Bird Box Barcellona, la recensione: un sequel potente che (con poco sforzo) amplifica l’incubo

Sequel dell'horror fantascientifico-apocalittico di Susanne Bier del 2018, il film è tecnicamente impeccabile, ben recitato, con atmosfere inquietanti, e scorre via senza intoppi. Su Netflix dal 14 luglio

Bird Box, l’horror fantascientifico-apocalittico di Susanne Bier per Netflix del 2018, era un minestrone di idee straviste, salvato da un’immensa Sandra Bullock nel ruolo di una donna che con credibile ostinazione si batte contro una minaccia aliena per proteggere i suoi bambini.

Trauma, dolore e famiglie in condizioni estreme sono elementi che ricorrono anche in Bird Box Barcellona, dei fratelli spagnoli Alex e David Pastor, più uno spinoff che un sequel. Si riparte da zero, come nelle serie antologiche, aggiungendo nuovi dettagli che amplificano la minaccia originale senza offrire eccessivi spunti di novità.

Il film è tecnicamente impeccabile, ben recitato, con atmosfere inquietanti e scorre via senza intoppi. Come costola di un contenuto originale di successo, sulla scia degli investimenti di Netflix nella produzione internazionale, ha un suo perché. Ma come film di genere è vago, come se i registi avessero messo insieme a caso elementi di A Quiet Place – Un posto tranquillo, The Last of Us, The Walking Dead e altri incubi distopici sull’umanità spinta sull’orlo dell’estinzione da una forza letale di origine sconosciuta, costretta a sopravvivere in un mondo in cui i pochi sopravvissuti non sanno più di chi fidarsi.

Prendendo le distanze sia dal romanzo originale di Josh Malerman del 2014, che dal personaggio di Malorie, che Bullock aveva interpretato nel primo film, i Pastor vogliono la botte piena e la moglie ubriaca: vogliono spiegare come funzioni il fenomeno – chiunque veda le creature è immediatamente spinto a togliersi la vita – ma anche mantenere un certo livello di mistero. La loro sceneggiatura fa troppo, ma allo stesso tempo non abbastanza, per giustificare una storia da sempre macchinosa e dalla logica traballante.

Lo spostamento dell’ambientazione in un paese cattolico aggiunge alla trama degli elementi religiosi abbastanza intriganti. Un prete con lo sguardo da pazzo, Padre Esteban (Leonardo Sbaraglia), accoglie l’entità letale come un miracolo divino, venuta per liberare le anime perdute dall’inferno della vita terrena. Con un piccolo gruppo di compagni “veggenti”, che hanno assistito al fenomeno ma sono immuni alla sua maledizione, il sacerdote si aggira per le strade, segnando la fronte dei sopravvissuti con un terzo occhio e costringendoli ad accettare il loro destino.

Nello spin off emerge un dettaglio inedito: il lampo di luce emanato dai corpi dopo la morte, come se si trattasse di quella “liberazione spirituale” vagheggiata da Padre Esteban (“il nostro Dio e i suoi angeli sono scesi a camminare sulla terra”). Un uomo in punta di morte parla in preda al delirio: “Le loro navi hanno viaggiato milioni di anni luce per arrivare qui”.

Ma neanche i personaggi più lucidi riescono a comprendere con esattezza la causa dei suicidi di massa. C’è chi vede i demoni e chi gli alieni, chi il proprio aguzzino e chi il proprio dio. Un personaggio interpretato da un sottoutilizzato Diego Calva (Babylon) ipotizza che si tratti di una specie “esseri quantici” che assumono forme fluttuanti, studiano le loro prede e ne assorbono istantaneamente paure, ansie e dolori per manipolarne la mente.

Avvertiamo l’arrivo delle creature attraverso vibrazioni, gemiti, ringhi e un’inquietante folata di vento che solleva da terra foglie e detriti. E a volte osserviamo il mondo con i loro stessi occhi. E tuttavia non ci è consentito di vederle integralmente – solo un breve scorcio nella scena finale.

Sebbene alcuni dei suicidi siano impressionanti per la loro improvvisa violenza, il film è un po’ troppo “vago” per essere considerato un horror d eccessivamente inevitabile nella sua crescente mortalità per creare suspense. Il film non fa abbastanza per convincere il pubblico, con personaggi deboli le cui storie sono per lo più suggerite da voci trasportate dal vento mentre appare la minaccia amorfa.

I fratelli Pastor si erano spinti in territori simili con i precedenti Carriers – Contagio letale, su una minaccia virale mortale, e The Last Days, un altro scenario di sopravvivenza post cataclisma. Nella  costruzione del film ricalcano la struttura a flashback di Bier, presentando il personaggio centrale, Sebastián (Mario Casas), come un uomo disperato, che vaga per le strade con occhiali scuri cercando riparo negli edifici abbandonati di Barcellona mentre cerca di proteggere dal pericolo la figlia undicenne Anna (Alejandra Howard).

Ma dopo aver presentato Sebastián come eroe un fragile, messo in difficoltà da un trio di rapinatori ciechi, la sceneggiatura gioca rapidamente con la nostra percezione, spingendoci a mettere in dubbio le sue motivazioni mentre guadagna la fiducia di una comunità di sopravvissuti dopo l’altra. “Sono il pastore o il lupo?”, si chiede in un momento di crisi, quando le sue azioni gli fanno perdere la fede: un’ambiguità che offre a Casas un ruolo abbastanza interessante da interpretare. Ci rendiamo conto abbastanza presto che Anna non è esattamente ciò che sembra.

Con un flashback di nove mesi, il film ricostruisce l’inizio dell’epidemia. I telegiornali riportano un’ondata di comportamenti psicotici, mentre Sebastián si precipita nelle strade della città sprofondate nel caos per andare a prendere Anna a scuola, evitando per un pelo di essere coinvolto in un suicidio di massa su una banchina della metropolitana.

Ancora un flashback, sette mesi prima: ritroviamo Sebastián, appena accettato tra i membri di una piccola comunità che si nasconde in un rifugio antiatomico. Di questo gruppo fanno parte il leader Rafa (Patrick Criado), la psicologa inglese Claire (Georgina Campbell, che ha avuto più spazio in Barbarian), la turista tedesca preadolescente Sofia (Naila Schuberth), che ha perso la madre nel caos pandemico, la coppia di anziani Roberto (Gonzalo de Castro) e Isabel (Lola Dueñas) e l’Octavio di Calva.

L’elemento centrale della trama ruota intorno al gruppo di sopravvissuti bendati che prova a raggiungere un rifugio sicuro dall’altra parte della città, il Castello di Montjuïc, una fortezza del XVII secolo in cima a una collina accessibile solo con la funivia. Naturalmente il gruppo diminuisce man mano lungo il percorso, con un contingente ridotto di personaggi messi di fronte a una duplice minaccia: la forza ultraterrena e i crociati umani convinti del “miracolo”.

La fortezza è una location suggestiva, ottima per ulteriori sequel. La scenografia di Laia Colet in generale è efficace: anche quando sono visibili i contributi del team di computer grafica, vedere una nave da crociera affondata nel porto, con i ponti ricoperti di cadaveri penzolanti, suggerisce con efficacia l’idea di un mondo privo di pietà o speranza. L’elemento più impressionante del film, tuttavia, è il denso sound design, abilmente miscelato con l’inquietante colonna sonora di Zeltia Montes. Peccato che la storia non riesca ad entrarci dentro con la stessa potenza.