“Temo sarò da sola. Questa cosa mi mette in un grande sconforto perché non amo molto parlare né di me né di quello che faccio”. Scoppia a ridere Daria D’Antonio quando THR Roma le domanda come sarà organizzata la masterclass che la vedrà protagonista l’8 giugno alle Giornate della Luce, decima edizione del festival che celebra i direttori della fotografia.
“Però per me le Giornate della Luce sono un’occasione molto interessante, soprattutto per il confronto con chi vuole fare questo mestiere. È una cosa che mi entusiasma, Il confronto con i giovani è la cosa che mi stimola di più, mi incuriosisce. E lascia andare anche la mia forma di timidezza e ritrosia che ho a parlare di me”, aggiunge D’Antonio fresca vincitrice del Prix CST de l’Artiste Technicienne a Cannes 77 per Parthenope di Paolo Sorrentino.
Una carriera iniziata da giovanissima come operatrice di camera sotto la guida di Luca Bigazzi prima esordire, nel 2007, con Il passaggio della linea di Pietro Marcello come direttrice della fotografia. Da lì un percorso diviso tra grande e piccolo schermo, tra Ricordi? di Valerio Mieli e Il miracolo di Niccolò Ammaniti fino alla più recente Supersex e il bis con Sorrentino dopo È stata la mano di Dio.
Ha già immaginato come imposterà la masterclass?
Quando posso collaboro con il Centro Sperimentale e, da qualche anno, faccio un progetto di mentoring con l’Accademia del cinema italiano e Netflix per formare delle giovani direttrici della fotografia. Mi sono detta forse può essere interessante parlare di come ci si approccia a una sceneggiatura, come la si legge, come si cerca di entrare in empatia con il regista e con gli altri collaboratori, quali sono le ricerche che uno fa per documentarsi. Insomma più che una masterclass mi piace chiamarla una masterchat (ride, ndr), una discussione informale sull’esperienza e sull’approccio che ho rispetto al lavoro. Credo sia anche più stimolante e divertente per loro. Forse in quella fase in cui sono molto giovani un po’ si avviliscono all’inizio quando non sai come affrontare la preparazione di un lavoro. Mi sembrava una cosa interessante da condividere
E lei come ha imparato a leggere una sceneggiatura?
Prima di tutto la leggo, poi me la faccio raccontare. Nel senso che per me è importante avere un confronto dialettico con i registi. A volte raccontandomela escono fuori degli aspetti che nello scritto magari sono soltanto accennati e prendono forma. La leggo come leggo i romanzi, cercando di immaginarmi delle atmosfere e delle situazioni che poi ridiscuti quando le location ti mettono di fronte a delle scelte di ordine pratico un po’ diverse.
Diciamo che più che leggerla, l’ascolto. Sembra una strana cosa però cerco di mettermi in ascolto delle emotività, di quello che è lo scopo principale della narrazione del regista, di chi l’ha scritta e pensata. E quindi lo sforzo che devi fare – e che ogni volta è sempre diverso – è cercare di entrare nella visione comune che non è per forza identica. Anzi spesso è contraddittoria. Però cerco di avvicinarmi al suo modo di sentire e di immaginare le cose.
Com’è andata a Cannes 77? Ha anche vinto un premio importante.
Incredibile! C’ero già stata con Marcel di Jasmine Trinca. Ma con l’emozione dello schermo e la proiezione del concorso c’era un’ansia diversa. Sono stata felicissima anche con il controllo della proiezione. Te ne fanno fare uno il giorno prima e quando ho visto le immagini enormi nella sala gigante da un lato avevo l’adrenalina ma dall’altro lo sconforto. “Adesso scappo prendendo il primo aereo e me ne torno a casa, non so se reggo”.
C’è una cosa che a me mi accompagna da sempre: amo tantissimo il lavoro che faccio, ad ogni progetto ho un legame affettivo particolare, però ho un’ansia mostruosa a rivedere i film. Non so da che cosa dipenda. Amo l’esperienza della sala, per me è irrinunciabile da spettatrice. Ma quando mi riguarda vado in un panico totale. E quella proiezione a Cannes è stata il trionfo del panico (ride, ndr).
Perché è autocritica o perché soffre della sindrome dell’impostore?
Sono svariate turbe che convergono tutte insieme. Mi viene una difficoltà a stare ferma, una voglia irrefrenabile di scappare. Dovrei parlare con uno specialista (ride, ndr). Mi do delle risposte, però non sono esaustive. Lo faccio perché mi fa piacere condividere l’esperienza con la troupe, i registi e gli attori. Ma soffro. Poi a Cannes mi sono rilassata, ho stretto la mano a mio marito che mi stava a fianco mentre agitavo i piedi e mi davo dei pizzichi. Parthenope è un altro film a cui sono molto legata, quindi a un certo punto mi sono abbandonata alla visione e ho dimenticato. Come succede sempre.
Ha detto che i film se li fa raccontare dai registi. Per Parthenope cosa le ha raccontato Paolo Sorrentino?
Lì c’è un altro tipo di comunicazione che a volte non avviene attraverso le parole perché tutti e due non siamo dei grandissimi chiacchieroni. Però c’è una vicinanza, ci comprendiamo. Quando leggo cerco di capire immediatamente cosa lo spinge a volere raccontare una storia. O almeno mi sforzo. Comunichiamo a un livello molto diverso, perché ci sono tanti anni di conoscenza. Quindi lui magari non me lo racconta, ma per come scrive le cose penso di capire cosa vuole.
Sia È stata la mano di Dio che Parthenope sono ambientati a Napoli. Crede che la città abbia più luci?
Assolutamente. Per me Napoli è una città molto complessa, non soltanto nel senso di problematica. Ma complessa perché sfaccettata, stratificata, trasversale, piena di suggestioni, di contraddizioni. Per cui non può averne una unica. Però è anche difficile cercare una luce reale. Per me lo sforzo in Parthenope, ancora più che in È stata la mano di Dio, è stato di cercare la poesia del racconto, non la realtà. Cercare non di essere aderente a qualche cosa che conosco o mi ricordo. Anche il film, come Napoli e la protagonista, è sfaccettato e pieno di mistero. Ogni ambiente per me era trattato un po’ a se stante, perché in ogni posto è come se accadesse qualcosa che è più legato al sentimento, a come lei vive. E quindi, inevitabilmente, c’era più di una luce, perché c’è più di una città e più di un sentimento di questa donna, che è la città stessa.
Qual è il suo rapporto con la città?
Sono andata via dodici anni fa con grande dispiacere. Non lo avrei fatto se fosse stato più semplice fare quello che avrei voluto fare lì. Però andarsene e poi ritornare ti aiuta anche a raccogliere delle cose che quando sei troppo in un posto magari non riconosci. Ho un grande desiderio: svegliarmi una mattina senza nessuna memoria di Napoli e riuscire a godere di tutto ciò che vedo con lo stupore di chi non la conosce, arriva e viene travolto.
E invece inevitabilmente se ci sei cresciuto e la conosci, la vivi in un modo diverso. È un tentativo che faccio ogni volta che vado a Napoli. Non dare per scontato quello che so. Però la possibilità che mi dà il mio lavoro è un po’ anche quella di reinventare o appoggiarsi a qualcosa che sai, a qualcosa che è tuo perché lo hai interiorizzato, ma lo trasformi. In Parthenope quindi ancora di più non c’era una ricerca di aderire per forza a qualcosa di conosciuto, ma di esplorare insieme al mistero del film anche quello che per me è il mistero di Napoli.
Ci sono registi riconoscibili con una sola inquadratura. È qualcosa a cui aspira? O vorrebbe essere “invisibile” per poter essere sempre diversa?
La seconda che dice, perché vuol dire che in qualche modo sarei riuscita a comprendere quello che faccio senza mettermici troppo. Inevitabilmente dentro c’è quello che sono, come mi comporto nelle situazioni e quello che penso. Però mi piace ogni volta rimetterlo in discussione perché credo sia anche positivo per il racconto. Come se volessi ogni volta dimenticare delle cose per lasciarmi andare, perché per me la cosa fondamentale è il rispetto del racconto. Capisco e rispetto chi dice di avere uno stile. Però quello che mi interessa di più rispetto ad avere uno stile è cercare di avere un tipo di attitudine nei confronti delle cose. Non che devi essere diverso a tutti i costi. Però secondo me non puoi che essere diverso se ti cali ogni volta nell’esperienza di un nuovo racconto.
Luca Bigazzi non ha dubbi, dopo aver scoperto il digitale non tornerà più alla pellicola. Lei?
Io sono meno estrema (ride, ndr). Nel senso che mi è pure capitato di farlo perché se c’è un regista che ha desiderio di lavorare in pellicola non sarò certo io a dire di no. Ho delle motivazioni di ordine artistico e pratico per cui non sono d’accordo. Credo che ci si può esprimere attraverso i mezzi. E la pellicola e il digitale sono mezzi attraverso cui poterlo fare. Nessuno è meno nobile dell’altro. È l’uso che si fa del mezzo che è importante.
Le capita mai di non essere d’accordo con un regista?
Certo, succede. Lì ci si confronta, si argomentano le posizioni. Magari una volta sono io che convinco e un’altra vengo convinta. Non bisogna mai mettersi in una forma di ottusità o di resistenza, perché a volte una cosa che ti sembra giusta nel confronto con l’altro si riapre. E questo vale per me come per i registi. L’importante è trovare i momenti giusti e il modo per dirsi le cose.
In un momento storico in cui chiunque può condividere immagini e video, lei come si relaziona a queste tecnologie?
Rispetto alla mia vita non mi piace troppo condividere. Trovo che si faccia un uso un po’ esagerato e che tradisce un grande senso di solitudine. Ho Instagram che ho scoperto da poco grazie a Paolo che mi diceva: “ Guarda che ci sono delle foto bellissime”. Effettivamente ho scoperto fotografi meno conosciuti che si trovano in ogni angolo del mondo. Mi piace guardare le foto, però condivo raramente le mie cose.
Penso ci debba essere un minimo di pudore. Se ho voglia di raccontare una cosa a una persona la chiamo. Proprio perché mi sembra che un po’ si annullano quelle cose semplici dell’incontro e dello scambio, che invece per me devono avvenire di persona. Non voglio fare la reazionaria bacchettona, ma bisogna stare attenti a come si usano certi strumenti e soprattutto non fraintendere quella che è la realtà con quella che è la versione di sé che si vuole dare. Mi spaventa moltissimo, sia per gli altri che per me.
“Smarmella tutto” è diventata una frase che fa parte del linguaggio collettiva grazie a Boris. Lei ha avuto la fortuna di avere un maestro come Luca Bigazzi, ma le è mai capitato di incontrare quell’approssimazione su un set?
Purtroppo sì, ma a più livelli e non soltanto con i direttori della fotografia. Succede.Ci sono persone più motivate e che tendono a fare bene e ci sono persone che magari sono un po’ più superficiali. Per fortuna se faccio la media ho conosciuto molte più persone dedite e attente che cialtrone.
Tra gli Oscar che qualche anno fa hanno premiato off the camera le maestranze e i David di quest’anno che involontariamente hanno creato un piccolo caso, crede però che ci sia maggiore consapevolezza da parte del pubblico del lavoro collettivo che c’è dietro un film?
Quella dei David secondo me è stata una leggerezza organizzativa. Non mi sento di dire che ci sia stata una disattenzione studiata. E sì, un film è un’opera collettiva. La cosa più bella di fare cinema è il fatto che ti senti meno solo. Penso che adesso ci sia più coscienza da parte di chi guarda. C’è anche più informazione, si conosce meglio quali sono i mestieri. Poi è ovvio che un film è trainato da un nome, che può essere un regista o un attore. Ma credo che chi ama veramente il cinema si informi. Sicuramente c’è da fare, spiegare e raccontare il proprio mestiere, però penso sia anche normale. Forse si dovrebbe fare nelle scuole. Bisognerebbe educare i giovani ad andare al cinema a vedere il racconto per immagini.
Ci sono fotografi e pittori che la ispirano a prescindere dalla preparazione di un film?
Ce ne sono molti di cui guardo continuamente le foto. Prokudin-Gorskij, René Burri, Raymond Depardon, Ansel Adams, Bill Brandt, Fred Herzog, Erwin Blumenfeld. I fotografi di moda che per me sono stati dei precursori rivoluzionari, Poi certamente i pittori, anche i più contemporanei. Mi nutro di immagini, poi mi dimentico. Questi nomi glieli sto dicendo perché mi sono messa davanti alla libreria perché sennò di solito non ricordo un nome o un titolo (ride, ndr). Però sicuramente c’è qualcosa che dentro di me rimane.
Sta lavorando a nuovi progetti?
Uno è ancora po’ top secret. Un film italiano che dovrò fare il prossimo inverno con un regista di opera lirica al suo esordio. È un progetto molto interessante. E poi un documentario con Francesca Archibugi. A breve lavorerò anche al secondo cortometraggio di un giovane regista.
Le piace lavorare con chi si sta affacciando al mestiere?
Moltissimo. Ho fatto L’infinito di Umberto Contarello che è un esordiente di 65 anni. È stata una bellissima esperienza. Mi piace tantissimo, soprattutto lavorare con persone che vengono da esperienze diverse e che si misurano per la prima volta con questo mezzo espressivo.
Che cos’è per lei la luce?
È tante cose. È difficile perché non c’è una definizione che possa racchiuderla veramente. È tutto. È la possibilità di felicità, di una cosa bellissima, ma anche tremenda. La luce è un mistero.
La luce più bella che ha visto nella sua vita?
Recentemente sono stata in Costa Rica e abbiamo dormito per un caso fortuito in una casa meravigliosa, fatta solo di legno e zanzariere. E lì ho visto il tramonto più bello della mia vita.
Nonostante gli smartphone è ancora impossibile riuscire a catturare l’essenza e i colori di certi momenti.
Per quello dico mistero. È una cosa veramente personale, impalpabile, indescrivibile, ineffabile.
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