “maledizione” del titolo possa riferirsi a una dozzina di cose.

In primo luogo, Asher e Whitney sono la maledizione, o forse “noi” siamo la maledizione. La serie è una spietata analisi del vuoto altruismo progressista, della compassione di facciata che si mostra per fare soldi o per cercare l’assoluzione per altri peccati. I genitori di Whitney (Corbin Bernsen e Constance Shulman) sono signori dei bassifondi e lei vuole credere di potersi abbeverare a quella fonte avvelenata e contemporaneamente salvare il mondo.

Asher ha lavorato in passato come parassita in un casinò dei nativi, lotta con problemi di rabbia e ha un pene piccolo, il che non è un “peccato”, ma è sicuramente un fattore scatenante. Tutto ciò che fanno è con il pretesto per guarire il mondo o ispirato al concetto ebraico di tikkun olam, che Whitney non capirebbe perché anche la sua conversione all’ebraismo è di facciata.

La serie è una condanna feroce di un certo tipo di liberalismo a metà, e anche se non ha l’intenzione specifica di fare commenti in stile South Park, del tipo “La gente è fuori di testa da entrambe le parti, ma concentriamoci sull’ipocrisia della sinistra”, c’è molto di questo atteggiamento, specialmente in un episodio in cui la guest star è un noto conservatore di Hollywood, che insegna ai nostri antieroi una preziosa lezione sulla tolleranza.

The Curse, umoristica e sfiancante

The Curse usa i suoi personaggi latini, indigeni e immigrati per ottenere un’autenticità di contrasto, anche se non si riesce bene a capire se sia consapevole che anche questo è un cliché o se lo stia attivamente modificando. In ogni caso, è una serie che tocca tasti sensibili per quanto riguarda le persone la cui versione di fare del bene e di essere tolleranti consiste nel dire al mondo che stanno facendo del bene e sono tolleranti.

La regia di Fielder e Nathan & David Zellner ha lo scopo di amplificare il voyeurismo del genere reality. Osserviamo costantemente l’azione da posizioni precarie in stile “fly-on-the-wall”, guardando attraverso superfici parzialmente opache, sbirciando intorno a oggetti di scena che ostruiscono la visione, captando conversazioni da microfoni lasciati inavvertitamente accesi.

E proprio come ogni reality show in cui in una coppia di conduttori ha una star e un peso morto – sappiamo distinguere perfettamente i fratelli di Fratelli in affari – Stone e Fielder portano avanti con aggressività i rispettivi ruoli. Stone è straordinaria nel catturare la perfezione incrinata di una donna che venderebbe l’anima per diventare la fidanzatina d’America. E se non si è mai sicuri che Fielder stia recitando, è proprio questo il trucco della sua interpretazione, far credere che il disperato bisogno e la vulnerabilità di Asher possano essere accidentalmente rivelati.

È indicativo e intenzionale che molti degli attori di supporto sembrino provenire da un’altra serie. Che si riconoscano o meno questi attori – Abdi, Gary Farmer e Nizhonniya Luxi Austin, di professione pittrice e musicista navajo – i personaggi danno tutti l’impressione di vivere vite reali in cui Asher, Whitney e Dougie sono degli intrusi.

Se anche solo capire cosa stia tentando di fare il team creativo con The Curse sembra estenuante, non è nulla in confronto a guardarne alcuni passaggi. La serie ha affinato l’umiliazione e l’antipatia fino al limite della perversione, e i vari malintesi e le intenzioni discutibili rendono difficile tifare per qualcosa in particolare, se non per l’incenerimento di molte delle nostre illusioni e fantasie culturalmente condivise. The Curse è un luogo visceralmente sgradevole e spesso affascinante in cui trascorrere il tempo. A patto che gli spettatori non fuggano inorriditi di fronte agli aspetti della loro vita che la serie rimanda loro di riflesso.

Traduzione di Nadia Cazzaniga