Civil War, reportage generazionale. Come si insegna un mestiere mentre il mondo sta finendo

Lee, interpretata da Kirsten Dunst, dà gli strumenti alla Jessie di Cailee Spaeny per diventare una brava fotografa di guerra, unico appiglio di verità mentre gli Usa precipitano nell'abisso. Un passaggio di testimone che si riverbera per tutto il film di Alex Garland. E che fa eco anche alla vita vera (o meglio, al biopic Priscilla di Sofia Coppola)

C’è una scena in Civil War di Alex Garland in cui Jessie (Cailee Spaeny), fotografa appena ventenne che si aggrega al gruppo capitanato dai veterani Lee (Kirsten Dunst), Joel (Wagner Moura) e Sammy (Stephen McKinley Henderson), si accorge di un dettaglio mentre la loro macchina si accosta alla stazione di servizio lungo la strada. La ragazza vede due corpi appesi. O almeno: crede di aver visto due corpi appesi. E crede bene. Nel frattempo, con estrema cautela gli “adulti” cercano di fare benzina, trattando con due loschi figuri con fucili in mano.

Jessie si avvia verso il capannone un poco lontano, con gli uomini picchiati e penzolanti ancora vivi. Mentre si allontana, incosciente come solo la gioventù sa essere – non a caso, tutto il suo viaggio di formazione è fonte di un’incoscienza iniziale, quella di partire con i reporter nel cuore della guerra civile degli Stati Uniti moderni – non si accorge che uno dei forestieri la segue poco distante. Le si avvicina. Jessie guarda con occhi sgranati l’orrore che il giovane, insieme al suo compare, hanno commesso. E ora deve anche rispondere a una sua domanda: cosa fare con loro, sparargli subito o torturarli un altro po’ prima di ucciderli?

Cailee Spaeny è Jessie in Civil War

Cailee Spaeny è Jessie in Civil War

Lee si accorge dell’assenza della ragazza. Avvista Jessie e le va incontro. Boccheggiante, la giovane non sa che fare. Solo l’esperienza di una delle sue paladine potrà salvarla. Sia, forse, dallo sconosciuto armato, sia da un senso di colpa che l’avrebbe attanagliata per il resto della sua vita.

Quando l’improbabile gruppo risale in macchina, Jessie pensa soltanto ad una cosa: non ha scattato nessuna foto. Non ha scattato nemmeno una singola foto. Eppure era andata lì per questo. Era stata lei che, col suo occhio da aspirante reporter di guerra, aveva avvistato qualcosa di anomalo. E aveva avuto ragione. Ma quando è stato il momento di scattare, non ha scattato. Lo ha fatto la sua “mentore”, Lee. Impartendole una delle lezioni che la ragazza apprenderà con zelo durante la loro avventura.

Cosa vede il tuo obiettivo?

La donna, che di conflitti e di morte ne ha visti tanti – e continua a farlo ogni volta che chiude gli occhi – ha convinto l’aguzzino a mettersi in posa con le sue vittime. La vanità che batte l’istinto omicida. Tutti vogliono stare di fronte alla camera, anche i cattivi non resistono alla tentazione. C’è addirittura chi, come Steve Spielberg in The Fablemans, i bulli li ha sconfitti proprio grazie all’obiettivo, rendendoli ragazzi d’oro. Jessie, per la prima volta, si è resa conto che la sua umanità è un pregio che andrà a confliggere con il mestiere che ha scelto. Glielo ha spiegato Lee, glielo ha mostrato. Da quel momento in poi, saprà sempre cosa dovrà fare: scattare. Solo e soltanto scattare.

Mentre in Civil War gli Usa sono nel pieno di un precipizio annunciato, dove si aspetta di avere la testa del presidente servita su un piatto d’argento, un principio di “inizio” lo si può cogliere in uno dei temi trasversali, ma mai lasciati da parte della pellicola. Forse, addirittura, la sua radice più profonda: un professionismo che ha logorato da dentro la protagonista Lee, ma che l’ha resa la migliore sulla piazza proprio per la sua capacità di addentrarsi nell’inferno.

E, quando è lì, di fotografarlo. Gli Stati Uniti bruciano, California e Texas si lanciano spari e proiettili come se non ci fosse un domani. E un domani non c’è. L’unica parvenza, nell’opera di Alex Garland, è in quell’eredità che Lee sta lasciando a Jessie, tramandandole il segreto di un mestiere.

Cailee Spaney e Kirsten Dunst in una scena di Civil War

Cailee Spaney e Kirsten Dunst in una scena di Civil War

È, a suo modo, un tentativo per accendere una scintilla dove ormai regna l’abisso. È l’elogio del regista e sceneggiatore a un lavoro e, con un respiro più ampio, a un passaggio di testimone che verrà intessuto per l’intero film. Sebbene all’inizio Lee non vuole che Jessie intraprenda insieme a loro l’attraversata mortale, finisce per convincersi che l’unica maniera per proteggerla è fornirle gli strumenti necessari per sopravvivere. Come persona e come fotografa.

“Noi non chiediamo. Noi registriamo perché gli altri chiedano”. L’assenza di attaccamento e di empatia non è, dunque, mero egoismo, bensì meccanismo affinché vengano soverchiate e portate a galla le atrocità che l’essere umano è in grado di compiere.

L’obiettivo, perciò, è l’unico occhio con cui guardare, il solo. Non esiste più un intermediario, il velo di Maya è stato scalfito dalla macchina fotografica, che ritrae la realtà nella sua materia più dura e cruda. Non c’è nulla che può mettersi tra chi fotografa e ciò che viene fotografato. Se dovessi morire, chiede Jessie, Lee cosa farebbe in quell’istante? Scatterebbe una foto. È l’unica cosa a cui pensare. Scattare. Scattare sempre. Non interferire mai con gli accadimenti, ma fare in modo che vengano impressi sul rullino. Un altro ammonimento che Jessie assorbirà a pieno. E quando la morte si presenterà davanti al suo, di obiettivo, saprà benissimo come immortalarla.

Da Civil War a Priscilla, passaggi di testimone

Nello spalleggiarsi di una mentore con la sua allieva, di una generazione che non chiude il proprio mestiere, ma lo apre a chi verrà in futuro, il legame Dunst-Spaeny riverbera in Civil War quasi quanto fatto fuori dal set del film di Garland.

Kirsten Dunst è Lee in Civil War

Kirsten Dunst è Lee in Civil War

Sebbene il loro percorso attoriale sia differente e differenziato, è stata proprio la musa di Sofia Coppola a vedere nell’interprete di 7 sconosciuti a El Royale e Devs (anche questa serie del regista di Ex Machina) la sad girl di Priscilla. Nonché a proporla alla regista e sceneggiatrice che la fece accedere all’Olimpo delle icone del cinema pop tra gli anni novanta e duemila, dall’adolescenza della periferia statunitense de Il giardino delle vergini suicide alla noia regale di Marie Antoinette (Coppola e Dunst collaborarono poi nel 2013 per Bling Ring e nel 2017 per L’inganno).

Quando Kirsten Dunst vestì i panni settecenteschi della delfina di Francia aveva 23 anni. Cailee Spaeny, mentre girava Priscilla, 24. “Credo che Kirsten abbia creduto in me e abbia apprezzato quello che ho fatto in Civil War di Alex Garland”, ha raccontato la giovane in un’intervista a The Hollywood Reporter. “È stato divertente che le nostre strade si siano incrociate”.

Ma Dunst stessa ci tiene a precisarlo, su L.A. Times Entertainment: “Non ho mai pensato, mentre giravamo il film, ‘Sei una piccola me’, perché Cailee è già una donna con la sua identità”. Proprio come Lee e Jessie, diverse, ma determinate in ugual maniera, le attrici riverberano una staffetta filmica che avviene dentro e fuori lo schermo.

L’idea che il mestiere inteso come fonte di conoscenza, palestra per crescere e migliorare anche grazie ai consigli dell’altro – che sia il reportage, il giornalismo o la recitazione, qualsiasi – è possibile. È forse uno dei pilastri su cui una società dovrebbe fondarsi, per avere la certezza che potrà andare avanti anche in mezzo alla guerriglia, così che nulla potrà mai perdersi. Così che tutto possa essere fotografato.