Intervista a Michel Gondry: Le Livre des solutions, il film mancato su Rin Tin Tin e quando girò un documentario su uno scarafaggio 

Il regista riflette da Cannes sulla sua carriera a Hollywood e su Spike Jonze, e spiega perché potrebbe rivolgersi all'intelligenza artificiale. E conferma che sì, si sente da sempre e ancora un dodicenne. E che il giorno dell'uscita di Eternal Sunshine of Spotless Mind è stato il più brutto della sua vita

Ha vinto un Oscar per Se mi lasci ti cancello Michel Gondry ed è amato in tutto il mondo per la sua estetica lo-fi e artigianale, il suo è un DNA visivo ricco di immaginazione che ha mostrato generosamente in diversi decenni di lavoro, dai video musicali (si pensi al fondamentale Around the World dei Daft Punk) agli spot pubblicitari (come il pluripremiato Drugstore per Levi’s), ai cortometraggi (tra cui One Day, in cui viene cacciato dal cubicolo del bagno da David Cross, vestito da escremento gigante), fino ai documentari (Is the Man Who Is Tall Happy?, con Noam Chomsky) e ai lungometraggi (il delizioso Be Kind Rewind – Gli acchiappafilm).

Anche se è raro che Michel Gondry non riversi da qualche parte la sua creatività (di recente si è dedicato alla televisione con Kidding – Il fantastico mondo di Mr. Pickles, interpretata da Jim Carrey), la produzione di lungometraggi del cosiddetto Principe Ereditario delle Bizzarrie è stata molto meno prolifica negli ultimi tempi, dato che l’ultimo film risale al 2015 (l’assai stravagante Microbo & Gasolina). Fortunatamente, la situazione è destinata a cambiare a Cannes, con Le Livre des solutions, presentato in anteprima alla Quinzaine des Cinéastes (fino all’anno scorso des Realisateurs – ndt).

Per un regista che utilizza spesso la propria vita e la propria personalità come fonti di ispirazione, il film è probabilmente il suo più apertamente autobiografico finora. Liberamente basato sul periodo in cui era in fase di post-produzione del suo film di fantascienza surrealista del 2013 Mood Indigo – La schiuma dei giorni, ed è scappato via per finirlo “perché non volevo avere alcun input dai produttori”, il film ha come protagonista Pierre Niney nei panni di un regista il cui progetto è andato a rotoli e che fugge con il girato in una casa di campagna per terminarlo con la sua pazientissima squadra. Lì, tutti diventano ostaggio degli sbalzi d’umore maniacali, dell’egocentrismo e del desiderio del regista (in qualche modo simile a Gondry) di fare qualsiasi cosa – qualsiasi – pur di non sedersi a guardare il suo film, con procrastinazioni che includono la fabbricazione di una sedia, simulazioni di corse in macchina verso l’ospedale nel caso in cui dovesse portarci la zia settantacinquenne (che sta benissimo), la costruzione di un elaborato e del tutto inutile camioncino per il montaggio (premere il clacson per tagliare!) e due giorni passati a girare un documentario su una formica. Alcune cose, ammette Gondry, non sono poi così lontane dalle sue esperienze personali (beh, non era proprio una formica). E naturalmente, Le Livre des solutions non manca del suo tocco analogico e – sì – bizzarro.

Parlando con The Hollywood Reporter, Gondry riflette sulla sua carriera hollywoodiana e ipotizza che sia iniziata solo perché sapeva che Spike Jonze era in agguato dietro l’angolo, anche se forse è stata ostacolata dal fatto che ha iniziato a lavorare troppo presto con uno scrittore del calibro di Charlie Kaufman (uno che fa sembrare le altre sceneggiature “tutte molto noiose”).

Questo è il suo primo film dal 2015. Dato che parla di un regista che non riesce a stare fermo e finire un film, è forse una spiegazione del perché sia passato così tanto tempo?

Beh, ho fatto una serie tv, molte pubblicità, e poi c’è stata la pandemia, e ho creato molti cortometraggi animati per mia figlia. Ora ha 8 anni, ma quando ho iniziato aveva 2 o 3 anni. E stiamo iniziando a trasformarli in un film. Quindi non mi sembra di non aver fatto nulla. È la cosa principale che sento dire su di me e sento che dovrei fare qualcosa per correggerla, perché non sento di aver rallentato.

No, non stavo affatto insinuando che lei non si fosse dato da fare: sono perfettamente consapevole della sua produzione degli ultimi anni. Mi riferivo solo ai lungometraggi. C’è forse un motivo per cui questo è il suo primo film dopo tanto tempo?

Ho lavorato a dei progetti, ma alla fine non mi piacevano abbastanza. Ho lavorato per circa sei mesi o un anno a un film su Rin Tin Tin, il cane. Ma alla fine mi sono reso conto che il cane non mi piaceva e temevo che potesse mordermi. Così ho rinunciato al progetto.

Le Livre des solutions offre quindi una finestra potenzialmente comica sul suo processo creativo, pieno di elaborate procrastinazioni creative?

È comico, ma dal punto di vista di Marc [il protagonista], non è comico: tutto è più serio che mai. Ma deriva effettivamente dalle mie esperienze: alcune cose le ho fatte, altre no. È una cosa piuttosto personale. Ma le cose che ho fatto non erano casuali, erano fatte con il cuore e avevo la convinzione che fossero innovative. Non stavo solo perdendo tempo. Era sempre qualcosa di molto importante. Così ho pensato che sarebbe stato divertente provare a mostrarlo.

Quindi quali elementi erano veri? Ha mai passato due giorni a lavorare su un documentario su una formica mentre avrebbe dovuto occuparsi della post-produzione di un film?

Beh, non era una formica, era uno scarafaggio, anzi uno scarabeo, qualcosa del genere. Ho perso il nastro e sono rimasto completamente sconvolto. È stata una catastrofe perché mi sembrava di aver fatto la storia.

Il suo regista in Le Livre des solutions, Marc, è un po’ uno stronzo: è egocentrico, maleducato, si approfitta di chi lo circonda. Immagino che lavorare con lei sia molto più piacevole e che le persone che la conoscono non pensino che abbia scritto un film su se stesso…

Beh, in realtà era basato su un momento della mia vita in cui forse non ero così gentile. Ma a Marc in realtà importa degli altri. Pensa solo che tutte le altre piccole cose che fa siano più importanti.

Nel film, si sottolinea che il protagonista ha realizzato uno spot con George Clooney, che ovviamente lei stesso ha fatto (uno spot Nespresso del 2006). Quante altre sovrapposizioni con la sua carriera ci sono in questo film?

Sta a voi scoprirlo! Ma ho inserito la battuta su George Clooney perché nel paesino in cui abbiamo girato – che è il paesino di mia zia, come nel film – le persone sanno chi sono e sono lusingate di vedermi, ma non conoscono affatto il mio lavoro, a parte, appunto, lo spot Nespresso con George Clooney.

Sono passati quasi 20 anni da Se mi lasci ti cancello  e da allora ha girato Be Kind, Rewind – Gli Acchiappafilm e The Green Hornet, ma credo sia giusto dire che non ha mai abbracciato completamente Hollywood. Come vede la sua carriera hollywoodiana?

Credo di averla divisa, a metà, tra Francia e Hollywood. La differenza sta più nei grandi budget di Hollywood. Quando fai un film in studio, hai già la gerarchia con cui devi lavorare, quindi non ti sorprende dover ascoltare più persone rispetto a un piccolo film. Per Se mi lasci ti cancello sono stato molto fortunato ad avere due produttori che ci hanno permesso di prendere il meglio di questi due mondi. Per The Green Hornet è stato un po’ più difficile, perché sono arrivato all’ultimo minuto per sostituire un collega ed è stato più difficile portare le mie idee. Ma recentemente mi è stato chiesto perché non ho fatto più film a Hollywood. La realtà è che avevo molte offerte, ma le sceneggiature non erano abbastanza buone. È molto difficile lavorare dopo aver avuto Charlie Kaufman come sceneggiatore. I copioni sembrano tutti molto noiosi, quindi bisogna sforzarsi molto. Forse è questo il motivo.

Come ha detto, lei continua a realizzare molti cortometraggi. Sono forse più adatti al suo stile artistico e al suo modo di lavorare? 

Secondo me, fare un film è il sogno definitivo. Potrebbe essere anche il dolore definitivo, ma è il rischio che si corre. Con il mio primo film, Human Nature, non riuscivo a credere che stessi facendo un film, perché non era affatto la mia ambizione da bambino, e nemmeno lo era diventato quando facevo video musicali. Quindi ero stupito di poter fare un film e che fosse scritto da Charlie Kaufman. E immaginavo che il giorno in cui avrei visto i manifesti sui muri sarebbe stato il più bello della mia vita. In realtà è stato il più brutto, perché è stato un fiasco. Poi ho riconsiderato l’intera esperienza con una certa prospettiva, ma volevo comunque fare di più. Ero super spaventato. Ed ero davvero terrorizzato mentre preparavo Se mi lasci ti cancello, e credo che l’unico motivo per cui l’ho fatto è che sapevo che se non l’avessi fatto io, l’avrebbe fatto Spike Jonze. Ero davvero preoccupato.

Quindi c’è qualcosa che Spike Jonze ha fatto per cui ha pensato: “Vorrei che non l’avessi fatto, l’avrei fatto io”?

Oh sì! E sono sicuro che anche per lui è così, ma non vuole ammetterlo.

Dato che è noto per la sua estetica artigianale, immagino che non sia troppo preoccupato di essere sostituito dall’intelligenza artificiale. Che cosa ne pensa di questo nuovo spaventoso arrivo?

È vero che la gente mi conosce per le cose fatte a mano, ma ho fatto cose digitali per anni, fin dall’inizio. Ho fatto un video per i Rolling Stones nel 1995 [per Like a Rolling Stone] ed era tutto digitale. Quindi ora vengo messo in questa categoria, ma così è la vita: sempre meglio che essere ignorati. Riesco a vedere quali sono le mie specialità, ma non mi interessa averne. Per quanto riguarda l’intelligenza artificiale, quello che voglio fare è usarla in un modo che non è mai stato usato prima: trovare un’idea divertente e creare qualcosa che sembri davvero diverso. Ho alcune idee, ma non ve le dirò.

Il suo lavoro ha attraversato molti mezzi e generi diversi. Oltre all’IA, c’è qualcosa che le piacerebbe ancora fare?

Un film d’epoca, qualcosa di letterario. Il problema è che la letteratura che mi piace di più è quella russa, e non posso fare un film con attori inglesi o americani che fingono di essere russi. Ma ho molte idee in testa. E ci sono molte piccole cose che non mi piacciono nei brutti film d’epoca, in particolare quelli che prestano troppa attenzione ai dettagli cercando di ricreare l’epoca, e questo sminuisce il lavoro creativo.

Si è descritto come una persona che ha “12 anni da sempre”, e ha realizzato un corto con questo titolo [I’ve Been Twelve Forever, 2003] sulla sua ispirazione. Molte persone vedono la loro creatività intorpidita dall’età, ma non lei. Si sente ancora un dodicenne?

Sì. È difficile, perché quando mi guardo in faccia, come adesso [durante questa chiamata Zoom], non sono io. Sembra che qualcuno mi stia mimando. Ma mi sento più dodicenne che mai.

Traduzione di Nadia Cazzaniga