Generazione Z al cinema, dietro e davanti la macchina da presa: arrivano i giovani che ci credono

Scrivono sceneggiature, ci mettono la faccia come attori e attrici, studiando nelle accademie. Sono le leve artistiche degli anni Duemila con talento da vendere e le idee chiarissime sul messaggio: basta ghetti, cliché, pregiudizi. Romana Maggiora Vergano, 25 anni: "Roma ha una luce dalla quale si può sempre ripartire"

Questo articolo sulla Generazione Z del cinema italiano è pubblicato nell’edizione cartacea di The Hollywood Reporter Roma, Numero 1, in cui i protagonisti della 18esima edizione della Festa del Cinema di Roma raccontano la loro Roma e i loro luoghi del cuore. Filippo Barbagallo è presente alla Festa del Cinema con Troppo Azzurro, di cui è regista e attore, Romana Maggiora Vergano recita in C’è ancora domani di Paola Cortellesi.

 

“Il cinema fatto bene, quello che ti lascia qualcosa, ti stupisce e ti rapisce, non è raggiungibile senza studio. Trovo piuttosto ottuso pensare di formarsi da soli. Io voglio studiare fino a ottant’anni, perché è questo l’unico lavoro che posso fare e pretendo di farlo al meglio”. Ne è sicuro Gianmarco Franchini, 19 anni, giovane protagonista di Adagio, il film di Stefano Sollima presentato a Venezia 80 che racconta una Roma apocalittica. Recitare è il suo unico desiderio e per renderlo concreto studia all’accademia Yvonne D’Abbraccio.

Palestre per formarsi

Se c’è un elemento che non manca al cinema italiano attuale è la volontà. Quella di una nuova generazione che vuole ritrovarsi e riconoscersi sullo schermo. Di pari passo con un’Italia sempre più in evoluzione e sempre più multiculturale. Aspiranti cineasti, attori e attrici, sceneggiatori e sceneggiatrici, tutti e tutte, prima o poi, si ritrovano a Roma. Antico teatro di storia e cultura, fonte d’ispirazione per chiunque di cinema voglia vivere. Ma anche casa delle più grandi accademie che insegnano il mestiere. E infatti le scuole d’arte stanno rivivendo una stagione fertile grazie alla Generazione Z. Palestre per giovani talenti underground che – come il Centro sperimentale, la Scuola d’arte cinematografica Gianmaria Volonté e l’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico – nella maggioranza dei casi hanno sede nella capitale.

Roma pullula di vita, di idee e di passione delle nuove leve: c’è chi ha appena finito gli studi ed è approdato sul grande schermo, chi conosce l’ambiente e lo frequenta, chi è in attesa di debuttare con l’opera prima. “Vivere a Roma è una grande possibilità. È un posto che può sembrare statico, fermo, ma che invece suscita ogni giorno sensazioni inedite. Faccio veramente fatica a immaginarmi in un altro luogo che non sia qui” dice Filippo Barbagallo, 28 anni, ex studente del Csc. Regista e sceneggiatore, debutta anche davanti alla macchina da presa nel suo Troppo Azzurro, presentato nella sezione Freestyle della edizione 2023 della Festa del Cinema di Roma. Un racconto in cui la città fa da sfondo a una storia di transizione verso l’età adulta, con la ricerca di un’indipendenza simile al Sacro Graal, visti i tempi.

Le “seconde generazioni”

La comune esperienza delle accademie per la Generazione Z, però, si declina spesso anche in altre forme e contesti. Aron Tewelde, romano di 26 anni e figlio di genitori eritrei, pur descrivendo con entusiasmo il suo triennio alla Silvio D’Amico, racconta di essere stato l’unico studente di “seconda generazione” del corso. E spiega: “Nelle scuole servirebbero più testi che parlano a noi e di noi, che siamo figli e figlie di questo Paese. Più storie da raccontare”. E su questo Yothin Clavenzani, 20 anni, (Notte fantasma, Skam) aggiunge: “Per me è necessario che lo studio ci aiuti a esprimere noi stessi e la nostra complessità”.

È anche per questo che interpreti come Valeria “Val” Wandja, 25 anni, si dedicano sempre più alla scrittura, “per creare personaggi in cui riconoscersi e che non siano incompleti”. Lavoro che si traduce in progetti indipendenti (Fangs) con la certezza che “esiste un pubblico pronto ad accogliere la nostra narrazione”. Che poi è lo stesso principio su cui si basa l’agenzia di cui Wandja fa parte, Wariboko di Charity Dago, la cui missione è creare sempre più spazio per i talent afrodiscendenti in Italia, con ruoli lontani dai comuni stereotipi.

Roma è, per la maggioranza, punto di partenza e d’arrivo. “Risiede tutto qui: i set, le occasioni di conoscere l’ambiente, gran parte delle produzioni” spiega Romana Maggiora Vergano, 25 anni anche lei, che qui ha trovato la sua casa e il suo set grazie a C’è ancora domani di Paola Cortellesi, esordio alla regia dell’attrice romana e film d’apertura della kermesse capitolina. Storia di “una luce, quella della nostra città, dalla quale si può sempre ripartire”, aggiunge.

Generazione Z e cinema, doppio binario

Luce che investe e attrae a sé anche attori con un diverso background. Come Livio Kone, 29 anni, milanese di origini ivoriane, co-protagonista della serie Rai Noi e del film Crazy for Football, che nella Capitale ha trovato lavoro e ascolto. Rispetto al Nord, “c’è un’atmosfera singolare, un calore diverso”. Forse perché è uno dei luoghi del cinema italiano in cui è più facile scambiarsi diverse visioni del mondo “purché ci sia sempre dietro uno studio consapevole, indispensabile per approcciare questo mestiere”.

“C’è una capacità di noi romani di entrare in sintonia, in relazione con l’altro, ed è percepibile anche sullo schermo”, racconta Lea Gavino, classe ‘99, protagonista della quinta stagione di Skam. La serie (più di ogni altra) racconta la Roma vera degli adolescenti, tra primi amori, difficoltà d’integrazione, scoperta di sé ma anche delle difficoltà relative a una quotidianità complessa, frenetica, che non fa sconti. Quella stessa frenesia che a volte rende la città invivibile. Una grande metropoli doppia, che corre veloce nonostante il suo essere cristallizzata in una bolla. Roma sa essere incredibilmente multiforme: “caotica e troppo rumorosa, ma allo stesso tempo immutabile” conclude Vergano. Una dicotomia destinata a rimanere eterna, così come lo spirito di una città che, nonostante tutto, riesce ancora ad alimentare il talento. E questa nuova generazione ne ha da vendere.

Più interculturalità

Ciò che manca ancora, però, è l’interculturalità, la visibilità di realtà che vadano oltre la periferia cittadina e abbraccino le minoranze. Sara El Debuch, nata a Damasco e cresciuta a Roma, ha 28 anni e lunghi capelli rossi e ricci, che ha scelto di non coprire più con il velo. Dopo il debutto come attrice in Border, la sua decisione l’ha portata fuori da uno stereotipo, riducendo inaspettatamente le opportunità di carriera: “È paradossale, prima il velo mi rendeva visibile, perché ero l’unica attrice araba e bianca a indossarlo”.

Roma, per lei e tanti altri, è un’arma a “doppio taglio”, un amore-odio irrisolvibile che spesso porta a guardare all’estero dove, nonostante le difficoltà nel conciliare religione e recitazione, si può aspirare a ruoli da protagonisti. Oggi, per il cinema romano, il rischio è quello di farsi sorpassare dalla maggiore attenzione e rapidità delle serie tv, che intercettano prima e meglio i cambiamenti in atto. A suo modo l’ha fatto anche Zero su Netflix, che fra i registi conta anche Mohamed Hossameldin, egiziano cresciuto a Garbatella (ai David di Donatello nel 2019 con il corto Yousef), che descrive la sua periferia senza etichette politiche. Nelle sue opere narra il senso di isolamento di “due identità da conciliare” e di quella parte di sé che “si lascia indietro per integrarsi e con cui diventa sempre più difficile dialogare”.

Incontri necessari

Parla di incontro e non di integrazione, invece, Amin Nour, regista (Ambaradan) e attore fuggito dalla guerra in Somalia, a Roma dagli anni Novanta. Nella sua idea di cinema affiora l’Ubuntu di Mandela: “io sono perché noi siamo”. Fondamentale è l’ascolto dell’altro, il rifiuto dei cliché, anche se il sistema produttivo attuale poggia proprio sugli stereotipi “alimentando una rappresentazione ghettizzata o tragica dell’esperienza non bianca”.

Assente spesso è la commedia, con l’eccezione di Bangla di Phaim Bhuiyan. Il regista romano è certo che siano ancora molte le storie invisibili, a causa di uno “scollamento tra gli autori e un’Italia che cresce già da tempo”. E che spinge per affiorare sulla superficie degli schermi, per sollecitare pubblico e produzioni. Ma se Roma al cinema vuole davvero rispecchiare la realtà, bisogna essere pronti a mutare radicalmente. A partire dal basso. Lasciando spazio a una generazione che vuole raccontarsi alle sue condizioni.