Giordano De Plano: “Mi interessa interpretare il difetto, la magagna. È lì che si identifica il pubblico”

"Sono il primo avvocato difensore del mio personaggio, se comincio a giudicarlo è finita", racconta l'attore parlando del ruolo chiamato a interpretare in Una storia nera, thriller diretto da Leonardo D'Agostini con Laetitia Casta, in cui presta il volto a un marito violento. E che vedremo in Come crimini e misfatti di Alessio Pascucci: "Se ci va male, non ci guarderà nessuno. Ma se va bene, può essere veramente un gioiellino. È una vera follia". L'intervista di THR Roma

Se c’è un attore in Italia capace di interpretare quelli che comunemente e sbrigativamente vengono appellati come cattivi, beh quell’attore risponde al nome di Giordano De Plano. Ma attenzione: niente etichette. Perché De Plano, romano classe 1973, il materiale emotivo e i registri interpretativi li maneggia con una certa disinvoltura. Basta guardare alla sua filmografia che spazia dagli esordi con Paz! di Renato De Maria a Gente di Roma di Ettore Scola passando per Confidenza di Daniele Luchetti o I soliti idioti. “Se vado fuori dai binari, mi riporti su quelli giusti” chiede a THR Roma mentre lo intervistiamo per Una storia nera, thriller diretto da Leonardo D’Agostini tratto dal romanzo di Antonella Lattanzi – in sala dal 16 maggio – in cui recita al fianco di Laetitia Casta nei panni di un marito violento.

Una coppia separata la loro che si ritrova sotto lo stesso tetto per il compleanno della figlia più piccola. Una serata passata insieme dopo la quale però non si avranno più sue notizie. Un film dalla tematica attuale capace, inoltre, di costringere lo spettatore a porsi delle domande che non necessariamente conducono a una risposta ma aprono un dibattito. “Sono il primo avvocato difensore del mio personaggio, se comincio a giudicarlo è finita. In una sequenza dovevo essere violento nei confronti del personaggio di Laetitia. C’è stato un momento in cui mi sono giudicato, mi sono visto da fuori, ho rischiato di bloccarmi e rovinare anche la scena. Invece no, quando sei lì devi farlo. Fine della storia”.

Una scena di Una storia nera

Una scena di Una storia nera. Foto di Fabio Lovino

In questi giorni è sul set. A cosa sta lavorando?

Un’opera prima, stiamo girando a Fabriano. Il regista è Alessio Pascucci e il titolo Come crimini e misfatti. Oltre a un cast artistico di tutto rispetto che comprende Fortunato Cerlino, Enrico Borello e Marlon Joubert, è una commedia assurda. Un film che mischia più generi. La storia di un aspirante sceneggiatore e un aspirante regista che stanno tentando di scrivere un film. Mentre lo raccontano prende forma. Un po’ come Crimini e misfatti di Woody Allen. E poi ci sono tantissime citazioni volute di vari film come Seven o I soliti sospetti. Per noi attori è un divertimento continuo. Ho le stesse sensazioni che ho avuto quando ho girato La terra dell’abbastanza dei fratelli D’Innocenzo. Se ci va male, non ci guarderà nessuno. Ma se va bene, può essere veramente un gioiellino. Perché è una vera follia.

A proposito di opere prime, Andrea Sartoretti con il quale ha lavorato in A Tor Bella Monaca non piove mai, ha dichiarato a THR Roma che se le va a cercare. Nella sua carriera, dai D’Innocenzo e Claudio Noce, ce ne sono parecchie. Anche per lei è lo stesso?

Sposo appieno la linea Sartoretti (ride, ndr). Anche a me piace molto avere a che fare con le opere prime. Come, per esempio, La terra dell’abbastanza. Da lì a pochi anni i D’Innocenzo si sono imposti come forse i migliori registi degli ultimi vent’anni in Italia. Se sei fortunato hai a che fare con registi giovani alla loro prima esperienza. Sono pieni di passione e, si spera, ancora poco corrotti da tutto il sistema che gira intorno al cinema. E quindi spesso anche liberi di portare avanti le proprie idee. Un’opera prima va a braccetto con budget più o meno limitati e questo significa, paradossalmente, avere molta più libertà sul set. Quando ho avuto a che fare con delle opere prime sono sempre stato scelto e questo a me mi gratifica molto perché vuol dire che il regista ha pensato a me.

A distanza di poche settimane è protagonista al cinema di due film, Confidenza di Daniele Luchetti e Una storia nera di Leonardo D’Agostini. Entrambi costringono gli spettatori a non essere passivi, a interrogarsi. È questo il cinema che la interessa?

Assolutamente sì, però qui entriamo nell’ambito della coincidenza. Nel senso che io, ahimè, non sono ancora un tipo di attore che può permettersi di scegliere cosa fare. Sono pochissimi gli attori in Italia che hanno questo lusso. Prendo quello che viene e fino ad adesso mi è andata abbastanza bene. Perché i due film che ha citato sono tratti da due romanzi. Il primo di Domenico Starnone e il secondo di Antonella Lattanzi: due grandissimi scrittori. Se il film parte da una scocca del genere, è ovvio che poi c’è del materiale molto approfondito sul quale un attore può aderire. Nell’opera di Lucchetti, fondamentalmente, sono presente in due o tre scene. Non di più. Però è un personaggio ben definito – e questo non lo dico io, ho avuto tanti feedback in questo senso – che lascia la possibilità di immaginarti qualcosa di più.

E per Una storia nera?

Lì stiamo su un altro genere. Il personaggio è, se vogliamo definirlo, il cattivo della situazione. Anche se ovviamente non mi ci sono approcciato in quanto tale. Nel film, per forza di cose, la relazione tra il mio personaggio e quello di Laetitia Casta è accennata con qualche flashback. Nel romanzo è raccontata più approfonditamente. E quindi forse si capisce anche meglio quello che è il loro rapporto. Che non è soltanto schiaffi. Almeno io mi sono avvicinato a questo personaggio in questo senso. Può sembrare strano, ma lo schiaffo per me parte come un abbraccio.

Quello che dice lo racconta molto bene anche il personaggio di Carla sul banco degli imputati quando parla della complessità della relazione con Vito e sul perché è rimasta con lui per tutto quel tempo.

Nel film Vito è descritto come un padre ideale. Affettuoso con i figli e impeccabile sul lavoro. Fatta eccezione per la moglie, è l’uomo ideale. E quindi, appunto, è molto più complessa la situazione. C’è una battuta molto significativa per il mio personaggio. Quando suo figlio, interpretato da Andrea Carpenzano, va a parlare con la sua amante, lei a un certo punto dice: “A me non ha mai picchiato perché non mi amava”. Ma ci tengo a sottolineare che non lo giustifico. Però le confesso una cosa.

Giordano De Plano e Laetitia Casta in Una storia nera

Giordano De Plano e Laetitia Casta in Una storia nera. Courtesy of 01 Distribution

Quale?

Prima dell’uscita in sala abbiamo fatto un paio di proiezioni. Avevo molta paura di questo personaggio, di come potesse essere percepito. Temevo che non passassero certe sfumature. Alla fine tutti mi hanno detto che è cattivo, ma non è soltanto quello. Si vede che c’è anche una vulnerabilità, una fragilità. C’è qualcosa di più e questo mi ha molto confortato, speravo passassero certe cose. Specialmente in un periodo storico come questo, dove è un attimo essere mal interpretati. Da un lato ero spaventato, dall’altro mi interessava frequentare questa zona perché non sono assolutamente così. Anzi, tutt’altro.

Nel frequentare questa zona, nella preparazione del personaggio le è capitato di parlare con degli uomini che stanno affrontando un percorso terapeutico?

Sarò onesto: no. Non ci ho proprio pensato perché mi sono basato principalmente sul romanzo di Lattanzi, dove è spiegato molto bene, e sulle informazioni che c’erano nella sceneggiatura. Ovviamente ho parlato con Leonardo prima di affrontare questa cosa. Anche lui mi diceva che non voleva dipingere un personaggio a senso unico. “Cerchiamo le sfumature perché ci sono”. E in questo ci siamo impegnati a vicenda nel farlo. Non ho voluto approfondirlo più di tanto con esperienze reali di altri uomini perché, lì per lì, non ho mai pensato di interpretare un cattivo. Sono il primo avvocato difensore del mio personaggio, se comincio a giudicarlo è finita. In una sequenza dovevo essere violento nei confronti di Laetitia. C’è stato un momento in cui mi sono giudicato, mi sono visto da fuori, ho rischiato di bloccarmi e rovinare anche la scena. Invece no, quando sei lì devi farlo. Fine della storia.

Poco fa ha detto che non può permettersi di scegliere. Ha mai pensato di non aver avuto lo spazio che merita? Che il cinema italiano sia un po’ in debito con lei?

A 51 anni, forse, certe domande me le faccio neanche più. E poi non vorrei passare per un attore che si lamenta. Sappiamo benissimo che in Italia il cinema si fa con certe regole. Ogni tanto la mia agente mi dice: “Hai fatto un provino incredibile, però vogliono il nome”. Ma che vuole dire? Io ho un nome e pure un cognome. Spero che a un certo punto anche io abbia la possibilità di passare tra quelli che ne hanno ufficialmente uno. Ma non so neanche che cosa significhi. Magari non ho un nome come lo intendono loro, però sicuramente ho un’identità molto chiara che mi sono costruito nell’arco di venticinque anni. Ecco: forse rivendico più l’identità che il fantomatico nome.

Qual è il suo rapporto con la romanità?

Sul lavoro l’ho riscoperta negli ultimi dieci anni. Mi ricordo quando avevo venticinque anni e cominciavo i primi studi di recitazione. Ci privavano del dialetto. Bisognava parlare l’italiano neutro, che non esiste in Italia. Questo ha fatto sì che la mia generazione di attori spesso lo mettesse un po’ da parte. Da qualche anno me ne sono riappropriato, perché sono convinto che un attore debba frequentare più i dialetti invece che questo “italiano doppiaggese”. Sono fiero della mia romanità e so che quando mi esprimo in romano mi vado a connettere con la radice, con la terra. C’è gran parte del mio essere.

Giordano De Plano

Giordano De Plano. Courtesy of Al Management

Lei è un grande appassionato di cinema.

Sì, sono principalmente uno spettatore.

E nel suo spaziare tra più visioni crede che alcune produzioni o piattaforme tendano ad offrire al pubblico titoli che non permettono loro di farsi domande?

Assolutamente sì. Film come Confidenza o Una storia nera fanno sì che lo spettatore alla fine qualche domanda se la ponga. Non sono preconfezionati, non rispondono al famoso algoritmo che io odio e che Boris ha fatto bene a raffigurare come una scimmia. Ora si ha questa tendenza, ma non soltanto nel cinema, a mettere in piedi un progetto che risponda a tutte le richieste del pubblico. Ma questo pubblico dove sta? Come puoi fare un film sapendo che piacerà? È impossibile, ma è anche sbagliato. Preferisco film assolutamente divisivi invece di quelli che fanno contenti tutti.

Va da sé che queste piattaforme che hanno a che fare con tanti paesi debbano in qualche modo accontentare tutti. Però, poi, fondamentalmente non accontentano nessuno. Fanno film sintetici. E non puoi privare il pubblico dal fare la sua parte. Un film non deve raccontare tutto, non deve rispondere a tutte le domande. Anzi, semmai devi porne altre. È questo ha a che fare con questi personaggi che ultimamente mi capita di interpretare. Come attore mi interessa interpretare il difetto, non il pregio. Perché è nel difetto, nella magagna, che si identifica il pubblico. Si identifica in Clark Kent e non in Superman, citando Tarantino. È una verità assoluta.

Ha studiato al Cine-TV Rossellini per diventare fumettista.

Sì, ho una specializzazione in tecnica di animazione.

Giordano De Plano e Isabella Ferrari in Confidenza

Giordano De Plano e Isabella Ferrari in Confidenza. Courtesy of Vision Distribution

E in che modo questo è presente nella sua vita oggi?

Fondamentalmente è la stessa cosa. Invece che disegnarli con la matita, li disegno davanti alla macchina da presa. Ero entrato lì perché volevo diventare il nuovo Andrea Pazienza. Ero molto bravo a disegnare. Mi aveva insegnato mio padre ed era una cosa che facevo molto con lui. Il primo anno il mio insegnante era Niso Ramponi, uno dei più grandi disegnatori e illustratori italiani. Senza volerlo, creavo questi personaggi lunghi, dinoccolati, simili a me.

E lui mi diceva: “Vedi, noi tendiamo sempre a rappresentarci in qualche modo. Quindi istintivamente scegli come personaggio della tua storia un tuo alter ego”. Ed è la stessa cosa che mi sono ritrovato a vivere facendo l’attore. Non voglio dire che ogni volta porto me stesso in scena. Però sicuramente quando devo fare un personaggio – che sia un uomo che picchia la donna, il boss di Christian o caratteri lontani da me anni luce – il mio interesse è quello di andare a trovare qualcosa che mi leghi a questa cosa qua.

È consapevole che sembra uscito da un film americano degli anni Settanta?

Magari, ma anche italiano non sarebbe male (ride, ndr).

Cè’ un titolo di quegli anni per il quale avrebbe fatto carte false per essere tra i protagonisti?

Wow, che domanda. Gliene dico due. Taxi Driver e Quel pomeriggio di un giorno da cani nei ruoli, ovviamente, di Robert De Niro o Al Pacino. Anche se in Quel pomeriggio di un giorno da cani mi accontenterei anche di fare il ruolo John Cazale (ride, ndr). Questi due film sono stati il mio imprinting. Mi hanno proprio fatto dire: “Cazzo, voglio fare quella roba là”. Se invece parliamo dell’Italia, Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Però quasi mi vergogno a dirla questa cosa, perché stiamo scomodando tre divinità di questo mestiere.

Crede che oggi ci siano divinità come quelle nel cinema mondiale? Oppure quell’epoca è finita?

C’è una battuta bellissima nel film che sto girando e che dice: “Dio è un lusso che non posso più permettermi”. Ecco, questa è la risposta (ride, ndr).