Mona Achache, Little Girl Blue e le difficili vie dell’amore: “Per l’abbraccio con mia madre che non ho mai avuto”

La regista racconta il suo film basato sulla vita di Carole Achache, scrittrice morta suicida nel 2016, interpretata magistralmente da Marion Cotillard. "All'inizio non volevo farlo. Ma poi è venuta a galla la consapevolezza del dolore che aveva provato per non aver avuto un riconoscimento collettivo del suo malessere". In anteprima al festival Rendez-Vous. L'intervista di THR Roma

Édouard Levé, nel 2015, scrisse in Suicidio, un breve libro testamento, che quell’atto estremo altro non è che un cumulo di possibilità. Quelle mancate. Ipotesi di storie e vite mai vissute. Il primo marzo nel 2016 nella sua casa di Parigi Carole Achache, scrittrice, fotografa e attrice francese, si impicca. Sua figlia Mona Achache, regista de Il riccio, sette anni dopo quel gesto definitivo ha realizzato un film, Little Girl Blue – prossimamente in sala con Movies Inspired – in cui, grazie al potere e alla magia del cinema, la riporta in vita per svelare l’enigma della sua vita e della sua morte. Lo fa grazie alla potente e sbalorditiva interpretazione di Marion Cotillard che, letteralmente, si trasforma sotto i nostri occhi.

“Quando è morta non l’ho più amata. Non mi piaceva. Non c’era più amore, c’era troppo dolore. Il film dice perché era così dura, ma non quanto lo fosse. E poi quando ho aperto le scatole, ho trovato le foto di lei nuda, giovane, solare, luminosa, sono rimasta scioccata dalla bellezza di questa donna”, racconta a THR Roma la regista, cascata di ricci, delicati tatuaggi marocchini su mani e braccia e matita nera ad esaltare i suoi occhi, quando la incontriamo in un albergo vicino via Veneto.

Presentato nel corso della XIV edizione dei Rendez-Vous, il festival dedicato al cinema francese, il film – presentato a Cannes 76 e nominato a tre César – prende vita grazie a degli scatoloni lasciati da Carole colmi di scatti, diari e registrazioni audio. Tracce da seguire per ricostruire i frammenti di un’esistenza segnata da un profondo dolore legato all’abuso subito da bambina dallo scrittore Jean Genet senza che sua madre fosse in grado di reagire. Una storia profondamente intima, lacerante quando registicamente impeccabile.

Marion Cotillard in una scena di Little Girl Blue di Mona Achache. Courtesy on Movies Inspired

Mona Achache e Marion Cotillard in una scena di Little Girl Blue. Courtesy on Movies Inspired

“Essere capita dopo la mia morte”. Una frase che ha trovato scritta da sua madre dopo il suo suicidio in uno dei tanti scatoloni. Crede che tutto quel materiale lo abbia lasciato lì per lei?

Era come un’ingiunzione a fare qualcosa. All’inizio non lo volevo affatto, avevo l’impressione che sarei caduta in meccanismo maledetto, come diceva lei stessa. Aveva scritto di sua madre. E a sua volta, anche mia nonna aveva scritto della sua. Volevo impedirmi di farlo anch’io. Avevo l’impressione che fosse una trappola mortale. Ma c’era questa frase che mi è rimasta impressa in tutta quella massa di archivi. E poco a poco, finalmente, portando avanti la mia indagine intima – prima ancora di sapere che avrei fatto un film sull’argomento – è venuta a galla la consapevolezza del dolore che aveva provato mia madre per non aver avuto un riconoscimento collettivo del suo malessere.

Morì un anno e mezzo prima del Me Too. Aveva scritto un libro che raccontava ciò che viene raccontato nel film, e nessuno si era accorto della dimensione abusiva di ciò che descriveva. Ho scoperto nei suoi audio che avrebbe voluto rendere il suo vissuto parte di una storia collettiva. E soffriva terribilmente di non aver avuto quella risonanza e riconoscimento. Quella frase e quel dolore sono diventati per me un dovere. Dovevo farlo per lei.

Nel suo film parla di “donne maledette” riferendosi a quelle della sua famiglia. Eppure quello che racconta forse rende tutte noi “donne maledette”.

È questo che mi ha imposto il bisogno di capire. Sono cresciuta con l’idea che le donne fossero maledette, perché così mi aveva detto mia madre. Ho tre figli e due sono femmine. Dovevo trasmettere loro qualcosa. E sicuramente non volevo dirgli quello che è stato detto a me. Ma ero persa tra l’idea di una maledizione che rifiutavo e la consapevolezza, tuttavia, che le cose si ripetevano. Mi ci è voluto molto tempo per capire che non si trattava di una maledizione, ma di un condizionamento.

Negli ultimi dieci anni leggere libri e sentire testimonianze di donne che hanno avuto esperienze simili alle mie cugine è stato esaltante, spaventoso e rassicurante. Era come dirmi che non avevo sofferto di una nevrosi familiare, ma di una nevrosi collettiva. E questa idea di gruppo è calmante. Ovviamente dopo le proiezioni ho ricevuto tantissime testimonianze di donne e uomini – anche se devo ammettere con molte più donne – che sono venuti a parlarmi di destini simili a quelli della mia famiglia. Anche questo mi ha commosso molto.

Marion Cotillard in una scena di Little Girl Blue di Mona Achache

Marion Cotillard in una scena di Little Girl Blue di Mona Achache. Courtesy on Movies Inspired

Per tre generazioni, da sua nonna a lei, in famiglia vi siete ritrovare a scrivere delle vostre madri. Se mai dovesse accadere che una delle sua figlie decidesse di scrivere di lei, spera che ora il racconto sarebbe più luminoso rispetto alle storie che l’hanno preceduta?

In realtà è già successo. Ho avuto mia figlia maggiore molto giovane, a 20 anni. Ora lei ne ha 22 ed è una cantante. Suo padre non era molto presente, e l’ho cresciuta mentre ero molto piccola e molto sola. Ha scritto una canzone che si chiama proprio Vingt ans e contiene una dichiarazione d’amore molto gioiosa che parla anche di rivolta contro questa figura assente. Nel mio piano di costruzione familiare c’era la presenza di un uomo fallito. Ma ecco, mia figlia ne ha ricavato una magnifica canzone (ride, ndr).

C’è una sequenza nel film in cui Marion Cotillard si trasforma davanti ai suoi occhi in sua madre. Com’è stato rivederla prendere vita?

Per quanto strano sia, ho scritto quella sequenza molto velocemente. È successo quando ho avuto questa impossibile fantasia di vita, di riportare indietro mia madre, che – a sua volta – si è trasformata in una fantasia cinematografica. Ho immaginato, che sarebbe stata un’attrice davvero grande a interpretarla e che contraddicesse l’oscurità di Carole. Le ho dato vestiti, gioielli e tutto quello che potevo perché potesse trasformarsi. Quando ci siamo incontrate con Marion le ho chiesto di farlo poco prima delle riprese. Ci siamo viste due o tre volte, affinché il film che dovevamo girare potesse davvero essere in ordine cronologico. È stato molto intenso e credo sia riuscito a catturare il momento in cui è arrivata. È stato davvero come un punto d’incontro tra noi.

È un momento doloroso. Ma anche commovente.

La cosa bella è che tutto è stato costruito in quel momento. Marion aveva visto il set. Abbiamo fatto un primo ciak ed era molto affettuosa, spontanea, calda. Tutto il suo corpo mi diceva quanto volesse aiutarmi. Mi sono fermata e le ho detto che doveva essere molto più fredda e intimidatoria perché c’era qualcosa di solenne in quello che stavamo passando. “Sono sei anni che dibatto nella mia solitudine con questo dolore, con questa storia”. Quando abbiamo ricominciato le ho detto di andare a cambiarsi un po’ più lontano.

Si sarebbe ritrovata nuda e non era obbligata ad essere filmata. In realtà, quando abbiamo girato, Marion è entrata in scena molto fredda e si è spogliata davanti a me. Ero seduta e avevo la sua pancia davanti al mio volto. Questa esposizione, prima che mia madre rinascesse, era così bella. E quando abbiamo chiuso la scena, c’era una forte tensione tra noi.

Marion Cotillard in una scena di Little Girl Blue di Mona Achache. Courtesy on Movies Inspired

Marion Cotillard in una scena di Little Girl Blue di Mona Achache. Courtesy on Movies Inspired

Perché?

Mi ha detto che dal momento in cui le avevo chiesto di non essere più se stessa ma di recitare, non aveva più motivo di voltare le spalle alla telecamera. “Un’attrice non deve allontanarsi dalla macchina da presa”. E dopo è stato affascinante vedere la sua trasformazione. Non era solo il travestimento, ma tutto il corpo. Penso al momento che viviamo tutti noi registi. E non solo io perché lei interpretava mia madre. Ma dopo la lunga fantasia di aver scritto un personaggio per così tanto tempo, il momento in cui lo scopriamo incarnato da un attore è una cosa che il cinema spesso non riesce a trasmettere. Anche se penso che sia una delle emozioni più grandi in un film, quando cioè un regista vede finalmente vivo il suo personaggio.

Ha riabbracciato sua madre dopo averla persa. È consapevole di essere riuscita a fare qualcosa di impossibile per chiunque?

Quando è morta non l’ho più amata. Non mi piaceva. Non c’era più amore, c’era troppo dolore. Il film dice perché era così dura, ma non quanto lo fosse. Era infinitamente violenta. Impediva l’amore. Devo ammettere che non possiamo controllare le nostre emozioni. Quando è morta ovviamente ero sopraffatta dal dolore, ma anche dalla rabbia e dal rifiuto. E non potevo più vedere questa donna, la violenza che aveva contro il suo stesso corpo che l’ha portata fino al suicidio. Mi era insopportabile. E poi quando ho aperto le scatole, ho trovato le foto di lei nuda, giovane, solare, luminosa. Lì sono rimasta scioccata dalla bellezza di questa donna.

Ma soprattutto mi sono detta: “Cosa è successo nella sua vita per farla peggiorare fino a questo punto?”. E questo amore per lei si è ricollegato man mano che il film andava avanti. Quando abbraccio Marion, in quel momento lei è davvero mia madre. Sul set il macchinista mi ha detto che non era una ripresa, ma una costellazione familiare. Il momento in cui l’anima di qualcuno riabita veramente il corpo. Quell’abbraccio non l’ho mai avuto nella vita reale. Non c’era tenerezza tra me e lei. Il film è stato anche un percorso verso l’amore. Adesso sono piena di quell’abbraccio.