Ilinca Manolache: “Il cinema di Radu Jude spinge ad evolversi. Come i social media, con cui mi diverto a sperimentare”

La protagonista di Do Not Expect Too Much from the End of the World, fuori concorso al Torino Film Festival 2023, porta nel film dell'autore rumeno il suo avatar Bobita, "uomo" maschilista, volgare e tossico con cui cerca di criticare i giorni d'oggi. E che somiglia paurosamente a Andrew Tate. L'intervista con THR Roma

Ilinca Manolache è esattamente come ci si aspetterebbe. Probabilmente è normale quando si ha a che fare con gli interpreti di un autore tanto vivido e elaborato come Radu Jude. C’è da considerare anche che Do Not Expect Too Much from the End of the World è la quarta collaborazione tra l’attrice e il regista rumeno. Un’affinità intellettiva, che confluisce tutta nei film in cui lavorano insieme.

Nell’opera in anteprima allo scorso festival di Locarno, nella sezione fuori concorso del Torino Film festival 2023 (e possibile candidata agli Oscar come film internazionale), Jude inserisce anche l’avatar social – e maschile, e tossico, e realmente presente online – di Manolache. Una storia che alterna la quotidianità di una protagonista alle prese con il suo lavoro, tra problemi personali, imprevisti lavorativi e uno strano parallelismo con un film del 1981.

Cosa l’ha spinta, nel corso della sua carriera, ad avvicinarsi a un autore come Radu Jude?

Siamo al quarto lavoro con Radu. Ciò che mi ha attratto del suo modo di fare cinema è l’universo che è stato in grado di creare attorno a sé. Dalla sua personalità, alla sua mente, fino al modo di vedere la vita. È un mondo incredibilmente stimolante. Lui stesso è una persona affascinante. Speravo di conoscerlo e adoro la sua presenza. L’ho capito fin dal primo film insieme, I Do Not Care If We Go Down in History as Barbarians, a cui abbiamo lavorato nel 2016 (uscito successivamente nel 2018, ). Più lavori con Radu più ti fa venire voglia di averlo vicino.

Pensa che negli anni sia cambiato il vostro modo di lavorare insieme? Magari si è evoluto, proprio come il suo cinema.

È cambiato perché mi fido ancora di più di lui. Lo rispetto ancora di più. Mi spinge ogni volta a imparare cose nuove. Apprezzo molto la sua curiosità, il suo desiderio di assorbire il più possibile ciò che lo circonda. Credo sia questo a renderlo così fresco, coraggioso e articolato, sono presupposti che lo rendono attaccato ai tempi che stiamo vivendo. Ogni volta che gira un film Radu racconta l’esatto momento in cui si trova. Anche quando ha girato Aferim!, in cui trattava della schiavitù dei rom in Romania. Il suo approccio è sempre moderno. E questo rende moderni, creativi e ancorati al presente anche i suoi interpreti.

Non è un caso che Do Not Expect Too Much from the End of the World dia una visione così contemporanea del femminile, mettendo a confronto il suo personaggio con la tassista del film anni ottanta. Anche qui vede della modernità?

C’è un terzo elemento che fa si che una simile rappresentazione salti fuori. Il dialogo tra il presente di Angela e il film del passato è cambiato ulteriormente quando Radu ha deciso di inserire nel film anche il mio avatar maschile, Bobita, un “uomo” che si esprime in maniera super tossica sui social. Dall’opera saltano così fuori più voci che dipingono la contemporaneità. C’è il confronto tra Angela e la protagonista anni ottanta. C’è la storia di Ovidiu Pîrsan, vittima sul posto di lavoro a causa di un’industria iper capitalista. Si crea una conversazione vulnerabile tra personaggi che descrive la nostra società e che, ad ogni visione, ha il potere di mostrare sempre qualcosa di nuovo.

La storia di Ovidiu Pîrsan viene utilizzata anche per mostrare che, ad oggi, forse tendiamo ad essere come anestetizzati di fronte al dolore degli altri.  Una leggera critica al fatto che non ci tocca più niente?

Radu è la persona giusta per questa domanda. Ma che sia una critica oppure no, sono certa che il film permetta di riflettere esattamente su quanto ormai rimaniamo impassibili di fronte alle atrocità che ci passano davanti agli occhi ogni giorno. È come se ci fossimo abituati a soffrire e per questo motivo non reagiamo più. O, se lo facciamo, è in scala minore.

È per questo che nasce Bobita? Come valvola di sfogo?

Sì. Volevo criticare, reagire, oppormi alla tossicità che respiro nella società criticandola e agendo a mia volta. Dimostrare che bisogna lottare contro certi meccanismi, non dando per scontato che bisogna accettarli.

Come vive, dunque, questo suo rapporto con i social?

Passo molto tempo su TikTok. Comprendo il dibattito sul pericolo che possono creare i social, ma è impossibile non considerare quanto queste piattaforme siano importanti per tante voci che, altrimenti, rimarrebbero inascoltate e che online possono formare una comunità. È fondamentale che chiunque si senti rappresentato e che si dia un palcoscenico anche a chi, per troppo tempo, gli è stato negato.

Ma perché proprio Bobita?

Stando molto sui social seguo tante persone. Bobita nasce dopo un mio periodo di ricerca. Ad aver innescato la scintilla è stata Miranda July, attrice e regista che, con delle videochiamate messe sui social, ha finto un amore impossibile tra lei e Margaret Qualley. Qualley era una stella nascente e stava in giro per il mondo a promuovere i suoi film, e con July hanno instaurato questa relazione virtuale. L’ho trovato un espediente brillante e moderno per sperimentare le mie capacità da attrice, da unire al desiderio di trovare una voce personale sui social. Bobita nasce per criticare lo stesso tipo di personaggio che incarna. E la cosa che fa ridere è che mi sono resa conto solo molto tempo dopo che assomigliava a Andrew Tate, me l’ha fatto notare per la prima volta la stampa a Locarno.

Considerando il suo feeling con Radu Jude, cosa cerca nel cinema sia come attrice, che come spettatrice?

Vorrei ci fossero più film sperimentali. Mi piace vedere opere che sfidino il mio senso critico, la mia capacità di analizzare le cose. Ho come una sorta di paura verso tutto ciò che è commerciale, al cinema o a teatro. Preferirei veder circolare più voci femminili, radicali. Sentirmi sfidata da un cinema che magari non capisco subito, ma che mi fa venire voglia di evolvere.