Francia, America, Spagna. Sicuramente lo avrete visto da qualche parte. È così Denis Ménochet, si sposta di continuo, da una produzione all’altra. Senza soluzione di continuità, ma proprio per questo delineando un percorso limpido e variegato, fatto di progetti hollywoodiani, pellicole dal sapore europeo e opere prime di registi a cui affidarsi. È capitato con Guillaume Renusson, all’esordio con Sopravvissuti, in cui Ménochet recita al fianco della carismatica Zar Amir Ebrahimi di Holy Spider – e prossimamente al cinema con Tatami (4 aprile). Storia di due solitudini che si incontrano ai confini di un mondo ostile, dove il diverso viene mal visto e si cerca solo un posto da poter chiamare casa. Come succedeva in As Bestas di Rodrigo Sorogoyen, di cui era protagonista.
Sopravvissuti è in sala dal 21 marzo, mentre aspettiamo Denis Ménochet nel prossimo Rumours con Cate Blanchett – prodotto da Ari Aster, la “persona migliore del mondo” per l’attore francese, che per l’autore di Hereditary e Midsommar è stato una figura enigmatica e inquietate nell’ultimo Beau ha paura.
Survival movie e xenofobia. Cosa l’ha colpita per primo della sceneggiatura di Sopravvissuti: lo sforzo fisico o l’argomento del confine, incredibilmente attuale?
Il rapporto tra i due protagonisti. Due solitudini in lutto. Questo elimina qualsiasi preconcetto e, quindi, qualsiasi xenofobia. Si tratta solo di un uomo e di una donna che entrano in contatto. Zar Amir Ebrahimi è fantastica. E questa sinergia tra personaggi, per Guillaume Renusson, ha trasformato il film in un semplice racconto di sopravvivenza a una mescolanza di generi. È impossibile non pensare a Sopravvissuti come, anche, a un film horror. Almeno per me.
L’ha detto lei, Zar Amir Ebrahimi è un’attrice incredibile, da Holy Spider a Tatami ce ne stiamo rendendo sempre più conto. Come avete lavorato sulla connessione per i vostri personaggi?
È stato facile. Zar ha già di per sé una storia intensa alle spalle. Non solo è un’attrice straordinaria, ma una persona come poche altre. Abbiamo parlato molto della sua vita privata prima di girare una scena centrale del film, quella delle chiavi. Un oggetto che nella storia rappresenta la casa, l’appartenenza e le persone care. E, in quell’occasione, si è aperta con me. Ha raccontato di come lei stessa ha dovuto lasciare la sua terra e tutta la troupe si è fermata ad ascoltarla.
Un’alternanza tra emotività e fisicità non indifferente. Avevate degli stunt o avete girato voi le sequenze sulla neve?
Nessuno stunt, nessuna acrobazia. In una scena dovevo correre in mezzo alla neve e portare il personaggio di Zar in braccio. Avevo tutta la gamba coperta fin sopra il ginocchio, la troupe era lontana circa duecento metri e continuavo a lottare con la natura mentre dovevo muovermi e muovermi ancora. Pensavo soltanto: vi prego chiamate lo stop, vi prego, sto morendo. E invece sento che mi urlano: non è che potresti sparire dall’inquadratura? Così vedo la montagna davanti a me, calcolo quanto ancora dovrò correre prima di scomparire e penso: ok, morirò.
Nel 2022 è stato protagonista di As Bestas, scritto e diretto da Rodrigo Sorogoyen. Un altro film che, come Sopravvissuti, parla di radici e appartenenza. A fronte di queste due storie, ha ragionato su cosa rappresenta per lei il concetto “casa”?
Casa è dove ti senti bene. Non è necessariamente da dove le tue radici partono, ma è un ambiente in cui sai di essere libero. Ho paura che la mia possa sembrare una risposta stupida, ma la verità è che sono molto fortunato, vivo in Bretagna, vicino al mare, avvolto nella natura. Per me è facile dire che mi sento bene nella mia casa. Ma per altre persone la realtà è diversa. È per questo che facciamo film.
Per attivare coscienze?
Non sono un esperto di economia, non mi intendo di strategie politiche, ma so che portando la mia umanità in una storia posso davvero toccare le persone. Il pubblico può rivedersi nelle esperienze che i personaggi vivono sullo schermo e possono rendersi più consapevoli di quanto gli esseri umani debbano lottare per conquistare un posto nel mondo. E c’è chi riesce a prendere da quella saggezza e parlarne anche agli altri. È il motivo per cui sono diventato attore. È un mestiere che esiste da 2000 anni. La gente da sempre va a vedere gli spettacoli perché ha bisogno di interrogarsi su chi siamo, e ha bisogno di farlo stando insieme ad altre persone.
Sta dicendo che ha fiducia negli esseri umani?
Certamente. Sarebbe folle non averne.
Cosa potrebbe creare complicazioni?
Ad oggi credo la tecnologia. L’esposizione sui social ha alimentato giudizi, commenti, odio. Si ha paura delle persone perché le si vede soltanto attraverso un telefono o un computer. Bisogna ricordarsi che ogni giorno potresti incontrare qualcuno per strada che potrebbe salvarti la vita. E non importa da dove proviene.
Si sente una persona migliore dopo il film?
Cerco di essere una persona migliore ogni giorno. È una lotta.
Il tema del diverso, della paura dell’altro e del razzismo sono argomenti che il cinema francese tratta con costanza. Cosa rende il paese tanto sensibile?
Più grande è l’industria, più importanza si può dare a diversi racconti. E forse si percepisce una maggiore sensibilità perché, come produzione, si ha la possibilità di investire in più visioni e opinioni, che possono riguardare anche lo stesso argomento.
Politica e cinema, in fondo, sono interconnessi. Pensiamo al discorso di Jonathan Glazer sul conflitto Israele-Palestina. Cosa ne pensa?
È esattamente ciò a cui mi riferivo. È giusto che tutti abbiano una voce, ma avendo anche tutti un telefono è come se ci si sentisse autorizzati a insegnare, predicare e dettare giudizi su tutto. Ho ragione io, no ce l’ho io, no tu hai torto. Non è un meccanismo in cui voglio incastrarmi, l’incubo digitale di una danza ossessiva da social. Se ho qualcosa da dire, lo dico con i film, come ha fatto Jonathan Glazer col suo incredibile La zona d’interesse.
A proposito di Oscar, orgoglioso per i premi ricevuti da Anatomia di una caduta?
Moltissimo. Ero nella giuria di Cannes quando è stato premiato con la Palma d’oro, vedere quanto ha viaggiato non solo è un orgoglio, ma una benedizione. È fantastico che un film francese sia riuscito a esplodere per il mondo. Succede raramente e, quando accade, è una bellissima sensazione. Comunque anche La Passione di Dodin Bouffant, che non è rientrato nella cinquina del film internazionale, è una delle migliori pellicole dell’anno. E ti fa venire una gran fame!
Le piacerebbe lavorare con Justine Triet?
Certo, ma solo se c’è la storia giusta.
Cosa l’ha convinta ad affidarsi ad un esordiente come Guillaume Renusson?
La sua energia straordinaria. Sul set conosce tutti, parla con tutti. Non è stato facile girare perché c’è stata la pandemia di mezzo, ma ero al sicuro sapendo che col suo grande talento era il capitano giusto per la barca su cui stavamo viaggiando. Abbiamo dovuto aspettare undici mesi tra l’inizio e la fine delle riprese. Undici mesi, ma la maniera in cui la crew ha affrontato le intemperie è stata meravigliosa. Avevamo il gruppo whatsapp più vivo che abbia mai visto: auguri, compleanni, bambini, nascite e tutto il resto. Per un attore è importante immergersi in un ruolo per l’intera lavorazione, ma con Sopravvissuti è stata più la determinazione nel voler portare a compimento il progetto a mantenere alto il coinvolgimento di tutta la squadra. Che periodo bizzarro la pandemia, quanto dolore e quante morti abbiamo vissuto. È stato terribile, ma è stato anche per esorcizzare tutto questo che ci siamo impegnati a portare a termine il film.
Dal lavoro in Francia alle produzioni internazionali. Ha sempre voluto portare l’umanità nei film, ma da bambino non ha mai sognato di diventare una stella di Hollywood?
No, perché lo stesso recitare è nato da un incidente. Avevo diciotto anni e non sapevo cosa fare della mia vita. Stavo fallendo negli studi, seguivo un corso di arabo perché sono cresciuto a Dubai da bambino e volevo continuare a tenermi allenato. Un giorno vado a comprare delle sigarette e mi imbatto in un’insegnante di recitazione. Mi disse di andare a seguire qualche corso, le ho detto che non avevo soldi, mi ha risposto che potevo andare gratis. E mi ha cambiato la vita. Da lì ho partecipato a film francesi, ma anche statunitensi, canadesi, spagnoli.
Allora anche a lei una persona per strada le ha salvato la vita.
Esattamente, cosa le dicevo?
E dopo il debutto ne L’amore sospetto di Emmanuel Carrère è passato subito a Hannibal Lecter – Le origini del male.
Altro grosso incidente. È stato per via del mio amico Gaspard Ulliel. Lo stavo aiutando a lavorare sul personaggio di Hannibal Lecter perché sapeva che sono ossessionato da Anthony Hopkins. Per ringraziarmi, ha parlato di me al regista. Così ho avuto una piccola particina.
Altra particina l’ha avuta nel 2023 in Beau ha paura. Le dispiace che il titolo di Ari Aster non abbia ricevuto un’accoglienza più calorosa, pensando alla stagione dei premi appena conclusa?
Ari è uno dei più grandi giovani registi della sua generazione. Nonché una delle mie persone preferite al mondo. Mi ha visto nel film Custody, mi ha contattato e ci siamo sentiti su Zoom. Era in Canada e mi ha detto che ci sarebbe stato anche Joaquin Phoenix, con cui avevo girato in Sicilia Maria Maddalena. Allora mi ha detto: ‘Dai, vieni a giocare con noi’. Beau ha paura resisterà alla prova del tempo. Ari è un ragazzo straordinario, un autore che ha davvero qualcosa da mettere sul tavolo, come i fratelli Safdie e Greta Gerwig. Hanno messo in atto un cambiamento meno supereroistico e più orientato sul cinema, di cui Ari è il leader. Adesso è anche alla produzione di Rumours, film in cui recito accanto a Cate Blanchett diretto da Guy Maddin e Evan & Galen Johnson. Un’opera su un G7 in cui tutto va storto.
Grazie mille signor Ménochet, abbiamo finito. Una curiosità, dopo Sopravvissuti è tornato in montagna?
No e per un po’ continuerò ad evitarla. Ma andrò presto, promesso.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma