Sarah Short, attrice del ’99 sangue e capelli verdi: “Clorofilla mi ha insegnato che non si deve avere paura di sbocciare. O di essere mostruosi”

Parla la protagonista del film di Ivana Gloria presentato ad Alice nella città. "E' una metafora sul crescere e cambiare. Possiamo farlo con l'aiuto degli altri. Voglio annaffiare e essere annaffiata". L'intervista con THR Roma

Non aver paura di sbocciare. Oppure averla, ma affrontare il cambiamento sapendo che nulla finisce, ma tutto si trasforma. Accade a Maia, protagonista di Clorofilla. E accade a Sarah Short, piemontese del ’99, alla sua seconda pellicola dopo Palazzo di giustizia (2020) di Chiara Bellosi. Capelli e sangue verde, la giovane “mostruosa” del film di Ivana Gloria – in anteprima nella sezione Panorama Italia di Alice nella città 2023 – lotta per reprimere la propria natura, imparando col tempo ad abbracciarla.

“Tutti abbiamo paura di scoprire chi siamo”, e può valere anche per un’attrice pronta a trovare il coraggio di “sopravvivere” nel cinema. L’importante è sapersi affidare agli altri, come fa Maia col personaggio dell’introverso Teo, impersonato da Michele Ragno. Non c’è nient’altro che può salvarti. Nemmeno il giardinaggio.

In Clorofilla la protagonista Maia sta sbocciando. Cosa vuol dire per lei?

Ci sono così tante letture. Cambiano ogni volta che vedo o ripenso al film. Mentre crei qualcosa semini piccoli boccioli che poi crescono e sbocciano in tanti significati quante le persone che li andranno a raccogliere. Mentre giravo Clorofilla, sbocciare aveva un valore intellettuale. Pian piano, poi, mi sono accorta che la sensazione che provava Maia era di puro terrore. Di certo, nel film, l’azione ha connotati extra-umani, ma finisce per parlare dell’anima. Ho tenuto questo terrore per tutto il resto del lavoro. Perché sbocciare può voler dire scoprire cose di te stesso che potrebbero non piacerti, addirittura spaventarti. Come la libertà, che è qualcosa che pensiamo di voler conquistare, ma che non sempre si hanno i mezzi adatti con cui affrontarla.

Lei ha paura di sbocciare?

Tantissima. Mi fa un po’ meno paura nel momento in cui ricordo che, in fondo, è un timore che abbiamo un po’ tutti, anche un personaggio col sangue verde come Maia. Sbocciare porta ad aprire se stessi, il proprio cuore, la propria mente. Sbocciare significa affidarsi alle persone, a chi è fuori da me e, proprio per questo, sa darmi delle risposte sul mondo che da sola non riuscirei a trovare. So per certo che sbocciare, che è poi sinonimo di crescere, è qualcosa che non ho voglia di fare da sola. Voglio essere annaffiata dagli altri e poter annaffiare a mia volta.

È ciò che fa Maia?

Sì, è un processo che va svolto insieme. Decide di non avere più il controllo sulla sua natura. Stessa natura che, nel film, è metafora a sua volta. È un’ambiente che ti avvolge a trecentosessanta gradi. E, in questo luogo in cui la ragazza si abbandona, decide di seguire il corso del tempo e delle cose, compreso il suo inevitabile esplodere. In un certo senso qualcosa di Maia muore, ma la ragazza non sparisce, si sublima semplicemente in qualcos’altro. E si ritorna di nuovo allo sbocciare, in cui una parte di te va avanti, mentre un’altra viene per forza abbandonata. È ciò che avviene nella vita, e non solo una volta. Sbocciamo e appassiamo continuamente.

Quindi Clorofilla non è soltanto un coming of age?

Non solo, anche se il suo racconto si lega molto alla giovinezza. Maia parla della prima volta che ha avuto il ciclo e di come per lei è cambiato tutto. Anche per me è stato traumatico. È una cosa che ho cercato di rinnegare e in questo mi sono ritrovata molto in lei. Ma nel tempo ho capito che faceva parte della mia femminilità, che è ciò a cui arriva anche la protagonista.

Femminilità che è centrale in Clorofilla.

Mi piace che Maia sia molto femminile. Il corpo femminile viene sempre posto sotto un controllo esterno e mi piace che lei, invece, ci si perda. La scena stessa dell’orgasmo, per me, non è l’apice della sua espressione sessuale o femminile, ma solo un dettaglio. È nel potersi non nascondere, non negare se stessi che ci si può esprimere al massimo.

Quindi l’accettazione della natura di Maia può essere letta come quella del ruolo della donna nella società?

Per me è ovvio che sia così. Il viaggio stesso che compie la ragazza ha come scopo l’accettazione di chi e cosa si è. La scoperta del proprio corpo è una delle tappe che deve intraprendere e che rende il discorso molto politico. Il suo è un fisico che usa, consuma, si logora, che utilizza tutto quello che ha a disposizione. E il rapporto col personaggio di Teo dimostra che la componente sessuale, nel senso di erotica, è irrilevante. Non è il punto di partenza. Ci sono tantissimi altri modi per imparare a conoscere questo contenitore di pelle che ci portiamo dietro, e ci sono infiniti modi per far sentire all’altro che possiamo prenderci cura di lui.

Anche se ci si sente un mostro?

Sì, e in quel caso è necessario guardare la paura in faccia e abbatterla tramite la conoscenza. Non fingendo di essere coraggiosi, ma rendendosi consapevoli. Maia per me è un mostro. Questo è il bello. Anche gli esseri umani sanno essere mostruosi, è colpa del nostro istinto di sopravvivenza, ma non vuol dire che non possiamo imparare ad essere gentili.

Metti in atto questo istinto di sopravvivenza nel tuo mestiere da attrice?

Provo ad essere coraggiosa. Cerco di essere presente, di realizzare cose belle, di espormi nei miei lavori. Tento di non farmi superare dalla vergogna, mi spingo oltre perché anche se capita che possa sentirmi ridicola, so che durerebbe pochi minuti. Mi renderei conto che non sono morta e che i problemi sono altri.

L’odore ha una rilevanza nei discorsi sul corpo di Maia?

Come attrice attivo tutti e cinque i sensi per recitare. Cerco di cessare il pensiero discorsivo, prediligendo l’istinto. L’olfatto riaccende i ricordi. Mia nonna è scomparsa da poco ed io passo il tempo ad annusare i suoi maglioni nella speranza di recuperarla. È come la musica, ha un’energia che risveglia la memoria, e forse è proprio l’odore a rimandare al calore di una persona. È molto bello quello che fa Teo nel film, perché ancora prima che Maia si trasformi in natura spera di tenerla in vita col suo profumo.

Qual è il suo rapporto con la natura? È cambiato dopo le riprese di Clorofilla?

È stato un dono poter fare le riprese in Sardegna. C’è la parte di Oristano che è incontaminata, selvaggia, bellissima. Percepisci il rispetto che gli abitanti provano per il luogo. Durante il set la natura mi ha davvero salvata. Ho capito quanto può essere conciliante. La natura si metteva in mezzo tutte le volte che tra esseri umani non ci si capiva. Nei momenti di maggiore stress guardavo le cime degli alberi e mi sentivo meglio. È incredibile pensare che sei circondato da un organismo pensante e organizzato, che ha i suoi ritmi e le sue regole, in grado di comunicare con ogni propria parte. Mi rassicura, è più ampio di qualsiasi cosa l’uomo possa anche solo immaginare. Poi mi rendo conto che, ormai, è quasi mainstream parlare di quanto faccia bene perdersi nella natura. Vengo anche da una famiglia che pratica giardinaggio, eppure quando ho provato a dedicarmi alla permacultura ho fallito miseramente.

Pensa che il fantasy possa contribuire a rivelare la realtà?

Può aiutare a trovare delle soluzioni non reali per un mondo reale. Lo fanno i cartoni animati, per questo mi piacciono un sacco. Trovo però che se un film vuole dire qualcosa, a prescindere dal genere, debba farlo prima ancora che arrivi sullo schermo. Clorofilla parla del rapporto con la natura? Allora per me è importante che la natura venga rispettata durante le riprese, e infatti abbiamo seguito tutti i protocolli di una produzione green.

Ha parlato di annaffiarsi a vicenda. È successo anche con i suoi colleghi sul set, Michele Ragno e Domenico De Meo?

Con Michele abbiamo fatto tante prove e abbiamo instaurato il rapporto tra Maia e Teo come fosse un aiuto reciproco per il superamento di un lutto. Col personaggio interpretato da Domenico, l’Arturo fratello di Teo, la protagonista cerca di trovare una soluzione al suo sentirsi inadeguata, forzando molto il suo corpo, ma arrivando proprio attraverso a questa frizione alla conoscenza di se stessa. È stato un percorso stimolante e insieme a Ivana Gloria si è creato un vero e proprio terreno di discussione. È una regista dall’identità artistica molto forte e ci siamo affidati alla sua follia in maniera logica.