“Ah, The Hollywood Reporter Roma”, riflette meditabondo Costantino della Gherardesca non appena risponde al telefono. “Bello, una specie di accenno alla dolce vita”. Tra le regole che si è dato il conduttore c’è non sottovalutare mai chi lo ascolta, perché “nell’era dell’informazione, per vendere bene anche un calzone – e mi riferisco alla pizza, figuriamoci i pantaloni – bisogna conoscere la cultura e la comunicazione a 360 gradi”. E si vede: mentre parla, della Gherardesca oscilla costantemente tra il sacro e il profano, tra Duran Duran, E.R., Gus Van Sant e Lav Diaz; nel suo mestiere, tra il podcast di arte contemporanea ArteFatti e Pechino Express.
Del reality di avventura ha appena concluso l’undicesima edizione e, mentre partecipa come opinionista a Donne sull’orlo di una crisi di nervi di Piero Chiambretti su Rai 3, della Gherardesca si prepara per la nuova stagione di Quattro matrimoni. Lo show, come Pechino Express, è Sky Original e prodotto da Banijay Italia; dal 2 giugno si potrà trovare tutte le domeniche su Sky, in streaming su Now e sempre disponibile on demand.
C’è qualcosa che non ha ancora fatto? “Un format sul dating. Mi divertirebbe, perché sono la ‘spinster’ perfetta – in italiano sarebbe zitella, ma in inglese non ha accezione negativa. Una volta filavano il cotone, mantenevano la famiglia”. E qualcuno con cui, purtroppo, non ha mai lavorato? “Con degli animali marini. Non l’ho mai fatto, ma vorrei. Finora, solo mammiferi”.
Sta per ricominciare Quattro matrimoni su Sky. Lei ha dichiarato più volte che le relazioni sentimentali non sono una delle sue preoccupazioni principali: cosa la attira di uno show sui matrimoni?
Innanzitutto, l’Italia è il Paese più gettonato al mondo per sposarsi. Quindi cosa c’è di meglio, televisivamente, di far vedere cerimonie italiane in cui chi sogna da anni il matrimonio vuole fare le cose in grande, dove c’è il mito dell’esagerazione, dei soldi spesi? La cosa che mi diverte di più, poi, è ovviamente il confronto finale. È un po’ come il confronto di Pechino Express, dove le coppie rosicano perché non sono arrivate prime, ma a Quattro matrimoni è basato esclusivamente sul piano “io sì, tu no”. Come dire, “vita mia, morte di bomboniera tua”.
È appunto reduce anche da Pechino Express, dove il format mischia diverse personalità dell’intrattenimento. Che differenza c’è tra lavorare con le spose di Quattro matrimoni, rispetto a persone che già masticano la televisione?
Come prima cosa, per Pechino non si fanno i casting, si scelgono degli avventurieri. E poi, i concorrenti si comportano in un modo diverso quando, non so, arrivano a destinazione, fanno 50 gradi e non c’è la carta igienica: la maschera cade. C’è anche da dire che pochi di loro sono “televisivi”, perché un conto è essere della televisione, diverso è andare in televisione. Le spose, invece, sono fortemente amate da me perché loro sono naturalmente delle star, delle Liza Minnelli. È il loro giorno. Non vogliono sembrare buone e brave, non vogliono far vedere che vogliono bene ai bambini o che hanno fatto amicizia con le vecchie signore. Vogliono far vedere che sono le più belle, che il loro catering è il migliore, che il loro matrimonio è il più favoloso. Sembrano le meno showbusiness di tutte, ma paradossalmente lo sono di più, perché farebbero il salto nel vuoto a prescindere dalle telecamere: sono le creature più feroci della giungla, per citare i Duran Duran.
Di Pechino Express si è appena conclusa l’undicesima edizione – un programma a tutti gli effetti ormai longevo. Qual è la sua formula vincente, secondo lei?
Il cambiamento. I Paesi dove andiamo con Pechino cambiano sempre più velocemente, e cambia anche la forma del programma, anche solo da un punto di vista banalmente tecnico. Penso, per dire, ai droni sempre più stabili, sempre più simili alle macchine da cinepresa. E, come diceva uno sketch di Monkey Dust, la miglior televisione non può essere analizzata, perché cambia continuamente forma. Pechino Express lo fa, perché di volta in volta i Paesi stessi cambiano governo, economia. Per esempio, la prima volta che siamo andati nel nord della Cambogia era una terra praticamente inesplorata. Ho fatto esperienze che metterebbero a dura prova esploratori… [ride, ndr] più virili di me. Adesso, invece, è una meta che consiglierei a una coppia per il viaggio di nozze. È una terra che mantiene le proprie tradizioni Khmer uniche nel sud-est asiatico, dove però sono arrivati anche un lusso, una night-life tipicamente asiatici, per niente occidentali e quindi non globalizzati.
Parlando di viaggi, me ne dica uno che porta nel cuore.
Sicuramente le tre volte che sono stato in Iran, anche perché adesso, naturalmente, non si potrebbe più rifare. Ero stato accolto con un calore straordinario. Pensi che, in realtà, non sono propriamente riuscito a visitarlo, perché lì è considerato di cattivo gusto rifiutare un invito a una cena. Accadeva quindi che a Teheran mi invitassero ogni volta per la sera successiva e allora, che fai? Rimani lì. Alla fine, luoghi come Shiraz, Yazd, la tomba di Ciro, non li ho mai visti. Ho visitato solo Teheran, tutta, però.
E un viaggio che deve ancora fare?
Ero molto affezionato a uno dei miei nonni, faceva dei collage dadaisti simili all’arte di Hannah Höch. Non lo vedevo spesso e non aveva molti soldi – era un bohemienne. Mi fece un regalo in vita sua, un VHS sulla Mongolia. Ecco, vorrei andare in Mongolia.
Menzionava prima “la miglior televisione”. C’è una frase, attribuita a Platinette, che afferma che la tv non deve essere perfetta, perché “fa orrore”: la tv deve piuttosto essere imperfetta, e deve sembrare vera. È d’accordo? In cosa la televisione che fa lei è perfetta, o imperfetta?
Beh, nulla è perfetto in generale. Lo diceva anche Platone, che le cose possono essere perfette solo aprioristicamente: un cavallo o una barca senza difetti possono esistere solo nel mondo delle idee. Quando si entra nel materiale, la perfezione è impossibile.
Vale per tutto e vale anche per la televisione, quindi.
La televisione che tenta di essere perfetta stona con il pubblico, che si sentirà facilmente tradito e ingannato. Una cosa che tengo a fare, quindi, è non sottovalutare lo spettatore come si faceva anni fa, anche perché mi sembra poco rispettoso. Insomma, da parte mia tendo a non credere che esista la famosa “casalinga di Voghera” che guarda qualsiasi cosa. Oramai, non c’è più.
Da quando, secondo lei?
Da quando c’è stato E.R. – Medici in prima linea. È stato un programma innovativo, che ha portato le tematiche mediche al grande pubblico – tematiche a cui gli italiani tengono molto perché, diciamoci la verità, siamo un popolo di ipocondriaci, ci prendono in giro in tutta Europa. Pensi che quando andò in onda E.R. ci furono più arruolamenti in tutti i volontariati d’Italia. Quando il pubblico si rende conto di poter avere una televisione che aderisca ai temi a lui cari – le malattie, nel caso degli italiani – non farà più il passo indietro.
Qual è, adesso, il passo successivo per l’intrattenimento, invece?
È la grande domanda della comunicazione in questo momento. Noi della generazione X siamo cresciuti voyeuristi nelle nostre camerette, mentre con i social le generazioni successive sono passate dal volersi informare al volersi esibire. Gli influencer, insomma. La domanda è quindi che forma prenderà la generazione del post-esibizionismo. Sicuramente, la cosa che si avvicina di più finora a una risposta è l’intelligenza artificiale, comunque vaticinata già più di cent’anni fa da libri come Frankenstein di Mary Shelley.
In che senso?
Come ha scritto Jeanette Winterson in 12 Bytes, il punto di Frankenstein non era tanto il pericolo della scienza o il populismo della folla inferocita col dottore, bensì i dubbi che la gente del tempo aveva sull’elettricità e sui suoi usi potenziali. Che poi, la cosa incredibile è che quel romanzo fu scritto in una vacanza organizzata da Lord Byron, che chiese a tutti i suoi amici di scrivere un libro in una competizione – apro una parentesi, il romanzo di Mary Shelley ebbe più successo di tutti quelli del marito messi insieme, e lui rosicò non poco – ma Lord Byron non partecipò alla gara. In quel periodo era preso dalla battaglia legale per l’affidamento della figlia, Ada Lovelace, che fu poi la prima donna a programmare un computer.
Torno un attimo alla televisione: come le sembra sia cambiata in questi anni, dal suo esordio con Piero Chiambretti?
Secondo me è migliorata, anche se serve un’analisi distanziata. Da vicino sembra peggiorata, magari rispetto al fatto che per alcuni “non si può più dire nulla”. Ma se si va a vedere una qualsiasi offerta di una qualsiasi piattaforma oggi, si troveranno film che negli anni Quaranta avrebbero fatto schedare gli autori come dei sovversivi.
In Rai, però, per esempio, molti lamentano un impoverimento del servizio pubblico, giudicandolo filogovernativo.
Se si parla di televisione si deve parlare di un “media text” che va da TikTok a un film di Lav Diaz proiettato nelle Filippine, non si può pensare di circoscriverla a un paio di canali italiani. Altrimenti, se chi fa informazione non riporta ciò che succede in tutto il mondo ma solo ciò che accade in Italia, allora sì che c’è l’autarchia di cui la gente dice di aver paura. Dice, perché poi le posizioni politiche sono un po’ delle t-shirt, oggi.
In questo momento è in Rai ogni martedì proprio con Chiambretti, che nella scorsa puntata di Donne sull’orlo di una crisi di nervi scherzava dicendo che lei è nato da una sua costola. Cosa le ha insegnato?
Piero mi ha insegnato una cosa molto importante, non fare preamboli in televisione. E questo glielo dico dopo un preambolo che partiva dall’Ottocento con Mary Shelley sul lago di Ginevra [ride, ndr]. No, no, intendeva nella televisione dal vivo. Quando scriviamo ci possiamo divertire di più, Steinbeck creava l’ambientazione, coi preamboli.
Se dovesse scegliere un film, un libro e un’opera d’arte, quali sceglierebbe?
Oddio, ci devo pensare. Visto che siamo in tema di lunghi preamboli che creano lo scenario, per il libro direi La valle dell’Eden di Steinbeck. Per quanto riguarda il film, la risposta facile è Quinto potere di Sidney Lunet, ma va a braccetto con Da morire di Gus Van Sant, con Nicole Kidman. Entrambi, a modo loro, sono satire spietate della televisione. Per l’opera d’arte… [fa una pausa, ndr] Untitled (Perfect Lovers) di Félix Gonzáles-Torres. Sono due orologi da parete, uno accanto all’altro. Segnano la stessa ora, ma non è mai precisamente la stessa: perché anche gli amanti perfetti non potranno mai essere in totale sintonia.
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