Maurizio De Giovanni. Dici Clemart, e pensi subito al grande scrittore napoletano, a quella sua prosa popolare e raffinata che ti accarezza sia che racconti de I bastardi di Pizzofalcone o che ti immerga nella disperazione malinconica e maledetta de Il commissario Ricciardi, sia che percorra la Napoli moderna e periferica o quella più centrale e impaurita, elegante e decadente del fascismo.
Ma Clemart è molto altro, è l’unione di due destini, quello di Gabriella Buontempo, all’alba della sua carriera assistente alla regia di Lina Wertmuller, organizzatrice culturale internazionale soprattutto nella sua Napoli, produttrice; e Massimo Martino, che agli inizi ha lavorato a quella nouvelle vague civile italiana che vedeva come alfieri, dalla seconda metà degli anni ’80, il primo Marco Tullio Giordana e il Ricky Tognazzi di Ultrà e La scorta, il Marco Risi di 365 giorni all’alba o il Michele Placido di Pummarò, fino all’0pera che li vede insieme, il primo alla regia e il secondo come protagonista, il cult amatissimo Mery per sempre.
Cinema allo stato puro, ma anche un’amicizia e un sodalizio profondi e longevi, che si incontrano con La bruttina stagionata (1997) che ricordiamo per i premi e le nomination ma ancora di più per un Fabrizio Gifuni mai più rivisto così sensuale, bizzarro e irresistibile. Clemart è molto più di quelle due saghe partenopee e lo scopriamo proprio con un pomeriggio a chiacchierare con questi due produttori, così diversi e complementari e che condividono il medesimo entusiasmo per piccolo e grande schermo.
Clemart, gli inizi
“Ci conosciamo da tanto, saranno 30 anni. Abbiamo iniziato con due società diverse – rivela Martino – però già allora ci scambiavamo pareri, consigli, ci sfogavamo l’uno con l’altra sui problemi che incontravamo. Ma è dal 2000 che abbiamo iniziato a collaborare insieme ufficialmente, a farlo nella stessa società, dividendoci i compiti non dimenticando mai di confrontarci, di essere l’uno il backup dell’altra. Siamo andati bene fino ad oggi, ma non saprei rivelare il successo di una relazione professionale e umana così lunga, abbiamo imparato cammin facendo, trovando una strada comune. Credo che il nostro modo di vedere l’arte, il cinema, la tv, il percorso della produzione e il desiderio di essere e rimanere indipendenti, pur con grandi ambizioni, abbia aiutato. Noi lavorando prima separati e poi insieme, ci siamo semplicemente riconosciuti”.
“A volte devi ringraziare anche la casualità della vita, oltre quella solida amicizia che è stata la base di tutto – gli fa eco Buontempo -, ma soprattutto le proprie capacità di capire la situazione e capirsi. Non abbiamo deciso i nostri ruoli a prescindere, la divisione delle mansioni è venuta con il tempo e non ha alcuna rigidità, la chimica e l’alchimia sono arrivate così, condite da un’enorme fiducia reciproca. Io vengo più dal mondo editoriale, lui dalla produzione, ci siamo scoperti subito complementari, abbiamo capito che potevamo costruire un percorso in parte parallelo e in parte convergente. Ora sappiamo di essere totalmente intercambiabili nelle decisioni, io non escludo mai lui dalle scelte editoriali e lo ascolto subito se ha qualche idea o ha dei nomi o titoli da suggerirmi, non invado il campo del set che è il suo regno ma se serve ci sono e posso affiancarlo. Tutto avviene condividendo un punto di vista, pur avendo gusti anche diversi, riuscendo a interessare sempre l’altro a ciò che troviamo e allo stesso tempo, accettando le criticità che viene sollevato da chi hai tutti i giorni di fronte”.
Maurizio De Giovanni, la scoperta che ha cambiato tutto
La dimostrazione di quest’armonia è proprio nella scelta dei lavori di Maurizio De Giovanni come architrave del loro sentiero televisivo, popolare e d’autore. “Alcune cose le discutiamo ma se non arriviamo a una quadra, insieme, non ci sono mai azioni di forza – continua la produttrice. A De Giovanni arrivammo insieme, prima del grande successo, lo avevamo cominciato a leggere nello stesso periodo e ci siamo confessati l’ambizione di acquisirne i diritti lo stesso giorno. Aveva già una fanbase importante, ma non era una scelta ovvia, visto la complessità, meravigliosa ma produttivamente non facile, dei suoi mondi”.
Sorride il suo socio e torna indietro di diversi anni. “Io amavo I bastardi di Pizzofalcone, lei veniva da Ricciardi. Era un fenomeno letterario di nicchia, cominciava a vendere bene ma i salotti buoni lo ignoravano e così i media. Ci siamo trovati subito d’accordo sul raccontare il suo immaginario, ma visti i diversi punti di partenza, alla fine abbiamo deciso di comprare i diritti di entrambe le saghe!”.
Un bel salto “se si considera che il genere poliziesco italiano, in Rai, era La squadra, prodotto validissimo, ma lontano dai Bastardi”.
“Senza falsa modestia – prosegue la produttrice napoletana – possiamo dire di essere stati un piccolo spartiacque, anche e soprattutto grazie alla collaborazione editoriale con Maurizio stesso, che abbiamo coinvolto nella costruzione del suo immaginario televisivo, qualcosa di inusuale per le abitudini della nostra industria. E a partire da questo lavoro a tre, se vogliamo usare un termine junghiano, ci sono stati tanti sincronismi grazie all’empatia che si è creata. Noi lo abbiamo portato in Rai, trovando un capostruttura illuminato, lui ci ha aiutato a tradirlo e rispettarlo nel modo giusto, e come noi è un uomo di cervello e cuore, ma anche di pancia. E devo confessarlo, noi – non so se è un bene -, la nostra pancia la ascoltiamo, per noi il cinema è sì un lavoro, ma ancora di più una passione insopprimibile. Dico il cinema perché se devo trovare un comune denominatore a tutti i nostri lavori è la loro qualità cinematografica, qualsiasi sia il loro formato. Per questo noi durante il Covid abbiamo investito, un po’ incoscienti e un po’ visionari, perché alla fine stiamo sempre a seguire i nostri sogni, le nostre speranze”.
Confessano che “con Bastardi siano andati sul velluto, è come se quei romanzi fossero già la sceneggiatura di diverse stagioni di una serie; con Ricciardi, invece, che è il suo capolavoro, ovviamente abbiamo lottato di più, ma questo ha anche portato a un’opera che ha una grande qualità. L’attesa su questo secondo personaggio probabilmente lo ha migliorato, abbiamo saputo cogliere il tempo giusto in cui proporlo, siamo stati pazienti in attesa che maturasse l’epoca giusta. Se pensiamo che all’inizio abbiamo deciso di tenercelo per noi e ora siamo alla terza stagione, quasi non ci crediamo”.
“È un personaggio molto affascinante – ammette Martino -, ma anche produttivamente molto impegnativo, è un lavoro in costume, in un’epoca che non è facile ricostruire, ma noi non ci facciamo mai mancare nulla, adoriamo le sfide difficili”. “E conta che è un genere non facilmente classificabile – si inserisce Buontempo -, perché non è un crime puro, anzi. Tanto che nelle reference, dopo molte riflessioni, abbiamo deciso di mettere la recensione del New York Times dove lo definivano un tender noir. La trovo perfetta, perché non è né un crime né un drama, ma un tender appunto”.
La letteratura, la scrittura: ecco le fondamenta di Clemart
Harvey Weinstein, prima dello tsunami giudiziario che lo colpì, a Cannes confessò che la scelta più moderna per un produttore è puntare sul classico, sul mercato editoriale. “Un buon libro – disse a chi scrive, passeggiando per il Marché du Film di Cannes – è sempre la scelta giusta. Porta con sé un popolo di appassionati, e inoltre su pagina viaggiano le idee più innovative. Infine, così, sulla scrittura sei un pezzo avanti”.
Annuisce Gabriella Buontempo “ma non intendo trascurare il mondo degli sceneggiatori. È evidente la nostra attenzione verso gli scrittori, La bruttina stagionata la intercettammo, comprandone i diritti, prima che vincesse il premio Bancarella. Ma ci interessano nel senso più ampio del termine gli “autori”. Anche perché ormai chi scrive per il cinema, spesso affronta anche l’editoria come destinazione delle proprie opere. Ci interessa la contaminazione dei linguaggi e se pure le nostre storie per un abbondante 70% arrivano dai libri – e qui parlo soprattutto di televisione -, per il cinema cerchiamo spesso storie originali e in questo senso sogniamo, a dire la verità la stiamo approntando e vedrà la luce a breve, una factory incentrata sulla scrittura cinematografica”. Il primo passo, intanto, è stato diventare soci “dell’accademia di scrittura creativa fondata da Leonardo Colombati ed Emanuele Trevi, Molly Blloom. Per ora è stata un’iniziativa personale, non societaria, ci siamo scoperti sostenitori di quella realtà a cose fatte!”.
Sul cinema, continua la produttrice, “privilegiamo storie nuove perché probabilmente lì amiamo cercare esordienti, opere prime e seconde, il terreno fertile e entusiasmante che c’è in un talento che nasce. Anche grazie al nostro lavoro. Penso all’enorme soddisfazione di battezzare un cineasta di valore come Hleb Papou con Il legionario (selezionato a Locarno nella sezione Cineasti del Presente e vincitore, tra gli altri, del Cerveteri Film Festival), i successi di critica e nei festival ci hanno reso davvero felici”.
Gli esordi come bussola, anche quando chi si cimenta per la prima volta dietro la macchina da presa è un mostro sacro della recitazione, un’icona televisiva come Luca Zingaretti.
“Lì c’è la curiosità di scoprire le immagini che ha dentro un artista così esperto e fuori dagli schemi, alle prese con un autore incredibile come Daniele Mencarelli – già intercettato dalla serialità con il bellissimo Tutto chiede salvezza di Francesco Bruni – che a Luca e noi ha dato La casa degli sguardi, il romanzo precedente a quel successo dove racconta ciò che avviene dopo. Un po’ come Guerre Stellari!”.
Con Mencarelli sembra esserci una sintonia simile a quella costruita con Maurizio De Giovanni, una corrispondenza di cinematografici sensi. “Abbiamo opzionato anche Fame d’aria, lo troviamo bellissimo, ha un modo di scrivere che per molti versi, nell’adattamento, non va neanche toccato, è immaginifico e pieno di ritmo e profondità. Vogliamo affrontarlo con tutta la cautela possibile, è il suo libro più politico, “.
Clemart, un po’ A24 un po’ Indigo
Una factory di scrittura, l’accademia, tv e cinema. Una boutique che sembra seguire gli esempi nobili come A24, ma anche, qui in Italia, come Indigo (che pure è quasi coeva come nascita). “Abbiamo il desiderio di costruire una filiera creativa, un ecosistema che abbia dentro formazione, produzione, arte e creazione, ci vorrà tempo” ammette Massimo Martino.
Clemart: arte, produzione ma anche formazione
“Tutte cose che poi facciamo già – ribadisce Gabriella Buontempo -, in ogni nostro lavoro non ci accontentiamo di fare qualcosa di qualitativamente alto, ma vogliamo portare conoscenza e formazione, tornando a Ricciardi noi, in sintonia con De Giovanni (che ha fatto la stessa cosa con Bonelli per l’adattamento a fumetti dei suoi capolavori, pretendendo disegnatori e sceneggiatori campani), abbiamo costruito nuove professionalità a Napoli. E non solo, penso alla città di Taranto, un vero e proprio teatro a cielo aperto in cui girare e dove siamo stati a lungo per ricostruire la Napoli degli anni ’30 di Ricciardi, siamo stati riconosciuti come tra i pochi che lì hanno portato un valore. Ci hanno dato dei pazzi, invece noi siamo andati lì con la nostra squadra e ne abbiamo creato altre, costruendo percorsi formativi e professionali importanti (orizzonte, che ricordiamo, ha proposto come alternativo all’Ilva anche Michele Riondino ritirando il premio come miglior attore protagonista agli ultimi David di Donatello per Palazzina Laf). Ce lo ha riconosciuto anche Gianrico Carofiglio, che non regala nulla e che ci ha raccontato di aver indagato molto, da magistrato, sul Tarantino: girava per il set con il naso all’insù ripetendo “avete fatto un miracolo, gira tutto come un orologio”. E dopo di noi in tanti sono andati a girare lì. Che devo dirti, ci piace essere degli apripista”.
Un moto di orgoglio la scuote. “La nostra indole è questa, non ci poniamo neanche il problema se sia giusto o conveniente, siamo così e basta. Restituire qualcosa del bello che si è avuto da questo mondo ci sembra il minimo. E farlo rimanendo un po’ artigiani, non facendoci cannibalizzare dalla prospettiva di enormi guadagni, ma mantenendo una struttura e una dimensione che ci consenta di rimanere indipendenti, ci appare come la strada più giusta”.
“In fondo perché chiedersi se altri lo farebbero? Se vuoi trasformare storie in immagini proprio sano di mente – incalza Martino – non devi essere” dice ridendo. “La passione ti porta a superare ostacoli, fregature e sì, anche convenienze. Tutto diventa secondario rispetto alla realizzazione di un’opera d’arte”.
Il futuro di Clemart. E del settore. “Fiducia e preoccupazione”
E guardando ai prossimi dieci anni, rispondono all’unisono. “Continuare a fare le stesse cose, ma meglio e di più. Trovare più esordienti da lanciare, alzare la qualità delle nostre serie e film, mettere a frutto l’esperienza per puntare sempre più in alto. Sperando che il comparto industriale e editoriale cresca con noi senza snaturarci e snaturarsi.,
Sulle nuove leggi e decisioni ministeriali che potrebbero piegare le gambe di molti produttori indipendenti, sono preoccupati ma anche fiduciosi. “Siamo un settore in forte crescita, con tante voci narranti – e noi tifiamo per tutti i nostri colleghi, il loro successo fa bene a tutti, il boom di C’è ancora domani di Paola Cortellesi ci ha portato gioia vera, noi facciamo parte di quel fuoco e chiunque lo alimenti con la legna scalda tutti noi – che racontano il nostro paese. Siamo una cinematografia e una scenografia naturale che attraggono naturalmente risorse dall’estero, il problema è che continuando così dal punto di vista legislativo rischiamo una battuta d’arresto violentissima. Il problema è soprattutto d’impostazione culturale: se invece di un settore economico in salute continuano a considerarci solo un comparto ludico, perpetueranno un errore fondamentale. Così come andare in contrazione in un momento di tale espansione. È ora che dobbiamo investire, come fatto da noi, Clemart, durante il Covid: università, ricerca, formazione, arte devono andare avanti insieme e invece sembrano fermarsi. Così si ammazza un paese, cosa che non succede in Spagna o in Francia per esempio”.
È così attrattivo, il cinema italiano, ma anche la serialità televisiva che I Bastardi di Pizzofalcone va in onda in contemporanea in Italia e nei paesi ispanofoni, dalla Spagna tal Sud America e pure in Francia, mentre Il commissario Ricciardi, pur indietro di una stagione, ha trovato posto e gradimento “in Inghilterra per poi andare anche su Prime America”. Un successo di cui non cogliamo tutte le sfumature, perché spesso nascosto in comunicati tecnici, ma che dice tanto delle potenzialità del nostro mercato.
E di Clemart, ovviamente. “E lo stesso sta avvenendo per Il metodo Fenoglio – L’estate fredda (serie ideata proprio da Gianrico Carofiglio), a cui è stata d’aiuto la collaborazione con la tedesca BETA, anche perché il libro da cui è tratto è stato in classifica in Germania e nel Regno Unito”.
Si tengono le novità all’ultimo. “Siamo sul set della terza stagione de Il commissario Ricciardi – ancora impersonato dall’ottimo Lino Guanciale e diretta da Gianpaolo Tescari – e stiamo lavorando su quattro libri. Anzi quattro autori e cinque libri”.
Cinque progetti per quattro scrittori
Si guardano, esitano, poi decidono che sì, è bello condividere nuove avventure che dalla pagina si tuffano nelle immagini.
“Intanto Alba nera e La svedese di Giancarlo De Cataldo, il secondo è già molto avanti”. Lo dice Massimo Martino e stupisce l’annuncio, perché sono tra i testi più duri del grande scrittore, il primo sull’anima purulenta della società attuale, sulla notte della ragione delle nostre città tra sadici e torturatori, femminicidi e altri delitti infami, il secondo su una ragazza di borgata che diventa un’iconica boss, la Svedese appunto. “Quest’ultima sarà una serie”. E a lavorarci in sceneggiatura sarà “Alessandro Fabbri – già autore con Rampoldi e Sardo di 1992, 1993 e 1994 – e sua moglie Laura Colella”. A prenderla dovrebbe essere la Rai, partner privilegiato ma non unico di Clemart.
Per il cinema, oltre al progetto “appena nato di Fame d’Aria – aggiunge Buontempo – arriverà l’opera seconda di Hleb Papou, che si chiamerà Il blindato. Genere simile, ma questa volta scommettiamo su un cast più importante”. Il Papouverse comincia a costruirsi ed è affascinante come il titolo del suo secondo film richiami l’ambientazione della prima scena del suo esordio.
“Sarà una bella sorpresa, un action drama”.
Un rimando di location che riguarda anche Massimo Martino. Laddove si tiene gran parte de Il legionario, ovvero nello stabile ex Inpdap occupato da Spin Time a Via Santa Croce in Gerusalemme 55 a Roma (dove ora vorrebbero peraltro fare un albergo, magari in tempo per il Giubileo), lavorava suo padre. “Appena entrato ho subito riconosciuto i posti in cui scorrazzavo da piccolo, soprattutto nel periodo natalizio quando arrivavano i pacchi regalo. E ricordo che io andavo in questa sala enorme e vedevo montagne di cibo e scatole infiocchettate. E ora ho un altro motivo per rimanervi affezionato, perché il soggetto politico che agisce al suo interno ha un ruolo importante che noi abbiamo voluto rispettare”.
E mentre da fuori arrivano proposte per remake dei Bastardi e di Ricciardi “ancora mai andati in porto, anche se con Channel 4 siamo arrivati molto avanti” assicurano “che qualsiasi cosa farà Maurizio noi ci saremo, ci sono altri autori su cui abbiamo scommesso”.
Ed è dal futuro che si capisce come Clemart abbia orizzonti davvero molteplici e anche estetiche e visioni altre e alternative a quelle che l’hanno portata al successo.
“Stiamo parlando con gli sceneggiatori – riprende Gabriella Buontempo – a proposito di tre libri e universi radicalmente opposti. Da una parte Il cognome delle donne di Aurora Tamigio, il suo esordio, anche questo incontrato prima che diventasse un caso. Questa saga familiare al femminile ci ha conquistato subito. Poi c’è Sara Penelope Robin, tiktoker che Massimo seguiva nei mille rivoli dei suoi interessi. Ricordo che mi diceva sempre “lei è una bomba” e mi suggeriva di vederla, poi per questioni di lavoro va a Napoli e le scrive per incontrarla. Lei declina, deve lavorare al suo libro. Lui alza le antenne e se lo fa mandare. Lo legge e mi chiama e mi dice “devi leggerlo subito, è pazzesco”. Parlo di Tarantelle condominiali, mi invia il pdf, rimango nella camera d’albergo in cui ero e in due ore lo finisco. Infine l’ultimo lavoro di Alessia Gazzola, Una piccola formalità, una rom com ma che tratta problemi anche seri, un’autrice che parla ai nostri nipoti”. Diventeranno film o serie? “Chissà” rispondono sorridendo.
E il fatto che siano tre donne l’orizzonte del loro immediato avvenire, così diverse e così piene di talento, a loro sembra naturale. Eppure cinema e tv continuano a essere avvelenate da un maschilismo strutturale. Non per Clemart, che punta su chi merita. Indipendentemente dal genere. E dai generi narrativi, ovviamente.
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