I bambini di Gaza, la tragedia di uno scontro per nascita, non per scelta. Parla il regista: “Se l’avessi girato oggi sarebbe stato un altro film”

Già pronto da settembre 2023 e slittato dopo i fatti del 7 ottobre, arriva in sala il 28 marzo con Eagle Pictures. Per Loris Lai è un messaggio di pace, sostenuto anche da Papa Francesco, anche se esposto a ripercussioni simili a quelle ricadute su Jonathan Glazer. L'intervista di THR Roma

Niente di ciò che sta accadendo in Palestina è iniziato dopo il 7 ottobre: lo dimostra anche un film come I bambini di Gaza, di Loris Lai, ambientato nel 2003 durante la seconda Intifada a Gaza City. La data dell’attacco terroristico di Hamas contro Israele, tuttavia, ha reso più delicata ogni discussione sulla tragedia in Medio Oriente. È anche per questo motivo che, nonostante il film fosse già pronto a settembre 2023, arriva nelle sale italiane solo il 28 marzo, con Eagle Pictures.

Al tempo stesso, nulla è cambiato nel messaggio, spiega il regista a THR Roma, né è mutata la speranza che le prossime generazioni siano in grado di porre fine alla tragedia in corso, come augurato anche da Papa Francesco, spettatore speciale del film, in anteprima, poche settimane fa.

Nel suo esordio al lungometraggio, Loris Lai alterna uno sguardo documentaristico, da reportage, a visioni oniriche. Ispirato a una storia vera, già narrata nel libro Sulle onde della libertà di Nicoletta Bortolotti, I bambini di Gaza racconta un’amicizia complessa, quella tra Mahmud (Marwan Hamdan) e Alon (Mikhael Fridel) che, grazie al comune amore per il surf, attraversa e oltrepassa il contesto della guerra, pur non lasciandolo mai in secondo piano.

Da dove nasce il bisogno di raccontare questa storia al suo debutto alla regia?

Nasce tempo fa, circa nel 2013, quando ho letto per la prima volta il libro di Nicoletta Bortolotti. Come regista ho fatto una lunga gavetta nella pubblicità, nella moda e nei video musicali, ma sono rimasto colpito da questa storia che è quasi un archetipo shakespeariano, Montecchi contro Capuleti. Uno scontro per nascita, non per scelta. Mi ha colpito molto anche il legame con il surf, essendo io stesso surfista a Los Angeles, dove vivo da molti anni. Sono sempre stato interessato alla situazione in Medio Oriente, ma da quel momento ho iniziato a fare delle ricerche più approfondite. Volevo soprattutto raccontare le cose attraverso lo sguardo dei bambini, che dà sempre più spazio a livello di racconto. Permette di esplorare il surreale ma anche di guardare tutto con una purezza che gli adulti, più strutturati, non hanno.

Quali sono state le fasi del progetto?

Nel 2014 sono andato a Gaza come fotoreporter del London Times, perché prima ancora di scrivere la sceneggiatura volevo vedere quella realtà con i miei occhi. La conoscevo ovviamente a livello intellettuale, ma stare lì era un’altra cosa. Da lì è poi iniziato il percorso con la co-sceneggiatrice, Dahlia Heyman, e la lunga ricerca dei produttori. Ci sono state diverse difficoltà da questo punto di vista, perché la storia piaceva a tutti ma era anche abbastanza intoccabile. Al di là degli eventi del 7 ottobre, la situazione a Gaza è sempre stata qualcosa di talmente tragico da non essere narrabile. Ci sono stato, ho visto i bombardamenti, ma nessuno voleva affrontarla, soprattutto a Hollywood.

I bambini di Gaza. Regia di Loris Lai

I bambini di Gaza. Regia di Loris Lai. Courtesy of Eagle Pictures

Come è arrivato quindi a Elda Ferri (la produttrice, ndr) e alla Eagle Pictures di Tarak Ben Ammar?

Elda la conoscevo già, perché fece un film a New York, Un giorno questo dolore ti sarà utile, per cui avevo girato il video del brano cantato da Elisa. Siamo sempre rimasti in contatto e poi, appunto, quando ho cominciato a vedere che c’erano molte difficoltà negli Stati Uniti, nel coinvolgere produttori e produzioni, ho deciso di rivolgermi all’Europa, cioè al Belgio, e all’Italia. A Elda Ferri (produttrice di La vita è bella, ndr) è piaciuta l’idea e ci siamo imbarcati in questa avventura, così come a Tarak Ben Ammar, con cui sono entrato in contatto in Tunisia, dove stavo cercando le location per le riprese.

Il film era pronto a settembre 2023. Dopo il 7 ottobre ha dovuto cambiare qualcosa nel linguaggio promozionale o nella post-produzione?

Non ho cambiato niente a livello di montaggio, perché comunque, al di là del 7 ottobre, il messaggio è sempre lo stesso, cioè che i bambini sono l’unica speranza che abbiamo. È evidente, i bambini rappresentano il futuro e rappresentano un messaggio universale. Potrebbero essere a Kiev, in Kurdistan o nello Yemen. In tutti questi contesti in cui sono in corso conflitti, l’unica speranza è che le prossime generazioni siano in grado di cambiare il corso delle cose.

Dal 7 ottobre a oggi sono oltre 12 mila i bambini palestinesi uccisi. Se avesse iniziato a girare adesso, sarebbe stato lo stesso film?

No, probabilmente no. Sarebbe stato più difficile, avrebbe preso una piega molto più dark. Perché nonostante tutto, anche se I bambini di Gaza ha dei momenti molto duri, ha comunque ancora un po’ di speranza, pur all’interno di una situazione sempre in bilico. È ambientato nel 2003, durante la seconda Intifada che comunque è stata terribile ma si è a suo modo conclusa. Certo, è stata creata una prigione a cielo aperto a Gaza, come si dice anche nel film, adesso invece il contesto è profondamente cambiato.

È fondamentale che ne I bambini di Gaza la jihad palestinese sia rappresentata come un nucleo separato dai civili. Teme ugualmente ripercussioni come è accaduto a Jonathan Glazer dopo il discorso agli Oscar?

Sì, un po’ sì. Infatti nel film non nominiamo mai Hamas, prima di tutto perché sarebbe un falso storico. Hamas esisteva già come nucleo, ma non ha conquistato potere fino al 2006. La nostra storia è ambientata prima. Li ho voluti separare perché è così, sono separati. Ho parlato a lungo con un giornalista che vive a Gaza, e che purtroppo non riesco più a rintracciare, proprio per costruire un racconto il più possibile aderente alla realtà. Come la scena in cui il bambino israeliano supera i posti di blocco per muoversi tra l’insediamento e la spiaggia: era possibile, serviva molto coraggio ma era una cosa che si poteva fare.

A proposito di bambini: come ha trovato i suoi protagonisti?

Non sono attori professionisti, ho fatto il casting soprattutto nei territori occupati come il Golan e la Cisgiordania, per lo più nelle scuole. Avrò visto almeno duemila bambini, ma quando Marwan Hamdan è entrato al provino, già solo nei pochi passi dalla porta alla scrivania, si capiva già che aveva qualcosa di speciale,  un’aura particolare intorno. Si percepiva subito la sua personalità e anche quando eravamo sul set, non sembrava di parlare con un bambino di 11 anni.

I bambini di Gaza è stato anche inviato a Papa Francesco in anteprima, che ha sostenuto la sua “terza via”, quella di un messaggio di pace. È sottintesa anche una richiesta di cessate il fuoco in questo messaggio?

Certo, assolutamente. La scelta di fare vedere I bambini di Gaza a Papa Francesco è dovuta al suo ruolo di figura morale indiscutibile nel mondo. Abbiamo inviato il film come documento che potesse portare l’attenzione sulla situazione in corso e promuovere un messaggio di pace, anche se dovesse essere soltanto un granello di sabbia nel deserto. Se il film dovesse riuscire a smuovere qualcosa in degli intrecci internazionali molto più grandi, sarebbe già tanto.