Manuel Agnelli, da Lazarus e David Bowie al sogno americano “Ora mi trasferirei. A Hollywood, magari per un film in costume”

Fino a giugno in scena con l'opera rock del Duca Bianco e di Edna Walsh, da luglio di nuovo in tour con Ama il prossimo tuo come te stesso e i Little Pieces of Marmelade, Giacomo Rossetti e Beatrice Antolini. Sognando il cinema

Cesena, Roma, Napoli, con sold out e applausi scroscianti da pubblico e critica e con ancora davanti date a Lugano, Milano, Torino e Bari tra maggio e giugno. Non sono le tappe di questo Giro d’Italia, ma alcune di quelle che Manuel Agnelli ha toccato con Lazarus, l’opera rock di David Bowie ed Enda Walsh che porta in scena da mesi, per circa due ore a sera da settimane, per la regia di Valter Malosti e con un cast ricco (11 interpreti e 7 musicisti) quanto il repertorio musicale della rockstar che canta (17 pezzi), una compagine di artisti che va da Casadilego a Michela Lucenti.

L’ennesima rivoluzione e trasformazione del rocker che da ormai decenni, in gruppo (Afterhours), in featuring, live e in studio (da Damo Suzuki alla sua scoperta, Damiano dei Maneskin), e spesso da solo, sul palco o in uno studio televisivo, rompe ogni schema. E di sicuro Thomas Jerome Newton, l’alieno caduto e intrappolato sulla terra, è una delle sue sfide più difficili e clamorosamente vinte, un percorso di crescita attoriale che avevamo già intuito nella partecipazione alla serie Django. Un nuovo orizzonte, anche se la musica, come testimonia il tour estivo di Ama il prossimo tuo come te stesso, di nuovo con la band che aveva messo su un anno fa – Little Pieces of Marmelade, Giacomo Rossetti e Beatrice Antolini -, rimane il suo linguaggio espressivo privilegiato. Dal primo luglio prossimo fino al 7 settembre canterà e suonerà a Palermo, Verona, Pavia, Roma, Rimini, Taranto e Milano.

Partiamo con una domanda facile: cos’è Lazarus?

Un’opera rock, non è un musical, almeno non lo è questa versione, perché in tutto il mondo è stata declinata in più modi. L’altro giorno, all’ultima replica a Napoli è venuto questo tizio da Londra che va in giro per il mondo a vedersi tutte le versioni di Lazarus, deve essere un fan mostruoso di Bowie. Dice che sono tutte molto diverse e – bontà sua – che la nostra è una delle migliori. Ammetto che io ho visto solo quella di Broadway e che non mi era piaciuta, perché era troppo musical appunto, con quel numero finale che deve essere sempre gioioso e catartico, mentre noi abbiamo un mood decisamente più malinconico, dolente.
Non a caso la prima domanda che ho fatto al regista Valter Malosti, prima di accettare, verteva su quanto margine avessimo per intervenire, cambiare, andare altrove, sempre rimanendo fedeli al testo e allo spirito dell’opera. E lui mi ha rassicurato sul fatto che in realtà potevamo intervenire anche in maniera molto decisa, soprattutto musicalmente. E va detto che seppure con una supervisione abbastanza decisa e molto presente della produzione londinese, siamo andati nella direzione che volevamo. Hanno vagliato in modo pignolo ogni variazione – soprattuto nel testo – ma siamo riusciti a trovare la nostra strada, per un lavoro meno effimero e superficiale della versione di Broadway. Anche perché alla fine è evidente che noi ci siamo avvicinati molto di più alla drammaturgia della scrittura originale, lo ha detto anche il coautore, Enda Walsh, abbiamo scelto un tono espressivo più scuro, adatto allo spirito di una pièce che allora come oggi pone delle domande belle, pesanti, non banali sull’esistenza, sulla perdita dell’amicizia, dell’amore, ma soprattutto sullo smarrimento dei punti di riferimento e dei luoghi dove riconoscersi, luoghi soprattutto interiori.

Manuel Agnelli e Casadilego nell'opera rock Lazarus

Manuel Agnelli e Casadilego nell’opera rock Lazarus

Va bene amare le sfide impossibili, ma unire il cantare David Bowie a un quasi monologo di due ore è quasi uno sport estremo

Allora cominciamo dalla parte più facile della risposta, sul palco io non faccio David Bowie, è un malinteso in cui cascano in molti, la parte che faccio io è, come sai, Thomas Newton, il Duca Bianco e Enda Walsh l’hanno scritta perché fosse interpretata da un attore, non da Bowie. Le canzoni sono al servizio della drammaturgia e dello spettacolo per cui in origine erano pensate perché le cantasse un altro, cosa che permette che non vi sia necessità di imitazione ma invece di reinterpretazione.

Poi, io lui ce l’ho nel DNA, proprio perché fin da ragazzino lo ascoltavo e prima di cominciare le prove sono andato a riascoltarmi quasi tutta la sua produzione per non darlo per scontato, per cogliere di nuovo e poi restituire tutte le sfumature di voce e contenuto della sua musica, di armonia e visione delle sue canzoni che magari dentro di me sono ovvie, automatiche ma che volevo fossero percepite da tutti. Poi, la mia fortuna è che ho una tessitura vocale molto simile alla sua per cui non lo devo imitare per rispettarlo. E questo è un grosso vantaggio, non devo dimenticare di essere me stesso per cantarlo, non devo inventarmi un’intenzione musicale ed emotiva aliena da me e rischiare di diventare un pupazzo, un pagliaccio che lo scimmiotta. Diciamo che se avessi dovuto cantare i Led Zeppelin sarebbe stato molto più complicato e probabilmente artificioso.

Sulla recitazione, è stata una scommessa, un bell’azzardo sia mio che del regista. Lui è stato bravissimo a mettermi a disposizione persone che mi facessero studiare, perché ho studiato davvero tanto, ma che hanno avuto la capacità di farmelo fare con naturalezza, non accademicamente. E soprattutto mi hanno lasciato andare al momento giusto, quando ho acquisito dei punti di riferimento molto precisi e a quel punto dovevo abbandonarmi al testo e alla musica. Valter dice che sono un attore molto concreto, uno capace di rendere in maniera molto credibile e naturale le cose perché le vivo. E ha ragione, i temi dell’opera sono profondamente connessi a quelli che mi sono più cari, alla mia vita. Anche quello della morte, seppure ovviamente non l’ho affrontato direttamente, mi ha toccato con la perdita di persone molto care, amici che mi sono morti davanti come mio padre. Poi non sono io a poter dire se questo esperimento sia riuscito, ma i feedback meravigliosi dopo tante repliche ci dicono che la strada che abbiamo scelto è quella giusta.

A ripensare a Blackstar e Lazarus, è incredibile come dentro avessero entrambi, in modo diverso, il seme di un testamento morale e artistico. Per un fan deve essere molto doloroso interpretare un testo come questo

Da una parte lo è, dall’altra ti consoli capendo che pure lì è stato un punto di riferimento. E questo fa sì che per me Lazarus costituisca un momento di crescita molto grande, al di là del ‘affrontare un’esperienza nuova come il teatro e una recitazione così strutturata. Perché affrontare un lavoro del genere ti impone anche una severa e approfondita autoanalisi che parte dalla sua capacità straordinaria di trasformare persino la sua morte in qualcosa di attivo e creativo, Bowie non è stato passivo neanche di fronte alla fine della propria esistenza, facendola diventare un momento della sua vita, della sua opera omnia. Ed è incoraggiante scorgere quest’opportunità che lui ha saputo cogliere, anzi dominare. Laddove tanti, forse tutti ci arrendiamo, lui ha reagito ed è diventato anche lì il padrone del proprio tempo, della propria dipartita. Lazarus, come Blackstar, rappresentano un bellissimo esempio per tutti noi, e ancora di più per gli artisti. Ci insegna che quel momento finale, di solito ammantato dalla disperazione, dal senso ineluttabile della fine, può diventare uno strumento nelle tue mani. Peraltro lui, si dice, sia stato anche materialmente attivo nel decidere i tempi e i modi del proprio addio e nel nostro adattamento ci sono diversi riferimenti a questo.
Un atto politico e creativo, se è vero che lo ha compiuto, clamoroso.

Questo è un anno di rivoluzioni per Manuel Agnelli. Non che gli altri siano stati tranquilli, però dal disco solista all’uscita di Django, la serie, in cui fa un piccolo ruolo, c’è stata una vera e propria rinascita che nel rock italiano, spesso conservatore e affezionato alla propria comfort zone, è un privilegio che hanno in pochi.
Una vecchia battuta nell’ambiente dice che le rockstar italiane sono destinate a ballare sul proprio cadavere. 

Hai ragione è un privilegio, sono un uomo fortunato, ma senza false modestie fammi dire che me lo sono meritato. Perché se è vero che trovo ancora gente che si stupisce del mio cantare David Bowie, dimostrando così di non aver ascoltato bene neanche i miei album pur autodefinendosi fan, va pure detto che queste rivoluzioni, queste nuovi opportunità che continuano ad arrivarmi sono frutto di tutte le mie scelte. Scelte per cui ho pagato, spesso, prezzi altissimi: me le ricordo bene le critiche feroci quando scelsi di fare X Factor, che ho scelto di fare quando per me era più sconveniente e che ho abbandonato quando sarebbe stato decisamente più saggio e remunerativo rimanere. Ma senza prendermi dei rischi non riesco a essere me stesso: credo che se c’è una ricetta per non morire artisticamente o, come dici tu “ballare sul proprio cadavere”, è proprio non decidere in base a convenienze economiche o a una visione ragionieristica della propria carriera, ma seguendo il proprio istinto, i propri desideri, ciò che senti giusto fare. Far sì che non ti vedano arrivare dove vuoi andare.
Se voglio fare la radio (a proposito, ascoltate su Radio 24 il suo Leoni per Agnelli, bellissimo – nda) la faccio, se voglio fare la tv pure. E così via.

Peccato che sono troppo vecchio per fare le Olimpiadi, altrimenti proverei a qualificarmi anche per quelle. Quello che sto vivendo ora, come tutto il resto, me lo sono guadagnato seguendo una visione, ragionando in prospettiva e non cercando di mantenere una rendita di posizione. Sono fortunato perché le mie rivoluzioni non si sono mai fermate, neanche dopo i 50 anni, neanche adesso. E spero ne arrivino altre. Avere il coraggio di sentire le sfide più motivanti, anche se pericolose, e accettarle, è fondamentale per non sbagliare mai. O comunque per sbagliare meno.

Manuel Agnelli nell'opera rock Lazarus

Manuel Agnelli nell’opera rock Lazarus

Con la serie Django ha dimostrato di saper recitare, ma Lazarus è un esame di laurea. Ci sta prendendo gusto? Siamo sinceri, non è più un esperimento

Lo sta diventando, io non ho la presunzione di poter fare qualsiasi cosa, va detto che qui sono protetto anche dalla musica, psicologicamente mi ha sicuramente aiutato a lavorare con più tranquillità. Però sì, recitare, che sia in teatro o davanti a uno schermo, al cinema come in televisione, è qualcosa che mi piace moltissimo, mi diverte, rappresenta un’esperienza molto diversa e stimolante. E la maturità mi aiuta a capire che non devi tuffarti nelle cose a caso, che devi sentirti a tuo agio in un progetto e ad avere la lucidità per capirlo. In realtà ho sempre saputo fare questo tipo di valutazioni, ho rifiutato progetti molto ben pagati e anche di dimensioni produttive importanti semplicemente perché pensavo non fossero adatti a me, per i ruoli offertimi o per la storia raccontata.

Prima parlavi di privilegio: ecco, la fortuna più grande che ho è potermi permettere il lusso di fare quello che voglio e di rifiutare ciò che non mi convince, di non avere condizionamenti economici o brame di fama che mi obblighino a prendere decisioni opportunistiche che niente hanno a che vedere con il mio piacere o l’amore per l’arte o anche solo la mia personale curiosità. Non ti faccio nomi né titoli, ma ti dico che mi hanno offerto la parte del protagonista in un film con regista e sceneggiatore molto credibili che mi davano una paccata di soldi: conta che ne avevo parlato con Stefano Accorsi perché mi desse dei consigli e lui mi confermò che era un cachet da star e che la produzione fosse delle migliori. Però era una commedia all’italiana moderna che non mi convinceva: per carità, non snobbo il genere, ma di sicuro non è nel mio DNA.

Eppure tante delle cose che ha fatto non sembravano nelle sue corde, e poi ha smentito tutti. Pure se stesso?

C’è sempre stata la volontà di ingabbiarmi in qualcosa, questo succede da decenni. A volte non si presta attenzione alla totalità dell’uomo e dell’artista. Io amo il jazz e la musica classica, ma preferisco fare rock’n’roll anche perché lì do il meglio, ma sono lo stesso che ha fatto due tour con Damo Suzuki, suonando le tastiere e facendo composizione istantanea con lui. Certo, è una roba che sanno in quaranta. Come il fatto che io alla Scala ci sono andato non come spettatore, ma a suonarci. Quando dico che devi saper rifiutare, non pretendo di rimanere nella mia comfort zone, ma al contrario capire cosa risuona in me e cosa no, cosa mi può appartenere e cosa mi fa sentire totalmente estraneo.

Anni fa, con gli Afterhours, siete stati a un passo dal trasferirvi negli Stati Uniti. E avete deciso di rimanere in Italia. Ora lo rifarebbe? E adesso per cosa varcherebbe l’oceano? Per Hollywood?

Per delle cose nuove che mi stimolino e mi divertano. Certo che andrei a Hollywood, pure subito. E lì, forse, ci andrei per fare qualsiasi cosa o quasi, anche un film in costume tipo Maciste contro Godzilla o un remake dei Duellanti. Sì, mi piacerebbe da matti fare un’opera in costume. E poi non lascerei nulla d’intentato, perché in tutti questi anni ho capito una cosa: certe occasioni producono altro, possono essere tappe d’avvicinamento a ciò che ami di più e che in quel momento non sai neanche di desiderare. Se sei fortunato diventa qualcosa di importante anche per chi ti ascolta o guarda, per gli altri, altrimenti lo è comunque per te. Senza X Factor ci sarebbero stati Ossigeno in tv, Germi (il suo locale che ormai è un centro di cultura indipendente fondamentale per Milano e non solo) o Lazarus? Credo di no, perché non avrei avuto la rilevanza che ho ora.
Ora agisco così, pensando che quello che decido di fare potrebbe portare anche ad altro che in quel momento preciso non (pre)vedo.

Faccio una piccola provocazione politica. In un’altra intervista fatta insieme disse che negli Usa non rimase anche perché valeva la pena combattere per qualcosa di bello in Italia in quel momento storico. Ora non ne vale più la pena?

Allora, io ho avuto due momenti in cui ho avuto la possibilità di partire: il primo intorno all’inizio degli anni ’90, quando potevo decidere di prendere la valigetta, come sanno in tanti, e in Italia però stava succedendo qualcosa di bello e unico nel panorama musicale e culturale. Come tanti altri della mia generazione siamo stati molto più rilevanti qua di quanto non lo potessimo essere altrove, più rilevanti per il costume del nostro paese, per quel momento storico, abbiamo vissuto una cosa veramente magica, perché gli anni ’90 e i primi 2000 sono stati un periodo straordinario e sono orgogliosissimo di averne fatto parte decidendo di rimanere. Poi a metà degli anni 2000 ho avuto un altro momento americano molto forte, quando ho incontrato Greg Dulli, e lì la cosa si è fatta seria, è durata quasi cinque anni, con 150 date l’anno, con una decina di tour americani e altrettanti in Europa. Ci abbiamo pensato, ce lo siamo detti “andiamo là, in Italia abbiamo fatto quello che dovevamo fare, stiamo raccogliendo gli allori, andiamo di là, rivitalizziamoci”, perché comunque quei tour ci hanno rimesso al mondo, inutile negarlo.

La verità è che allora avevo una bambina piccola, una famiglia.

Rimpianti?

Sinceramente ancora adesso penso di aver fatto bene a farla crescere qua, visto che avevo già delle sicurezze di un certo tipo e rimanere mi ha dato la possibilità di crescere tanto ancora come artista, di avere una visibilità e una centralità culturale che mi permette di collaborare con colleghi di un livello pazzesco, che mi fanno crescere costantemente. Adesso però è diverso, la figlia è cresciuta, io ho fatto un lungo percorso qui, la mia vita l’ho tracciata e ora sto veramente improvvisando nel senso migliore del termine: non vuol dire che navigo a vista o che scelgo a casaccio, ma che mi sono costruito e preso la libertà di fare quello che voglio, per cui, sì, potrei anche pensare di passare tre o cinque anni negli Stati Uniti. Certo, alla mia età difficilmente succedono queste cose, ma in fondo se mi avessero detto che a 50 anni avrei imparato a fare tv, e pure alla grande, non ci avrei creduto. Quindi non mi pongo limiti.

Sul fatto che l’Italia valga la pena o meno viverla in questi anni, e combattere per lei, ti ricordo che negli anni ’80, quando ho iniziato a fare musica e pensando di volerlo fare per la vita, le cose non erano migliori di adesso, anzi. Senza guardare alla politica, c’erano i paninari, Claudio Cecchetto, le discoteche all’americana, la tv era inguardabile – stava spopolando quella commerciale berlusconiana -, la società italiana era tremenda. E ti dirò che per quelli come me è meglio così, vivere per contrasto ti dà stimoli, vuoi cambiare le cose che non vanno, cerchi un senso. Se vivi a tuo agio, se stai nella bambagia, non senti quel fuoco bruciare dentro di te. Però è vero che forse non ho più e neanche voglio quel ruolo politico che un tempo mi davano nel mio ambiente. Perché non mi piace più, si è creato un corto circuito culturale per cui quell’ambiente si è disfatto, si è polverizzato in troppe correnti, non ha più punti di riferimento e annega nell’autoreferenzialità. Questo è un momento in cui è difficile partecipare a un movimento, a qualcosa che voglia cambiare lo status quo, sentire un’appartenenza non dico politica, ma almeno intellettuale. Detto questo non voglio scappare dall’Italia, ma voglio sempre nuovi stimoli: se poi per questo dovrò andare negli Stati Uniti oppure in Finlandia, conta poco.

Manuel Agnelli nell'opera rock Lazarus a teatro

Manuel Agnelli nell’opera rock Lazarus a teatro

Dopo Lazarus sarà più facile trovarci di fronte a un vinile di Manuel Agnelli o a un manifesto che vede il suo nome sotto il titolo di un film?

Tutte e due, sto vivendo un momento di grande creatività, mi sento veramente molto fertile, mi sto già rimettendo a scrivere delle cose, anche se è vero che la discografia in questo momento è conciata talmente male, come non lo era da tanti anni, che non è un territorio molto attraente per me.

Però c’è un circuito di persone che è ancora molto vitale, che resiste e sopravvive nonostante stiano radendo al suolo un intero mondo di luoghi in cui si faceva arte. Non ci sono più i club, la situazione degli anni 90 si è quasi distrutta, però la musica rimane sempre qualcosa per me di super stimolante, è ancora il mio linguaggio, rimane la mia priorità, ma è chiaro che sono interessatissimo a fare anche tantissime altre cose perché sennò a cosa sarebbe servito ritagliarsi tutta questa libertà? Io alla fine ho fatto musica non per fare quello che voglio nella musica ma per farlo nella vita, questa è un po’ l’epitaffio che vorrei sulla mia lapide. Non mi alzo la mattina pensando di essere l’artista che deve creare un chissà che cosa, mi alzo la mattina pensando di essere un uomo, un essere umano che vuole vivere qualcosa di speciale.

Manuel Agnelli canta David Bowie nell'opera rock Lazarus

Manuel Agnelli canta David Bowie nell’opera rock Lazarus

Facciamo un gioco: immaginando che Bowie sia ancora vivo, qual è la canzone che avrebbe volentieri cantato con lui e qual è il suo film suo in cui avrebbe voluto recitare accanto a lui?

Beh la canzone è Five Years, perché è la prima che ho ascoltato di David Bowie, me la fece ascoltare Lorenzo Olgiati che allora non era neppure il primo bassista degli Afterhours, prima ancora che la band esistesse. Eravamo nella sua stanzetta, nella sua vecchia casa di famiglia, mi fece ascoltare questo pezzo e per me fu un’epifania, anche se poi il periodo di Bowie al quale sono veramente legato, con cui sono cresciuto è quello berlinese, è la trilogia formata da Low, Heroes e Lodger. Però Five Years è il colpo di fulmine, l’innamoramento, quindi direi quella. Cantare, poi, diciamo che suonerei il piano per lui, dai, meglio, non vorrei rovinargliela. Sui film sono tutti bellissimi, ma ti dirò che avrei voluto fargli da assistente in The prestige di Nolan, dove interpreta Nikola Tesla. Con quel fascino incredibile, sempre super elegante anche in quel ruolo, ti ipnotizzava. E quello charme lo aveva pur venendo da Brixton, dalla periferia più dura, pur essendo considerato un tamarro quando arrivò a sconvolgere la scena musicale londinese. E, cazzo, partendo da lì è diventato la persona più cool dell’universo

Ultima domanda: è prevista una versione internazionale del vostro Lazarus?

Ci pensiamo da molto, Robert Fox, il produttore dell’originale, sostiene che la nostra è la più adatta ad andare fuori dai propri confini. Mi piacerebbe farlo in Inghilterra, ma lì già c’è e sarebbe estremo farlo in italiano con i sottotitoli anche se in queste date abbiamo avuto tanti stranieri a cui è piaciuto, anche perché canto in inglese, ovviamente. Ma in paesi come la Francia, il Belgio, la Spagna dove c’è un’abitudine culturale ad assistere a spettacoli in lingue diverse dalla propria d’origine, sarebbe bello. Insomma, vuoi farmi partire a tutti i costi.