Marco Chimenz: “L’intelligenza artificiale? Potrebbe cambiare l’audiovisivo come lo conosciamo”

"Sono ottimista ma se facciamo finta che non esiste, trascuriamo gli eventuali effetti negativi” spiega l'ex ad di Cattleya e neo co-general manager di Federation Studios nel corso di Incontri, appuntamento ideato da IDM Film Commission Südtirol. E sulla riforma del Tusma: "Non è un buon segnale"

“Mi scusi se l’ho fatta aspettare ma stavo parlando con un produttore che ho incontrato mille volte senza mai scambiarci una parola. E invece è stato interessantissimo”. Normale amministrazione se si partecipa a Incontri, appuntamento ideato e organizzato da IDM Film Commission Südtirol – arrivato alla sua 13ª edizione – dedicato ai professionisti dell’industria audiovisiva. Tra questi Marco Chimenz, neo co-general manager di Federation Studios dopo oltre vent’anni passati a Cattleya come socio e amministratore delegato.

Non ha mai mancato un’edizione. Membro ed ex presidente dell’European Producers Club, Chmenz ha contribuito ad infondere alla società di produzione italiana un profilo internazionale grazie a serie come Romanzo criminale, Gomorra e ZeroZeroZero.

Uno dei temi affrontati nei panel è stato quello dell’intelligenza artificiale proprio mentre l’Unione Europea varava la prima legge che ne regolamenta l’uso. Lei che opinione ha rispetto al suo utilizzo?

In questa fase non si sa ancora come si evolverà, però se non la si segue da vicino, nel giro di pochissimi mesi, si rischia di perdere la percezione dell’evoluzione – velocissima – di effetti importanti del nostro settore. Tutto quello che riguarda le cose più semplici, penso all’uso dell’IA come super assistente, ha un impatto enorme. In questi momenti dove realtà come Paramount licenziano dipendenti, tu non vuoi farlo. Però vuoi almeno cercare di massimizzare la loro produttività. E in quel senso possono essere degli strumenti enormi. Ci sono dei settori che sono chiaramente a rischio in tutto quello che riguarda le traduzioni, il doppiaggio, gli effetti speciali.

E poi c’è la componente più interessante e allarmante: quella del contributo creativo. Con Federation Studios qualche giorno fa abbiamo fatto una proposta per un’agenda di un piccolo summit che vogliamo organizzare in una regione italiana. Era venuta bene e ho chiesto alla mia assistente di arricchirla con qualche immagine. Improvvisamente è diventata un’altra cosa. Un lavoro che forse in passato avrebbe fatto un grafico o un assistente molto esperto. E questo è un esempio al livello più basso.

L’IA non impatterà solo il nostro settore, ma tutte le nostre vite.

Foto di Asia De Lorenzi

Ha una visione positiva o negativa?

Se facciamo finta che non esiste, ci potrebbe impattare in maniera negativa molto presto. Se, invece, cerchiamo di conoscerla, ne possiamo approfittare. Però questo implicherà un qualche tipo di cambiamento. É così il progresso. Quando hanno inventato gli ascensori, all’inizio c’era una persona che li manovrava. Ogni invenzione ha tolto e creato nuovi lavori. Per predisposizione personale sono ottimista.

In passato, quando ci sono stati degli eventi tecnologici importanti, forse sono stato un pochino più pigro. Stavolta no (ride, ndr). All’interno di Federation Studios c’è un’equipe di persone che stanno interloquendo con esperti e cercando di passare da conoscenza zero alla capacità di sfruttarla.

In che modo potrebbe migliorare la nostra vita?

Penso che se tutti questi strumenti aumentano la nostra produttività può forse voler dire che possiamo lavorare meglio e meno. E quindi avere più tempo libero che possiamo decidere di passare al sole oppure facendo le cose che ci piacciono, tra cui consumare materiale audiovisivo. Quindi chissà se questa cosa non si tradurrà in una maggiore possibilità per il nostro business di penetrare e intrattenere il mondo.

Ci sono poi gli scenari più apocalittici, come quello raccontato in Wall-E della Pixar, dove alla fine l’umanità non faceva niente e passava tutto il giorno a guardare la televisione mentre i robot lavoravano.

Crede che da qui a un anno il modo in cui parliamo dell’intelligenza artificiale e la usiamo sarà ancora diverso?

I passi di progresso hanno un’accelerazione enorme. Ci sono delle applicazioni, tra cui Sora, che hanno delle potenzialità enormi. Un collega, James Richardson di Vertigo, mi ha parlato di una di queste applicazioni. Doveva creare un video di una coppia al loro terzo anno di relazione che faceva delle foto ad una macchinetta automatica. Non era stato indicato il genere o il tono. L’intelligenza artificiale ha prodotto un video che, oltre a essere totalmente realistico, non permetteva di capire si trattasse di una creazione totalmente virtuale.

Questo cosa può comportare per l’audiovisivo?

Potrebbe diventare veramente qualcosa di diverso. Se hai una passione per i cavalli potresti chiedere all’IA di produrre un video di 20 minuti, perché è il tempo che hai a disposizione. Diventerebbe totalmente individuale.

Quando si dice business to consumer, è proprio il consumer che decide. Se parliamo di un’altra forma di storytelling, questa cosa qui nella letteratura non c’è mai stata. Potevi individuare un genere che ti piaceva, come i romanzetti romantici che vendono milioni di copie.

Fino ad oggi potevi comprarne a centinaia per soddisfare la tua passione, però non potevi dire: “Scrivi una cosa così”. Presto lo potrai fare, lo potrai scrivere e produrre in audiovisivo.

Marco Chimenz. (Foto di Asia De Lorenzi)

E invece, qual è la sua posizione rispetto alla riforma del Tusma?

Ritengo non sia un buon segnale. Perché penso che, per una serie di motivi, la necessità che chi fa impresa audiovisiva abbia degli obblighi di investimento nel prodotto locale, è comunque una cosa sana. Anche perché la maggior parte di questi obblighi non sono così stringenti. Di quel 20% la metà può essere soddisfatta con un prodotto europeo, per cui per una streamer la necessità di investimento nel prodotto locale diventa abbastanza ridotta. E probabilmente la maggior parte delle streamer che vogliono avere una vera attività in Europa la supereranno.

Non credo sia una cosa così dolorosa per loro. Penso sia importante per evitare, invece, che ci siano entità che facciano business, raccolgano abbonati, che magari neanche pagano le tasse qui e che non diano niente all’industria. Inoltre quando c’è stato un momento di crisi delle streamer, alcune in Europa hanno staccato la spina.

Qualche esempio?

In Europa Hbo ha chiuso e anche Paramount sta facendo la stessa cosa. Hanno staccato la spina nel senso che hanno smesso di produrre prodotto locale. Non condanno le entità americane, però questa cosa è parte del loro sistema. Prendono delle decisioni molto drastiche, tagli molto rapidi – sia agli investimenti che al personale – che permettono di ripartire e reinvestire. E poi magari negli anni successivi addirittura impiegare le stesse persone o anche più.

Fa parte del sistema americano che si basa su un dinamismo e un’elasticità che in Europa non abbiamo. E allora se tu permetti a un’entità americana che opera in Europa di portare in Europa la stessa dinamica di gestione della crisi che ha in America, ma in un sistema di minore flessibilità, tu poi che cos’hai?

Già, cosa succede?

Che improvvisamente a tante realtà produttive europee, ma anche a tanto pubblico, viene a mancare l’ossigeno di una nuova entità che gli possa fare da committente. E infatti non è un caso se paesi come la Francia, dove ci sono queste quote più solide, il mercato non ha avuto questa ondata. C’è stato un po’ di calo, ma meno rapido.

Quindi le quote hanno anche un sano effetto anticiclico, cioè se c’è un precipitoso calo dovuto a questioni americane, si riverbera un po’ meno fortemente in Europa. Io sono favorevole – di più che a delle quote imposte – a dei patti industriali, perché deve avvenire in maniera consensuale. Se non avviene in maniera consensuale, che ci siano delle quote realistiche. E le quote applicate finora lo erano secondo me. Questo passo indietro è comunque un po’ preoccupante.

Cosa l’ha spinta ad accettare la proposta di Federation Studios dopo tutti gli anni passati a Cattleya?

La mia uscita è stata del tutto amichevole, direi fraterna. Con Riccardo Tozzi e Giovanni Stabilini ho lavorato da sempre. È stato Giovanni ad assumermi a Mediaset. Mi occupavo della vendita internazionale delle fiction che produceva Riccardo. Quindi, in qualche modo, abbiamo iniziato insieme già dal 1989. Abbiamo venduto a Itv Studios, e queste vendite si svolgono in un percorso di anni.

La fine del 2023 era quello finale e mi sono chiesto se continuare a fare le stesse cose in un ambiente super professionale, amichevole, di gente eccezionale, però molto legato alla realtà italiana – anche se con progetti sempre più internazionali – o tentare la cosa che ho sempre desiderato. Fare, cioè, lo stesso lavoro però su una base più internazionale.

E alla fine, parlando con loro, mi hanno addirittura incoraggiato. La mia uscita da Cattleya è un po’ come quella di un figlio che va all’università all’estero. Sono intimamente legato a loro. È stata un’esperienza di vita che mi ha insegnato tantissime cose.

Cattleya sarà sempre parte di me, io sarò sempre parte di Cattleya. Però Federation è un gruppo molto interessante a livello internazionale, ha un programma molto ambizioso, le persone che ci lavorano sono molto imprenditoriali e questo tipo di ambizione più internazionale a me in questa fase interessa molto.

Nel suo percorso c’è stato un momento in cui ha capito di star vivendo un momento di svolta?

Credo siano stati due. Uno è quando abbiamo cominciato a fare una serialità che aveva un’origine cinematografica. Tant’è che la prima nostra serie, Romanzo criminale, era su Sky Cinema. Avevamo un interlocutore come Nils Hartmann che invece di dirci tutte le cose che non si potevano fare – come era per le televisioni tradizionali – ci ha detto di osare.

È stata la svolta che ci ha permesso di fare un prodotto italiano ma che aveva dentro di sé il potenziale per andare all’estero. Il frutto successivo e naturale è stato Gomorra, nata proprio perché Roberto Saviano aveva visto Romanzo criminale.

Il secondo momento di svolta è stato quando sono arrivate le streamers, prima di tutte Netflix che avevano una grande fame di prodotto e la voglia di farlo con taglio da pay tv. Quello ci ha messo il turbo, perché invece di fare due serie l’anno ne abbiamo cominciato a fare tre, quattro, cinque, sei.

Il mercato si è allargato moltissimo, questi sono stati i momenti di svolta che ci hanno fatto capire che il nostro prodotto, pur generato e finanziato dall’Italia, poteva essere ben recepito all’estero e su quello costruire prodotti più decisamente internazionali. Penso a ZeroZeroZero.

Con Federation Studios a quali progetti sta lavorando?

Non posso parlare di cose specifiche, però posso dire che il mio ruolo è quello di seguire molto le filiali straniere del gruppo – in Italia abbiamo Fabula – e cercare di essere di aiuto. Che può essere nella trattativa che già hanno in corso o per strutturare coproduzioni con l’estero. Piano piano sto familiarizzando anche con le società francesi.

All’inizio per conoscerle e vedere se ci fosse la possibilità di lavorare bene tra loro e le società non francesi del gruppo. Poi ho capito che avevano molto bisogno e volontà di lavorare su titoli più internazionali o, comunque, di avere un po’ il punto di vista di chi aveva fatto progetti internazionali.

Sto quindi lavorando un po’ più a 360 gradi insieme a Lionel Huzan, che è l’altro co-general menager, e al presidente Pascal Breton, insieme a una squadra di gente giovane, motivata, divertente. Sono ancora un po’ nella fase di conoscenza. Oscillo tra momenti di disorientamento e momenti in cui mi sento proprio il bambino nel negozio di caramelle con mille possibilità e con mille cose da collegare.

Dei film o delle serie usciti in questi anni quale sarebbe voluto produrre?

Probabilmente Call My Agent. Una serie, senza guardare alle irraggiungibili americane, che avremmo potuto produrre.