Pierfrancesco Favino al Tribeca: “Voglio svecchiare lo stereotipo dell’italiano pizza e mandolino”

"Ho detto no a progetti in cui vedevo ruoli da italiani regolarmente affidati ad americani. Altro che diversity e inclusivity", si sfoga l'attore. Che in questo momento si trova al festival di New York con L’ultima notte di amore di Andrea Di Stefano. L'intervista in esclusiva con THR Roma

È stato il convitato di pietra della cerimonia di premiazione dei David di Donatello. Non c’era clip di introduzione alle cinquine di tutte le categorie in cui Pierfrancesco Favino non fosse presente. Era in tutti i luoghi e in tutti i laghi, potremmo dire parafrasando la celebre canzone sanremese. Del resto è l’attore più richiesto in Italia (Gabriele Salvatores, Giuseppe Tornatore, Marco Bellocchio, Gianni Amelio, Gabriele Muccino, Ferzan Ozpetek, Mario Martone sono solo alcuni dei registi con cui ha lavorato).

Sicuramente è quello più conosciuto all’estero grazie ai film americani in cui ha recitato. Dalle Cronache di Narnia di Andrew Adamson a Miracolo a Sant’Anna di Spike Lee, da Angeli e Demoni e Rush di Ron Howard a World War Z di Mark Forster, e ancora Rachel di Roger Michell e Il ricevitore è la spia di Ben Lewin. In questo momento si trova a New York al Tribeca Film Festival con L’ultima notte di amore di Andrea Di Stefano, unico film italiano in gara.

“E’ sempre estremamente emozionante venire a New York, una città nella quale adesso ho diversi ricordi. Ne parlavo appena atterrato con i miei compagni di viaggio. Dicevo loro che è strano come uno riesce a sentire familiare una città così lontana dalla tua”, ci racconta Favino appena arrivato nel suo hotel del West Village, luogo del cuore nella grande mela dell’attore. “È un posto di New York dove mi piace molto camminare. Adesso con la passeggiata che hanno fatto sul fiume è diventata ancora più bella. È la Manhattan raccontata nei film di Woody Allen, per intenderci”.

Come è andata la presentazione?

Bene, benissimo. Una sala piena è sempre una cosa molto bella e che ha reagito molto bene. C’era anche Julian Schnabel che ci ha tenuto ad essere il nostro anfitrione.

Che tipo di pubblico era presente?

 Abbiamo fatto un Q&A alla fine con domande molto, molto interessanti con un livello di attenzione altissimo. Anche di divertimento, nel senso che hanno colto anche quelle che potevano essere gli aspetti più italiani nel film. Devo dire che è stato accolto nello stesso modo un po’ dappertutto, qui, in Francia, a Berlino. Questa è una gran bella soddisfazione.

Tu sei già stato ospite del Tribeca. Hai notato differenze tra ieri e oggi?

La prima volta sono venuto tanto tempo fa con Romanzo Criminale, era il 2006. Nel frattempo gli americani hanno avuto modo di vedermi in altre cose, hanno acquisito una maggiore familiarità. L’accoglienza è stata molto calorosa, in particolare da parte del direttore del festival e delle persone che hanno selezionato i film. La mia sensazione è che conoscano il lavoro fatto negli anni.

Forse grazie alle numerose produzioni americane a cui hai partecipato?

Sì, però ho avuto anche la fortuna di aver recitato in due film che hanno concorso agli Oscar, Il traditore di Marco Bellocchio e Nostalgia di Mario Martone. Film presentati anche in altri festival internazionali come quello di Toronto, di Cannes o di Berlino. In generale, c’è una vitalità nel nostro cinema che noi italiani forse non cogliamo, ma che invece viene accolta con entusiasmo all’estero.

Quanto ha contato il fatto che il film in concorso sia un thriller, genere molto amato negli States?

Il crime thriller è un genere sempre molto vitale. Negli ultimi anni forse siamo più abituati a vedere questo genere grazie al cinema asiatico e a quello americano alla Michael Mann. Mentre noi italiani quando usciamo dai confini veniamo catalogati all’interno del grande sistema mafia. L’ho notato anche nel caso di Nostalgia, che è fondamentalmente un film d’amore, ma è più facilmente catalogabile all’interno di un cliché, mentre sarebbe opportuno indagare a fondo su quello che le pellicole offrono davvero. C’è questa tendenza all’estero di catalogare tutto come film di malavita, cosa che invece noi neanche pensiamo mentre li facciamo questi film.

Hai lavorato tanto anche per Hollywood, Spike Lee, Ron Howard, solo per fare due nomi. Che ricordi hai di queste esperienze americane?

Molto molto belli, soprattutto per la qualità umana delle persone con cui ho lavorato. Ho avuto la fortuna di lavorare all’inizio con Ben Stiller, Ron Howard, Tom Hanks, Spike Lee e Andrew Adamson. Prima di tutto il privilegio è stato umano. Dopodiché ricordiamoci che stiamo parlando di un cinema che è un’industria enorme. Noi siamo ancora abituati a pensarci in termini di piccola impresa. In America hanno il lusso di poter sbagliare. E’ una possibilità che noi non ce abbiamo sempre: la possibilità di sbagliare, intendo, di avere qualche ciak in più a disposizione, di girare con più tranquillità. Quello che per noi è un film ad alto budget nel cinema americano è un film a basso costo.

Il nostro low budget è come una loro produzione indipendente?

Neanche. Pensa che mi è capitato di fare un film indipendente che era Rush di Ron Howard, un film da 45 milioni di dollari. In Italia invece i film importanti arrivano a costare sui 12, 13, 15 milioni, e stiamo parlando di un budget enorme per gli standard italiani.

Cosa ti piace dell’industria cinematografica americana?

Una cosa che mi piace moltissimo è il rispetto del lavoro, di chiunque. Il fatto che ci sia un ambito industriale fa sì che ci sia non solo fiducia nel lavoratore, ma che il lavoro di ognuno venga tutelato e stimato enormemente. Indipendentemente dal ruolo, sia che si parli dell’attrezzista piuttosto che dell’attore. Mi piace molto anche l’altissimo livello di preparazione.

Non proprio tutti gli ambiti lavorativi sono tutelati, come ci dicono gli sceneggiatori che stanno scioperando a Hollywood…

Penso che sia sacrosanto. Nel momento in cui quelle che sono le particolarità di ogni professione rischiano di essere calpestate oppure limitate scioperare è necessario. Dobbiamo stare attenti a non farci cogliere impreparati, soprattutto in tempi in cui si parla molto di intelligenza artificiale, e iniziare da subito a mettere un limite su quelle che sono le eventuali problematiche che si possono creare un domani. Siamo di fronte a un’industria che muove altissimi guadagni e grandissimi investimenti, è giusto che i lavoratori si tutelino.

In Italia come siamo messi?

È una domanda molto problematica. Io penso che sia un discorso globale, onestamente. In Italia siamo riusciti in brevissimo tempo a portare sul tavolo delle trattative le discussioni sulle figure professionali e su quelle che sono le tutele, soprattutto quelle creative. In questo momento è molto importante sottolinearlo.

Visto che sei a New York, ne approfitterai per salutare qualche collega americano? Con chi sei rimasto in contatto?

Con tutti quanti. Dagli auguri di Natale ad incontri combinati o casuali. In questo momento sto lavorando al nuovo film di Gabriele Salvatores nel quale c’è anche Omar Benson Miller, che era uno dei soldati di Miracolo a Sant’Anna di Spike Lee. Mi sento regolarmente via mail con Ron Howard, a Cannes ho recentemente rivisto Tom Hanks. Sono rimasto in ottimi rapporti e amichevoli, non per forza legati a eventuali collaborazioni lavorative, ma proprio per le esperienze fatte insieme e per l’affetto che è rimasto.

Proposte da Hollywood?

In questo ultimissimo periodo no. C’è stato un momento in cui mi veniva proposta un tipo di italianità che non mi andava di rappresentare. Mi piacerebbe poter svecchiare questo cliché dell’italiano tutto pizza, mandolino e mafia per forza.

Uno stereotipo duro a morire?

Un attore dovrebbe essere libero di poter interpretare anche una giraffa. Tra l’altro mi sembra bizzarro che molto spesso ruoli da italiani, spesso protagonisti, vengano offerti ad attori americani. Mi è capitato di dire no a dei progetti in cui vedevo che i ruoli da italiani venivano regolarmente affidati ad attori americani. Nel frattempo però si discute di diversity e di inclusivity. Non capisco perché questa cosa si interrompa nel momento in cui gli attori italiani varcano le Alpi. Veniamo penalizzati. Però non pretendo che un sistema ci riconosca, per cui preferisco rinunciare. Ho l’opportunità di interpretare dei ruoli talmente belli nel cinema italiano. Le carriere di attori non americani molto spesso sono cambiate quando vincono un Oscar con un film del loro Paese, oppure quando  hanno la fortuna di essere stati presi per interpretare ruoli della loro nazionalità in film che poi finiscono per avere un grande successo. Penso a Christoph Waltz o a Javier Bardem. Per gli attori italiani la vedo sempre più difficile e non ne capisco il motivo.

Sei pronto per  Venezia? Perché Adagio di Stefano Sollima o Il Comandante di Edoardo De Angelis potrebbero essere selezionati per il festival…

Mi piacerebbe, ovviamente, perché sono due film a cui tengo tantissimo, sono bellissimi i progetti. Ma so anche quante siano le difficoltà della selezione, la quantità di film proposti, per cui non vorrei essere nei panni dei selezionatori. Tutte le volte che vado a Venezia provo una gioia enorme, perché è il nostro festival, è un festival meraviglioso, dal mio punto di vista è il festival più bello del mondo. Ho avuto la fortuna di vincere una Coppa Volpi e come sai io sono orgoglioso del fatto di essere italiano e di portare il mio contributo al cinema del mio paese.

Stai girando Napoli – New York di Gabriele Salvatores. Che ci puoi dire di questo nuovo ruolo?

Più del ruolo ti posso dire del film. A me piace moltissimo il tono del film. Come sai, è tratto da un soggetto scritto a quattro mani, nel dopoguerra, da Federico Fellini e Tullio Pinelli, che avevano una capacità di sapere trattare alcuni temi con una leggerezza quasi fantastica. Una cosa che trovo straordinaria è che nessuno dei due era mai stato a New York. Quando ho letto il copione ne sono stato rapito. Sono molto felice di essere di supporto ai due bambini protagonisti, bravissimi, e sono sicuro che sarà un film emozionante, divertente. Sai, quando ci sono quei film che ti riconciliano un po’ con il senso del cinema, non solo dell’intrattenimento ma anche dell’emotività. Penso che questo film vada in quella direzione.

Il film racconta la storia di due bambini che per sfuggire alla miseria della Napoli del dopoguerra affrontano una traversata in nave per l’America, come avvenne per tanti emigranti italiani all’epoca. Mi parli del tuo primo approdo a New York?

La prima volta è stato il classico coronamento del sogno, perché ti sembra di conoscerla da sempre, perché l’hai imparata a conoscere nei film. Arrivi qui e vedi che è esattamente come te l’eri immaginata mantenendo, però rimane la capacità di sorprenderti ogni volta con l’energia che ha. E’ una città che amo, è una città che frequento e che ho visto cambiare moltissimo.

Il più bel ricordo legato a New York?

E’ quando sono venuto qui insieme alla mia compagna e alla nostra prima figlia, che aveva due anni. Dovevamo stare una settimana e alla fine ci fermammo un mese.