Che tenerezza, Sant’Amadeus di Pyongyang. “La politica resti fuori da Sanremo”, dichiara il caro leader del festival della fu canzone italiana in un’intervista ad un mese esatto dall’inizio dell’entusiasmante grande delirio collettivo in cui il paese precipiterà con chirurgica precisione ancor prima che s’alzi il sipario dell’Ariston: è un po’ come quelle catartiche feste di paese in cui si bruciano tutte le suppellettili, oppure i fantocci di streghe, per esorcizzare l’inverno. Così fa il conducator Amadeus Jong-un, che declama una verità incontestabile che ovviamente significa il suo opposto (come sapevano bene i cremlinologi della guerra fredda): la politica, dice Ama, “deve stare lontana da Sanremo: il festival è il più grande appuntamento musicale del paese e chiunque lo fa, deve farlo in assoluta indipendenza”.
Certo, come no: peccato che Sanremo sia completamente, indubitabilmente, completamente e intrinsecamente politica. Lo è sempre stato e sempre lo sarà. Da che mondo è mondo tutti i presentatori nessuno escluso afferma che “la politica” si deve tenere lontana dal festival, che “a comandare sono solo le canzoni”, ma ovviamente non è mai stato così: lo sanno i presentatori, lo sanno i direttori artistici, lo sanno gli agenti delle star, lo sanno i capistruttura della Rai, lo sanno i cantanti, lo sanno i muri. E lo sanno ovviamente i politici: non pochi esponenti della categoria ad ogni starnuto, ad ogni sommovimento di foglie atteso o inatteso sul palco dell’Ariston, ad ogni occasione per un nuovo posizionamento, fanno partire come da riflesso pavloviano la raffica delle furenti dichiarazioni ora indignate, ora censorie, ora ammonenti.
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Senza considerare che – per come è organizzata l’Italia, che è fondamentalmente un sistema feudale – sono i numeri a rendere il festival “politico”: il responso del Dio Auditel può determinare i destini dei vertici della televisione di Stato, la quale a sua volta – com’è ben noto – è incredibilmente una delle principali arene di contesa delle forze politiche del paese, quasi quasi uno dei Risiko preferiti dei suoi rappresentanti eletti, nonostante la grande crisi e la trasformazione in atto del piccolo schermo.
Il bello è che – in un certo senso molto paradossale – Sanremo rappresenta uno dei punti d’equilibrio della politica del Bel Paese, un po’ come l’elezione per il Quirinale: ed è per questo che la logica delle larghe intese ha espresso il buon Amadeus per ben cinque edizioni di seguito. Infatti, non è un caso che il democristianissimo ma illuminato Pippo Baudo abbia guidato la baracca sanremese tredici volte (è il record). Lo ha fatto tra il 1968 e il 2008: sono due date che separano mondi, galassie e svariati multiversi, in mezzo ci sono le rivolte studentesche, Tangentopoli, le prime e le seconde repubbliche, un vortice della storia nel quale incredibilmente Sanremo è sempre rimasto un pilastro del paese.
Dunque non sorprende affatto che il novello Kim Jong-un venuto dalla Romagna (copyright Fiorello) corra, nella suddetta intervista, a citare il Gran Baudo: “Ricorda che le polemiche faranno parte di Sanremo, se non ci saranno, non sarà festival”, disse saggissimo il Pippo al successore durante un leggendario pranzo.
Appunto. Ricordiamo che ai bei tempi il sommo Baudo il primo giorno del festival incedeva tra i tavoli del roof dell’Ariston come un monarca, inseguito da una piccola corte di frementi funzionari Rai che sembravano paro paro gli ufficiali sempre muniti di blocnotes che rincorrono il caro leader nordcoreano: era ritenuto estremamente significativo quando Re Baudo si fermava presso un giornalista piuttosto che un altro, evento degno di scatenare invidie, rabbie e vendette trasversali, lasciando stupefatte le decine di inviati speciali dei media russi che tradizionalmente affollavano il festival (nella speranza di una ennesima resurrezione di Al Bano o di Pupo).
E allora: metti che qualcuno dei cantanti in gara oppure uno degli ospiti non resista a dichiarare qualcosa sull’Ucraina o su Israele che possa contenere un mezzo alito di controversia, o metti che una sera per un verso o per un altro a qualcuno non venga lo sghiribizzo di dire un soffio che abbia al centro i diritti LGTBQ in una tonalità non digeribile dai comunicati stampa Rai, ed ecco che la frittata è fatta.
E poi quest’anno il caro leader – uno dalla cui bocca non senti mai e poi mai uscire una parola brutta, una cosa un po’ sgradevole – dovrà pure fare a meno del consiglio del suo Richelieu personale (per certuni più un Rasputin), ossia di Lucio Presta, il manager delle star: il perché della rottura dopo un sodalizio di tanti anni è ufficialmente un mistero. “Divergenze lavorative e professionali che erano iniziate l’anno scorso”, scrivevano le testate più informate.
Ora, non è poca cosa, considerato che Presta rappresenta gli interessi, tra gli altri, di Roberto Benigni, Ezio Greggio, Marco Liorni, Michele Santoro, Myrta Merlino, Simona Ventura. C’è chi ci tiene a ricordare che Presta ha fatto da co-produttore a diversi festival, ossia quelli condotti da Paolo Bonolis, Antonella Clerici e Gianni Morandi (oltre a quelli di Amadeus, of course). Qualcuno aveva sostenuto che il manager avesse cominciato a lavorare perché l’anno prossimo il festival tornasse nelle mani di Bonolis: chissà, magari c’entra con i “dissapori” di cui si diceva prima?
Come non bastasse anno domini 2024 il Sant’Amadeus ha l’ingrato compito di tenersi su un equilibrio sottilissimo: è un anno dall’avvento di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, c’è da garantire e al tempo stesso tenere a bada una certa dose di sovranismo, qualsiasi sussurro in un senso o nell’altro sarà preso come un assalto ai valori fondanti del paese, i mandarini di Viale Mazzini sono nervosissimi per molti ascolti generali molto pessimi e dunque sperano nell’esorcismo sanremese di cui sopra, lo stesso elenco dei cantanti in gara è un esercizio straordinario di equilibrismo che in confronto la compilazione delle liste elettorali sono uno scherzo.
Sta di fatto che la ballata della “politica che si tenga lontana dal festival” viene intonata ogni anno in quel di Sanremo. Che tenero Amadeus che la canticchia a tutti gli italiani come una rassicurante filastrocca d’inizio 2024. Ma le favole le raccontiamo ai bambini, non ci crediamo più da tanto tempo.
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