Caccia tragica è un film di Giuseppe De Santis del 1946 con Andrea Checchi, Massimo Girotti, Carla del Poggio che racconta di una cooperativa di contadini rapinata dei sussidi governativi necessari per pagare l’affitto ad un dispotico proprietario terriero.
Perché iniziare un ricordo di Paolo Taviani parlando di un film del 1946? De Santis è stato un regista comunista (come lo furono i fratelli Taviani), e nonostante questo è stato insieme a Germi, che non era comunista neanche un po’, il regista che ha saputo metabolizzare nel neorealismo la grande eredità di genere del cinema hollywoodiano: Caccia tragica ha una forza visiva ed una ricchezza di progressioni e cambi di ritmo che tuttora lasciano sorpreso lo spettatore. Gli ampi movimenti di macchina (il bellissimo carrello iniziale, le panoramiche che cercano e costruiscono l’azione tra le paludi di Comacchio), l’uso di un intreccio da gangster film, ne fanno un noir rurale marxista senza precedenti. “Solo De Santis saprà leggere la distruzione bellica anche nella campagna e nel paesaggio”, scrisse Alberto Farassino.
L’ultima volta che Paolo Taviani è stato ospite a casa mia scoprì che ne avevo una copia in dvd (è un film molto raro: me ne chiese una copia anche Tornatore). Gli dissi che glielo avrei prestato volentieri, che mi faceva molto piacere che lo rivedesse se ne aveva voglia. Paolo Taviani aveva in mano il dvd e tentennava. Guardava il dvd, guardava me. Io lo guardai in attesa con un leggero punto di domanda negli occhi. “Non so se prenderlo”. E perché? “Non sono più sicuro di riuscire a ricordarmi di restituirlo. E neanche di farlo prima che non ci sarò più”.
Risate. L’ansia dissimulata nel contenuto delle parole si liberò nell’allegro stoicismo dello humour.
Le sequenze notturne dei Taviani
Ho conosciuto i fratelli Taviani nel modo più gratificante che un critico cinematografico possa conoscere: mi chiamarono loro perché avevano letto qualcosa di mio, sul loro cinema, che li aveva colpiti. Avevo scritto per una mini retrospettiva sulla loro opera uno studiolo che si intitolava “Il cinema anche di notte” e che, tra La notte di San Lorenzo e Il sole di notte, il buio della Sicilia di Un uomo da bruciare e Kaos e quello della prigione di San Michele aveva un gallo, faceva un percorso nel loro cinema attraverso tutte le sequenze notturne.
L’effetto di questo apprezzamento fu innanzitutto il fatto che accettarono di recarsi a Treviso (dove c’era un assessore leghista che aveva organizzato una retrospettiva su di loro: a metà degli anni ’90, mi rendo conto, la Lega non doveva aver ben chiaro ancora quali erano i suoi punti di riferimento) e che diventammo nel tempo piuttosto amici. In quegli anni ho avuto anche il privilegio di leggere in anteprima le loro sceneggiature perché l’ufficio cinema di Mediaset, dove lavoravo come story editor, contribuì con Giuseppe Cereda, che aveva fatto con Paolo Valmarana in Rai il miglior cinema italiano, a produrre dei loro film (anche questo faccio fatica a crederlo mentre lo scrivo).
Ho parlato con loro a lungo di The Dead e del film che John Huston trasse dal racconto di Joyce (amatissimo dalla madre dei Taviani). Ho sempre pensato che quello sia il miglior film di un regista più importante che bravo (John Huston, il grande regista che non ha mai fatto un grande film: scrisse un noto critico in America, Andrew Sarris), loro invece amavano Huston e pensavano che il racconto fosse decisamente più bello del film. Ho portato a casa loro Arthur Penn, quando feci con lui un incontro in Auditorium a Roma (Penn amava i loro film e tra di loro si scambiavano sguardi di amicizia e fratellanza come se avessero giocato nella stessa squadra di qualche sport) e ho ricevuto da loro confidenze strepitose.
E Morricone distoglieva lo sguardo
Cosa disse Nanni Moretti quando i due fratelli dovettero comunicargli che nel personaggio di protagonista del Prato non funzionava affatto e sarebbe stato sostituto da Michele Placido? “E ora, chi glielo dice a mia madre”. Il prato è uno dei loro film meno fortunati ma ha una delle più belle colonne sonore di Ennio Morricone. A proposito del quale mi raccontarono la storia più gustosa. D’Alema commissionò qualche anno fa un inno del Pd a Morricone.
Per avere un giudizio sul risultato D’Alema la fece sentire ai due fratelli. Che la trovarono terribile: soprattutto Vittorio, il quale espresse il suo parere con brutale franchezza. Da allora, i due notarono che Morricone, tutte le volte che li incontrava, li sfuggiva o li guardava con qualcosa che a loro somigliava proprio ad un malcelato rancore. Vuoi vedere che “D’Alema ha avuto la perfidia di raccontargli cosa ne pensavamo?”, mi disse Paolo.
Cambiare il mondo con il cinema
Vittorio era più anziano, ma era Paolo a essere più protettivo: mi raccontò con incondizionato sconforto che Vittorio aveva interpretato come segno della fine imminente lo strepitoso tracollo alle ultime elezioni del Pd. Si può sorridere, ma nessun Paese ha avuto una stagione cinematografica come quella del nostro secondo dopoguerra in cui chi creava film pensava davvero che potessero rendere questo mondo un posto migliore e che proprio per questa ragione non era possibile non avere un rapporto solido con la politica.
Paolo era più diplomatico, Vittorio più schietto ma erano due fratelli incredibili: come si fa a fare i film come i loro facendo una inquadratura a testa? Come cavolo si fa? Erano colti, aperti, curiosi di chiunque incontrassero. In genere i registi fingono di essere curiosi dell’interlocutore, lo fanno per dovere (e ciò mi spinge più in allarme del loro aperto narcisismo). Io non mi sono mai sentito a casa con nessun altro regista, alla stessa maniera.
Solo su una cosa serbavano il segreto più irraggiungibile. Che cosa avete scoperto l’uno dell’altro visto che avete condiviso quanto di più intimo come l’esercizio di creare storie, personaggi, emozioni? “Ciò che abbiamo scoperto riguarda solo noi stessi e di ciò parliamo solo tra di noi”.
Se chiedi ai due D’Innocenzo se si sentono fratelli cinematografici come i Coen e i Taviani, ti rispondono con un po’ di alterigia che loro non sono fratelli ma gemelli: “Se mio fratello fa la doccia e io sono in metro, lo sento”. I due Taviani erano diventati gemelli con il cinema: il linguaggio misterioso attraverso il quale presidiavano il segreto della loro eterna coesistenza.
Dalla rostinciana a Pirandello
Erano incredibili, ma anche divertenti. Il giorno che venne a pranzo a casa mia, mio figlio – che come molti trentenni oggi, ama cucinare – preparò del “pulled pork”. “Che cos’è, che cos’è questo?” disse Paolo. Gli dissi il nome in inglese. Lo assaggiò. “Tu lo chiami pulled pork – disse – ma noi da secoli lo chiamiamo rostinciana”.
Ora che Paolo non c’è più e che si possono raccontare le sue storie – di un famoso critico cinematografico che li aveva perseguitati, come aveva fatto prima con Fellini o Verdone, salvo poi cambiare idea, disse: “ha passato metà della propria vita a stroncare e l’altra metà a scusarsi d’averlo fatto” – dovremo iniziare a guardare i loro film “con gli occhi di chi non c‘è più”, come fecero dire a Pirandello in Kaos. Io lo farò sapendo che in casa sua c’è ancora quel dvd che sono orgoglioso di non aver più avuto indietro.
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