“Il Papa ‘circonciso’, l’Inquisitore e il bambino: così abbiamo ricostruito la storia (vera) di Rapito”

La Roma ebraica, l'irruzione dei militari, l'inganno delle autorità cattoliche, la scomparsa del ragazzino, il "potere divino" di Pio IX: la regista Susanna Nicchiarelli e lo scrittore Edoardo Albinati raccontano il loro lavoro a fianco di Marco Bellocchio, fondato sugli atti del processo Mortara. Un'esclusiva di THR Roma

“Quando Marco Bellocchio mi ha chiesto di scrivere Rapito mi ha dato un soggetto che conteneva già tutto il film, finale compreso. Alla base c’era il libro di Daniele Scalise (Il caso Mortara, Mondadori), ma abbiamo fatto molte altre letture. A partire dall’autobiografia dello stesso Edgardo Mortara, trovata nell’archivio di San Pietro in Vincoli, brulicante di scene incredibili. Come la punizione inflittagli da Papa Pio IX, che costringe il giovane ebreo convertito a segnare con la lingua tre croci sul pavimento. Anche se Mortara vede il pontefice come un salvatore. Una chiave preziosa per avvicinarsi alla complessità del nostro personaggio”.

Dietro la bellezza e la potenza non comuni di Rapito c’è un lungo lavoro di ricerca e scrittura. Che comincia quando Bellocchio decide di scrivere il film con Susanna Nicchiarelli, la regista di Cosmonauta, Nico, Miss Marx, Chiara. Due talenti molto diversi per anagrafe e percorso, che però insieme funzionano a meraviglia. Come raccontano qui la stessa Nicchiarelli e Edoardo Albinati, che con Daniela Ceselli ha collaborato alla revisione finale della sceneggiatura.

“Credo che per Marco fosse divertente lavorare con un’altra regista”, riprende Nicchiarelli. “Per me comunque è stato interessantissimo! La cosa fondamentale era permettere a Bellocchio di fare il ‘suo’ film, capire in che direzione voleva andare, e mi è stato da subito chiaro che era una direzione fortemente personale. Avevamo appena iniziato a scrivere quando ho visto Marx può aspettare, ed è stata una folgorazione. Lì ho capito davvero cosa stavamo facendo. Stavamo raccontando quella storia lì, quel rapporto con la religione, quella religiosità cattolica che ha segnato l’infanzia di Bellocchio, la sua formazione, ed è la stessa che fagocita il piccolo Edgardo”.

Al tempo stesso la sceneggiatura è molto vicina ai fatti accertati.

Certamente. Abbiamo studiato gli atti del processo Mortara, la fonte più ricca e dolorosa. La madre di Edgardo descrive per filo e per segno l’irruzione dei militari, il padre che per poco non butta Edgardo dalla finestra, il bambino che si nasconde sotto la sua gonna, la sofferenza degli stessi militari, terribilmente a disagio per la violenza che dovevano compiere… tutti dettagli veri, confermati dalle testimonianze dei vicini. Anche i Mortara che offrono soldi e chiedono 24 ore in più, poi il padre che torna con i vestiti solo per scoprire che l’Inquisitore lo ha ingannato e il figlio è già scomparso. Vengono in mente le deportazioni, quando gli ebrei si sentivano dire porta i vestiti che partiamo… Negli atti conservati a Bologna c’era tutto. Ma erano scritti a mano, li abbiamo decifrati con l’aiuto di Pina Totaro, specialista conosciuta quando facevo Filosofia alla Normale di Pisa, studiando fra l’altro proprio l’ebraismo.

Susanna Nicchiarelli, regista e sceneggiatrice

Susanna Nicchiarelli, regista e sceneggiatrice – Photo by Stefania D’Alessandro/WireImage

Con un processo meno celebre avreste avuto altrettanta fortuna?

Non so, non credo. Fu il primo processo all’Inquisizione, andò male ma per la prima volta lo Stato laico italiano metteva sul banco degli imputati la Chiesa. Un fatto storico. Anche se Feletti vinse proprio sostenendo che obbediva a leggi vigenti all’epoca dei fatti e non riconosceva quel tribunale. Il dono fondamentale degli archivi comunque sono le emozioni, fortissime e di prima mano. La lettura degli atti risentiva inevitabilmente del mio essere madre. Quando abbiamo iniziato a scrivere la mia figlia più grande aveva l’età di Edgardo. Nei libri di Storia c’è sempre una distanza ma se vai alle fonti l’aspetto sentimentale prevale. La scena del piccolo che torna tra le braccia della madre viene da una lettera, per esempio, ma abbiamo usato anche lettere scambiate tra gli ebrei romani e il padre di Edgardo trasformandole in dialoghi. Come quando Sabatino Scazzocchio (nel film Paolo Calabresi) gli rimprovera di aver fatto troppo clamore intorno a un rapimento che non era così eccezionale all’epoca e poteva risolversi diversamente. La tragedia di Edgardo è che diventa un caso, impugnato dalle forze che attaccavano il papato. Il fatto mediatico si mangia quello umano, il bambino diventa il simbolo di un potere che si sta sgretolando ma che sulla vita del singolo è ancora fortissimo. Di qui l’emotività. Quando ho visto il provino di Barbara Ronchi (la madre di Edgardo) mi sono venute le lacrime agli occhi. Quella scena l’avevo letta, scritta, immaginata, ma in mano agli attori diventava un’altra cosa.

Il bello è che l’emotività non investe solo le vittime, ma l’intero contesto. Sono rimasto incantato dal maresciallo Lucidi di Bruno Cariello, timido, esitante, imbarazzato, pochi minuti ma memorabili.

Anche l’Inquisitore Feletti di Fabrizio Gifuni è sorprendente. È chiaro che la Chiesa ha tutte le colpe, col suo potere terrificante che in nome di un principio religioso, dunque assoluto, attacca la libertà dell’individuo. Ma era proprio il principio assoluto a colpire Bellocchio. Puoi disporre di un individuo in nome del fatto che è già votato all’aldilà, è un’anima di Cristo. Le biografie di Pio IX, a partire dallo scontro con la comunità ebraica, parlano chiaro. La Chiesa è convinta di essere nel giusto, la loro buona fede è affascinante. Il Papa pensava di avere un potere divino al quale non poteva rinunciare senza perdere tutto. Di qui la famosa battuta del cardinal Antonelli, fondamentale per Bellocchio, che dice proprio questo: perderemo tutto.

Qua e là l’immaginazione avrà prevalso. Penso ai bambini nella Casa dei Catecumeni.

Certamente, ma sempre restando fedeli, non abbiamo inventato poi tanto. Oddio, l’idea del bambino malato è nostra, questo bambino sofferente che poi muore è un’immagine di Bellocchio.

E l’incubo di Pio IX? Il Papa circonciso… sembra quasi Woody Allen!

Quello viene dalla stampa internazionale. L’immagine della circoncisione in particolare fu usata in uno spettacolo di cabaret in America, a Boston. Ed è blasfema ma anche buffa, intrigante, lo faceva molto ridere. Del resto un regista lavora sempre su immagini, anche la madre che accarezza il bambino nella bara, continuava a dire che dovevamo metterla. I registi procedono per ossessioni, e il bello era entrare nel suo mondo.

Le testimonianze di Elena Mortara, studiosa e pronipote di Edgardo, sono state importanti?

Sì, l’abbiamo incontrata più volte, come molti altri. Il direttore del Meis di Ferrara (Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah, ndr), Amedeo Spagnoletto, lo chiamavamo di continuo dal set per verificare un gesto, un dettaglio. Era un mondo tutto da esplorare. Quello cattolico Marco lo conosceva benissimo, poteva quasi attingere a suoi ricordi personali. Ma per il mondo ebraico dovevamo stare attenti a tutto. Era difficile ricostruire la vita quotidiana di una famiglia di commercianti medio borghese, attaccata alla religione più che altro per senso identitario, perché i Mortara non erano così osservanti, i figli non portavano nemmeno nomi ebraici. Erano ebrei assimilati, con tanto di domestica cattolica, così poteva lavorare di shabbath, una gran comodità. Quella legata all’ebraismo era la madre, del resto l’ebraismo è matrilineare. Poi c’era il problema delle lingue. Nel film si sente il giudaico emiliano, una contaminazione di termini ebraici, dialetto emiliano e anche yiddish perché gli ebrei dell’Emilia Romagna erano ashkenaziti. Così come c’è il giudaico-romanesco. L’incrocio di tutte queste lingue era una delle cose più interessanti, sono identità diverse che poi l’unità d’Italia ha in certa misura smussato.

Rapito riempie anche un’enorme falla del nostro immaginario, non solo cinematografico. Non sono davvero in molti ad aver raccontato il mondo ebraico nell’Ottocento.

Beh, io ho un grande amore per Luigi Magni, ne L’anno del Signore la Cardinale la sera deve tornare nel ghetto, qualcosa nei film di Magni c’è, ma non molto altro. Quanto alla letteratura… Il rabbino capo di Bologna ci ha spiegato che la loro era una comunità minuscola, prima cacciati dalla città e poi tornati, ma già allora non esisteva più un quartiere ebraico, erano italiani come gli altri, del tutto assimilati. Non c’erano segni forti, come nelle comunità ebraiche dell’Europa centrale. Lo stesso Pio IX nel 1848 fa abbattere le mura del Ghetto di Roma. Per questo nel film dice a Scazzocchio attenti che vi rimando nel buco…

Tra le cose più belle del film c’è proprio la capacità di tenere la grande Storia sullo sfondo. Tutto passa attraverso il corpo di questo bambino che deve crescere, fondendo la dimensione politica a quella esistenziale.

Era un equilibrio difficile. Lo spettatore sta col bambino, con la mamma, con la famiglia, magari anche col Papa, ma insomma sta con gli esseri umani coinvolti, non era il caso di fare grandi riflessioni. La Storia passa attraverso gli individui, è una cosa a cui credo sempre di più, e nella misura in cui passa attraverso le vite delle persone riesce a emozionarci e magari a insegnarci qualcosa.

Anche Pio IX è un personaggio pieno di luci e ombre, non un mostro.

Ma certo: per il Papa è tutta una questione di principio, è questa la follia. Non era interessante farne semplicemente un cattivo, le cose sono interessanti in quanto complesse. Credo che Pio IX fosse convinto di salvare davvero l’anima di questo bambino, a noi questa cosa fa orrore, ma fa parte della Storia.

Non gli salverà l’anima, però l’anima se la prende. La seconda parte del film racconta che la conversione riesce, sia pure in forma malata. Lo provano gli scatti improvvisi di violenza di Edgardo. Realtà o fantasia?

La scena in cui butta a terra il Papa è nella sua autobiografia, lo racconta con grande pentimento, non capisce cosa gli è preso. Per noi oggi è chiaro che Edgardo soffre di una vera e propria nevrosi. Era dissociato, dentro di sé c’era ancora il bambino portato via a forza. Infatti sarà sempre molto sofferente, anche fisicamente. L’episodio in cui si unisce alla folla che vuole gettare nel Tevere la bara di Pio IX invece è un’invenzione, innestata su una vera rivolta popolare. Abbiamo immaginato ci fosse anche lui, preso all’improvviso da questa follia.

Mai pensato, anche un momento, di usare una vicenda così ricca di spunti per una miniserie?

No, e credo neanche Marco, è sempre stato un film.

Niente rinunce a malincuore, per durata o costo?

Il montaggio è sempre una riscrittura, ma non ho rimpianti, il fuoco del film era molto chiaro. La Storia entra per rapidi quadri, i bersaglieri che aspettano, le mura che crollano… bastava questo, il cuore del film era altrove. Ogni volta che ti ispiri a eventi reali scegli, vorresti dire tutto ma segui l’istinto del regista. Scegli quello che più ti emoziona. Andando incontro alle ragioni di Bellocchio, che erano anche molto personali.

Qualcosa insomma al montaggio è stato sacrificato, ma questo succede sempre, figuriamoci per un film così importante, anche produttivamente. I problemi veri erano di natura più sottile, come emerge dai ricordi di Edoardo Albinati (lo scrittore de La scuola cattolica e di molto altro), che con Daniela Ceselli, collaboratrice di lunga data di Bellocchio, ha curato la revisione finale dello script.

“La struttura del film era solidissima, ci voleva solo un po’ di editing, come succede per un romanzo”, dice Albinati. “Bisognava limare, asciugare, concentrare”. E mettere a fuoco alcuni possibili trabocchetti, derivanti anche dalla sovrabbondanza delle fonti.

Lo scrittore Edoardo Albinati

Lo scrittore Edoardo Albinati – Courtesy of Simone Padovani/Awakening/Getty Image 

“Il processo all’Inquisitore Feletti era sovraccarico, abbiamo discusso a lungo su quali testimonianze includere e a quali dare più peso, in particolare per quanto riguarda Anna Morisi, la serva che battezza il bambino di nascosto. Dovevamo far vedere il battesimo o no? Abbiamo deciso di sì, ma questo poteva significare darlo per vero, mentre noi volevamo restare ambigui perché non c’è nessuna prova al riguardo. La Morisi è l’unica a testimoniare, ma tutti la sconfessano e lei stessa ammette di aver preso dei soldi per battezzare il piccolo Edgardo, non si saprà mai da chi né perché. Dunque? Scegliere un’ipotesi piuttosto che un’altra sarebbe stata una forzatura, il battesimo si vede ma potrebbe essere una visualizzazione soggettiva della domestica. Bisogna ricordare che il rapimento Mortara fu solo il più celebre di una lunga serie di casi analoghi avvenuti anche a Roma, spesso risolti con la restituzione del bambino. A noi però interessava il come più che il perché. Nel processo si dice che Edgardo viene battezzato anche a Roma. Quindi non era stato battezzato in precedenza? In questo caso Feletti avrebbe rapito un piccolo ebreo non battezzato. Non lo sapremo mai. Ognuno può dare la sua interpretazione”.

Centrale, ricorda Albinati, era anche la fascinazione esercitata dall’apparato liturgico cattolico sul piccolo Edgardo.

“Personalmente ho molto insistito su questo aspetto. Il fasto del mondo cattolico è imbattibile, nella religione ebraica non ci sono immagini, mentre la componente seduttiva è molto forte nella Chiesa, anche il colonnato del Bernini a San Pietro fa opera di seduzione, sembra dire: venite tutti con me, oltre che la salvezza avrete la bellezza… Il tragitto di Edgardo in barca, dopo il rapimento, e il funerale che scorre sugli argini sopra di lui, non sono negli atti del processo. Ma è lì che il bambino vede per la prima volta il crocefisso e quell’immagine gli si stampa dentro in un misto di curiosità e di pietà. Oggi sento dare molte interpretazioni diverse della scena in cui Edgardo schioda Cristo dalla croce. Per qualcuno è un gesto di identificazione. Per me era un semplice gesto di pietà”.

Del resto, conclude Albinati, come scriveva con sintesi fulminante Belli in un sonetto, “l’Abbrei so più cristiani e cianno più ciarvello”.