Mário Lúcio e l’elogio (creolo) della lentezza: “La salvezza? Musica, passione. E tanta pazienza”

Alfiere della musica capoverdiana, considerato uno dei più grandi musicisti al mondo, il cantautore, scrittore e filosofo racconta - prima del concerto di Brindisi - la sua "ricetta" per la felicità: "Donare tempo agli altri è sacrosanto. Ma è fondamentale donare tempo anche a noi stessi. Io dormo quattordici ore".

[jwplayer iADE3GaNtYpjNNxB-bs2OzLAl]

L’incontro è in qualche modo inatteso, nel senso che avevo calcolato di incontrarlo presso la masseria che ci ospiterà. Invece eccolo lì, seduto di fianco all’autista del van venuto a prelevarci all’aeroporto di Brindisi. Tra l’altro, è il posto che normalmente occupo io. Ma sono ben felice di cederglielo. Lui è Mário Lúcio, alfiere della musica capoverdiana, già Ministro della Cultura nel suo paese e acclamato come uno dei più grandi musicisti mondiali.

Per capire di chi stiamo parlando: cantautore, compositore, scrittore e filosofo, Mário Lúcio è una delle figure più riconoscibili della scena culturale e musicale di Capo Verde, sia a livello locale che internazionale. Indubbiamente, uno dei compositori più importanti del Paese di tutti i tempi. A 12 anni suonava già diversi strumenti, componeva e scriveva poesie; a 14 anni era uno dei più grandi musicisti della sua generazione. Membro del parlamento capoverdiano dal 1996 al 2001, Consigliere del Ministro della Cultura (1992) e Consigliere Culturale del Commissario per Expo/92, nonché autore del progetto musicale di Capo Verde per l’Expo di Siviglia nel 1992 e l’Expo di Lisbona nel 1998. È un Ambasciatore Culturale di Capo Verde ed è stato Ministro per la Cultura e le Arti dal 2011 al 2016.

Ci incontriamo in occasione di un suo concerto a Martinafranca, dove avrò l’onore di condividere il palco con lui per tre brani che canteremo insieme, per poi ritrovarci a Roma nel teatro di Officina Pasolini, il Centro di alta formazione e Hub culturale della Regione Lazio che dirigo da nove anni. L’abbraccio è quello accogliente di un mondo pronto a condividere, ad accettare; occhi e sorriso tradiscono una curiosità non invadente, ma in attesa di domande. Che, puntualmente, arrivano.

Tu parli spesso di “creolizzazione”. Che cosa intendi con questo termine?

La creolizzazione è un fenomeno identitario che si è creato nel quindicesimo secolo, con l’arrivo di portoghesi e africani sul territorio di Capo Verde. Va notato che prima di allora Capo Verde non aveva praticamente popolazione. Dunque, per la prima volta nella storia dell’umanità, l’incontro di due culture dà vita a una cultura completamente nuova. Per comprendere meglio che cosa intendo, occorre ricordare che quando i greci arrivarono in Egitto o a Gerusalemme, tutto il mondo divenne greco: da un giorno all’altro fu “voi parlerete tutti il greco”. Alo stesso modo, quando i romani arrivarono in nord Africa – o anche più lontano – tutto il mondo conosciuto divenne romano. Questo perché occorreva coinvolgere il territorio, marcare la presenza.

Quindi, in qualche modo, nel caso di Capo Verde stiamo parlando più di un insediamento ex-novo che di una colonizzazione vera e propria…

Esatto. A Capo Verde chi nasce in quell’epoca non è portoghese né africano: la madre è schiava nera, quindi il nato non è portoghese; ma non è neanche africano, perché il padre è bianco. Questo fenomeno crea quindi una nuova identità, che è la sintesi di entrambe. Je suis comme ça, mais aussi comme ça. La chiamiamo creolizzazione perché ciò che sta nascendo in quel momento è tutto il mondo creolo; non è – sia chiaro – un rifiuto dell’identità, bensì qualcosa che passa attraverso il proprio rapporto con la gente, con la natura, con tutto. Una forma identitaria che si riflette nella musica, nel linguaggio, in tutte le forme d’espressione.

È una forma che, possiamo dire, avete esportato. Secondo ciò che stai dicendo, anch’io potrei definirmi creola…

Chiunque capisca che cos’è la creolizzazione è creolo (ride, ndr). Ci sono creoli italiani, creoli belgi, a Parigi, a Saint Maurice, a Macao…

Qual è l’etimologia della parola “creolo”?

L’etimologia proviene dal portoghese, dal modo di chiamare lo schiavo domestico; “creolo”, colui che è un servo nato in casa, che governa: dalle faccende di casa al bestiame, alle cure. Questa è la radice, dalla quale nacque l’utilizzo attuale – definito dagli spagnoli – ovvero quello per cui la parola “creolo” si applica a chi è nato su un’isola. Se non sei nato sul continente europeo o africano, bensì su un’isola, sei creolo: a Capo Verde, a Cuba, in Giamaica, ai Caraibi, a Granada. Tutte le isole in cui è stata eliminata (testuali parole, ndr) la popolazione indigena sono definite così.

In che modo la lingua creola facilita il dialogo? Mi hai confidato che la consideri la lingua più inclusiva possibile: perché?

Nella storia dell’umanità ci sono stati svariati linguaggi, diverse lingue. Nei secoli ne sono nate e cresciute tantissime. Il creolo è l’ultima lingua nata nella storia dell’umanità.

Non lo sapevo.

È così, ed esistono molte lingue creole: sono basate sul francese, sull’olandese, sul portoghese. Se ci pensi, è un’evoluzione naturale: chi nasce nelle isole non parla africano, perché in Africa esistono 25.000 etnie, ed è difficile quindi comprendersi. Se cerchi una lingua comune, devi parlare portoghese; ma se parli portoghese, il “padrone” comprende quello che stai dicendo.

Quindi mi stai dicendo che nasce come una sorta di codice…

Beh, in qualche modo potremmo definirlo tale. Il lessico di base è portoghese, ma si è creata una lingua a due facce, palesemente più facile, quindi più democratica. Non esiste il “genere”, maschile o femminile. “Jolie” può valere per entrambi i generi. Poi c’è il termine “bonito”, che vale per tutto. Allo stesso tempo, i verbi non hanno coniugazione, e il tempo è definito dall’avverbio: ieri, oggi, domani. Di fatto, è una lingua molto democratica e intelligente.

Sotto questo punto di vista, non sembra essere una lingua adatta a esprimere concetti complessi.

Solo apparentemente, perché in realtà, dal punto di vista della linguistica africana, si è sviluppata contestualmente una notevole capacità parabolica e metaforica. Dunque, parlare creolo offe più sfumature del parlare portoghese: ci sono casi in cui si pensa di avere compreso una frase, ma il senso intrinseco può essere diverso. Per dire – per esempio – che lo stomaco borbotta, si dice che lo stomaco canta: è una lingua piena di metafore, e infatti sono piene di metafore anche le canzoni. Vedi, io scrivo in creolo perché è più semplice; non devo pensare a coniugazioni o altre complessità grammaticali. Tuttavia, il creolo ha suono e modalità d’uso che lo rendono perfetto per scrivere canzoni. Nelle altre lingue la parola è uno strumento di comunicazione sul quale si ragiona, una sorta di punto d’arrivo; in creolo, la parola è semplicemente l’espressione di un sentimento, di un’emozione. Qualcosa che ha a che fare più con suoni e sensazioni, piuttosto che con la semiotica o la grammatica.

Credi che la cultura – tutta, ovvero di qualsiasi parte del mondo – sia l’unica speranza per il nostro futuro? In che modo e in quali forme può migliorare la nostra vita?

Io credo che la nostra speranza non sia nella cultura o altro, penso che la salvezza sia più nell’ignoranza (ride, ndr). Mi spiego meglio: un po’ di speranza che intravedo oggi – io sono un ottimista, devo premetterlo – proviene dai corsi e ricorsi storici. Ciò che attualmente ci circonda ci rende ancora più ignoranti: tablet, pc portatili, televisioni, intelligenza artificiale… tutte cose che ci rendono malati, folli, ansiosi. Dobbiamo tornare indietro, conoscere le piante, ascoltare la gente, vivere il silenzio, sentire i grilli e le cicale, avere riguardo per la vita, per gli altri, perché solo con questo riguardo possiamo vivere meglio, compreso ignorare i cliché, come quello che vuole l’italiano automaticamente associato alla mafia, alla pasta. Invece occorre tornare al buon cuore, al canto, ai sorrisi, alla comprensione reciproca.

Insomma, la semplicità come stile di vita.

Forse anche qualcosa in più. Dobbiamo essere come bambini, che ci danno l’esempio: niente razzismo, xenofobia, differenza. Eccoci alla spiegazione su che cosa intendo per salvezza attraverso l’ignoranza: mi riferisco al tornare alle radici sane dell’umanità, senza rabbie costruite. C’è chi governa il mondo lavorando come un pazzo, accumulando denaro e potere, mentre ci sono bambini che muoiono di fame: non c’è cibo in Africa, ma noi non ci facciamo neanche più caso. La conseguenza? Inevitabile: i soldi creano un cimitero. Al contrario, io credo che con una giusta distribuzione – basterebbe anche poco denaro – si potrebbe risolvere tutto. La speranza, alla fine, credo sia nella pazienza. Perché se si guarda il mondo così come funziona, viene voglia di suicidarsi. 

Ma è importante anche la passione, almeno un po’…

Sì, passione e pazienza.

Tu sei forse l’ambasciatore più autorevole non solo della cultura capoverdiana, ma anche di quel particolare modo di intendere la vita, con un ritmo che sembra non tenere conto della frenesia che circonda il mondo occidentale. Trovi sia possibile applicare questa modo di vivere anche fuori da Capo Verde?

Se parliamo – per esempio – dell’Europa, credo che un po’ di speranza ci sia. Vogliamo per un attimo giocare, immaginando? Ti svegli alla mattina e resti lì, per una ventina di minuti, tranquilla (mima uno sbadiglio, ndr) a ripensare ai tuoi sogni. Poi ti alzi, innaffi le piante, dai da mangiare al gatto, al cane, parli un po’ con la tua famiglia “Come va? Dormito bene?”, ringrazi la tua casa, esci, fai le cose che devi fare, e dici “grazie”, perché puoi vedere il sole un altro giorno ancora, poi prepari qualcosa da mangiare. Beh, in questo caso non hai bisogno di meditare, perché ti basta vivere una vita normale. Dopodiché mangi, e devi mangiare gustando, non devi semplicemente ingoiare. Quindi ringrazi per ciò che stai mangiando, e ti rendi conto di essere miliardario, perché c’è chi non ha niente di tutto questo: il bell’hotel in cui ora stai dormendo, l’aereo che prendi… bisogna ringraziare le migliaia di persone che lavorano tutti i giorni per noi e che permettono tutto questo. Ma poi a un certo punto accendi il telefono, e tatatata (mille notifiche, ndr): passiamo giorno e notte a lavorare inseguiti da mille cose da fare. Esiste una morale in tutto questo? Credo di sì, ovvero: noi siamo ricchi se doniamo del tempo a noi stessi. Molti pensano che la cosa più giusta sia il donare tempo agli altri – ed è sacrosanto – ma è fondamentale donare tempo a noi stessi. Io dormo quattordici ore.

(Quasi svengo) quattordici ore?

Sì, quattordici ore (sorride, ndr). Ai giornalisti che mi chiedono a che ora scrivo o leggo, rispondo che faccio tutto al risveglio: riesco a leggere, a scrivere libri e canzoni (ho più di 400 brani al mio attivo), a viaggiare in tutto il mondo, a registrare… e riesco anche a godermi un bicchiere di vino, perché dono del tempo a me.

Una perfetta sintesi della vostra filosofia.

Sono tutti cadeau. Per me, per te, per tutti noi.