Cannes 77: il Rotary del cinema internazionale si “nasconde” sempre dietro i soliti noti

Bello, bellissimo, praticamente già visto. Come ogni anno il Festival di Cannes si annuncia con compiaciuta prosopopea, tutti si emozionano per i grandi autori invitati, sembra il gran gala del Rotary della tua città. Imperdibile, sfarzoso, con grandi nomi tra i soci. Poi a metà serata muori dalla noia. Perché i commensali da anni sono sempre gli stessi, perché il padrone di casa ti propone sempre lo stesso menù, con poche variazioni sul tema

Cannes 2024, Cannes 77, che programma meraviglioso! Tutti eccitati, preparano già la valigia: gli addetti ai lavori sono entusiasti di questo elenco di film e autori così rassicurante, da Coppola a Lanthimos, da Sorrentino a George Miller, da Audiard a Cronenberg. C’è chi, come Alessandro De Simone, già ha scommesso sul palmares. E a naso non sbaglierà, ha promesso di svelare la sua puntata il 25 maggio 2024, in tarda serata.

Cannes 77, Cannes 2024, arriviamo. Anche se, aspettiamo un momento, questi nomi in fondo non li abbiamo già letti, a volte proprio in quest’ordine, già tante volte? Sì. E se andate un po’ oziosamente a spulciare l’elenco completo degli autori selezionati, a Cannes ci sono andati quasi tutti molto spesso. Alcuni sono arrivati a due cifre, contando le presenze anche in sezioni collaterali. Intendiamoci, in questo senso non è neanche l’edizione più sfacciata, ce ne fu una in cui il 70% dei presenti in concorso ci era andato già almeno cinque volte, il 30 più di 10.

E allora? Allora complimenti, perché Cannes rimane il Rotary del cinema internazionale, quel circolo canottieri esclusivo dove tutti ambiscono a diventare soci perché piace alla gente che piace, si incontrano le persone giuste (qui Sorrentino conquistò Sean Penn per This Must Be The Place), si creano opportunità. E una volta entrato, non ne esci più.

Cannes 77, il programma è come il menu sempre uguale di una cena di gala

Come nelle cene di questo club esclusivo divenuto proverbiale nel nome, tanto da diventare sinonimo di un modo di fare, pensare, creare relazioni, però, alla lunga ci si annoia. Stesso menù, stessa gente al tavolo, stessi discorsi.

Può essere rassicurante e persino auspicabile, tutto questo, per una cena di gala. Ma qui parliamo di un festival, che di sperimentazione e allargamento di vedute, di superamento di confini di genere e generazioni, geografici e artistici, dovrebbe fare una bandiera. Di un festival, peraltro, che fa del suo stesso brand una forza che gli consentirebbe ogni provocazione intellettuale.

Niente da fare, si va sul sicuro. Perché chi ha poca memoria storica e si fa sedurre dal futuribile Montée des Marches – il red carpet cinematografico più ambito e famoso al mondo – già ha l’acquolina in bocca, perché Cannes è Cannes, come Sanremo (anche se Amadeus ha più coraggio nell’innovare). E perché in quel luogo che tanto assomiglia all’India delle caste, in cui i colori degli accrediti ti diranno se sei un parìa o un bramino, e per ottenerlo devi venerare il tempio e i suoi sacerdoti, il Palais con tutti i suoi dirigenti che non si misurano in competenza ma in antipatia.

E in un sistema così, criticare il Festival equivale a non avere il bollino che ti apre tutte le porte, a vivere l’onta del giallo come colore della fila eterna sotto tutte le intemperie per vedere da lontano in sala Debussy l’ennesimo mancato capolavoro di un cattivo, anzi mediocre maestro.

Paga, di sicuro, una direzione artistica che sta per compiere le nozze d’argento con il festival e che dopo i primi anni di innovazioni (apertura al mainstream, all’animazione, a molte cinematografie un tempo tabù, ai grandi studios hollywoodiani spesso snobbati) si è compiaciuta di sé, come Thierry Frèmaux ha fatto con il suo personaggio, folletto carismatico e istrione che spesso ruba la scena persino ai divi che ha invitato.

Grandi maestri e amici degli amici

Loro, in fondo, non se la prendono. Anzi, di quel padrone di casa geloso e affettuoso sono diventati ormai sodali, sanno, come Francis Ford Coppola, che i migliori di loro saranno selezionati a scatola chiusa. E lui, va detto, non è certo accecato solo dal nome, ma anche dalla vanità di sue scoperte o di un cinema indipendente a lui gradito: pensate ad Andrea Arnold, sempre fedele al concorso cannense.

Sa essere riconoscente Thierry e loro con lui: pensiamo alla Palma d’oro alla carriera George Lucas, che qui ha contribuito a portare Guerre Stellari e Indiana Jones negli ultimi anni, o a Coppola, che dalla Costa Azzurra si portò via la Palma d’Oro con il capolavoro La conversazione ma che da qui, sia pure alla Quinzaine, ha fatto passare anche l’improbabile Tetro.

Megalopolis è l’ennesima scommessa col destino del regista – e con un possibile fallimento economico (anche se i 100 milioni di dollari messi di tasca propria questa volta vengono da un mezzo miliardo circa di plusvalenze fatte con le cessioni di gran parte delle sue vigne e uliveti) – e l’arrivo a Cannes un paracadute che gli impedirà di precipitare (troppo) rovinosamente.

Fremaux è ormai un cuoco abitudinario, abituato agli stessi ingredienti, le poche variazioni sul tema nella cucina dei suoi piatti o nella scelta dei vari componenti delle sue ricette spesso sono frutto del consiglio dei fedelissimi o dell’apertura al club degli amici degli amici.

Quegli esordi già visti

L’esordio di Ariane Labed, attrice piena di talento e impegno e impeto civile, September Says, trova spazio nella sezione Un certain Regard (dove c’è anche il nostro Roberto Minervini, ovviamente anche lui tornato dopo precedenti esperienze) anche per essere stata la musa di Yorgos Lanthimos (un fedelissimo di Cannes di seconda generazione, essendo stato in passato scelto da Venezia e quest’anno tornato in laguna, ma che con il passaggio in giuria, necessario per entrare nel pantheon di Fremaux, è ormai socio del club della Palma d’Oro), di Guy Maddin (qui con Rumours fuori concorso, vogliamo Rolando Ravello star del red carpet) e Joanna Hogg. Che sì è più incline ad andare alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica ma che è stata compagna di classe di Lady Diana Spencer e Tilda Swinton. Il che non guasta, per il francese più anglofilo e sensibile ai quarti di nobiltà che c’è.

Insomma, con un po’ di coraggio, quello che alla rassegna francese sembra mancare da parecchio (se non nel fare una guerra anacronistica e radical chic a Netflix), possiamo definire questo programma sfavillante di vecchie e nuove glorie, deludente. Perché se Alberto Barbera dall’alto dei suoi “soli” 12 anni di direzione proponesse sempre la stessa line-up, lo massacreremmo. Se non si prendesse rischi, idem.

L’agenda di Thierry

E allora possiamo invidiare di sicuro l’agenda di Thierry Frémaux, non all’altezza di quella di Gianni Minà, ma comunque notevole, ma non un programma che gioca in difesa, sperando nel contropiede rispetto a una Venezia che va sempre più a gonfie vele. In fondo siamo in un’epoca di influencer e hashtag e il nome di richiamo può bastare per buttare fumo negli occhi di media e addetti ai lavori più superficiali, ma alla lunga mostra la corda.

Cannes non può e non deve essere solo il suo Mercato, quel piano sotterraneo che propone titoli improbabili e le uscite più importanti dei prossimi mesi, non basta che la sua selezione ufficiale sia la vetrina mainstream delle cinematografie più importanti o il luogo in cui trovare i maestri più famosi, che fanno credere esperto chi almeno li ha sentiti nominare.

Cannes è rivoluzione. O meglio, era.